A una cena di classe due ragazzini tirano fuori lo smartphone e mostrano il proprio registro elettronico. Il primo chiede: ‘A te si è alzata?’. ‘No’, dice mogio l’altro. Parlano della media generale: un numeretto inutile, lo dico da madre e da insegnante, perché non dice niente sul reale andamento di un alunno e concentra tutta l’attenzione sul voto”. Valentina Petri è professoressa di italiano a Vercelli e dal 2017 condivide le sue storie di scuola sulla pagina Facebook Portami il diario, che ha dato anche il nome al suo primo romanzo.
“La pandemia ha estremizzato la tendenza alla performance nella scuola: è aumentata l’ansia da prestazione, alimentata sia dagli insegnanti sia dai genitori. I ragazzi faticano a capire che il voto non sempre li rispecchia, perché in primis sono gli adulti a caricare di significato questi numeri. A sentire lo stress non è solo chi arranca in classe, ma anche i più dotati”.
Oggi nel mondo della scuola c’è grande attenzione alla prestazione e al risultato. Il nuovo governo ha cambiato il nome del ministero, ora dell’istruzione e del merito, e da quest’anno il bonus cultura per i diciottenni lo riceverà solo chi ha preso il voto massimo all’esame di maturità. Poi ci sono le prove Invalsi, le certificazioni linguistiche e le attività formative facoltative, che mettono continuamente alla prova le capacità dei ragazzi. Alcuni licei, per selezionare i nuovi iscritti, chiedono di superare un test e valutano la media dei voti in terza media. La maggior parte dei corsi universitari è a numero chiuso e nella selezione tengono in considerazione il punteggio della maturità.
Aspettative tossiche
Sempre più adolescenti faticano a restare dentro queste logiche competitive e sui social network si trovano centinaia di testimonianze di giovani che soffrono del cosiddetto gifted kid burnout: una condizione di stress e ansia che vive chi da bambino è considerato particolarmente intelligente e bravo a scuola, che crescendo sente la pressione di dover continuare a soddisfare grandi aspettative. Il termine gifted kid burnout è nato negli Stati Uniti, dove esistono programmi specifici per studenti valutati come gifted o “plusdotati”, ossia con capacità cognitive superiori alla media.
“Mi definivano intelligente e superdotata, e io ne andavo ero fiera”, racconta Leanna in una sua canzone su TikTok. “Attraverso i test cognitivi, mi sembrava di dimostrare di meritare il loro amore. Ora non riesco più a raggiungere quei risultati, ma ancora lotto per ottenere la loro approvazione”. E Shayla scrive su Instagram: “Credere di essere più intelligente della maggior parte delle persone intorno a te non è un buon modo di crescere: non conosco un solo ragazzo gifted che da grande non soffra di depressione, ansia o problemi di abuso di sostanze”.
Sentirsi ripetere quanto si è bravi alimenta una tendenza al perfezionismo che impedisce di avere aspettative realistiche su se stessi
Il fenomeno non trova ancora riscontro nella letteratura scientifica, ma in rete se ne parla moltissimo. “In tanti si identificano in questo malessere, non solo chi è plusdotato”, spiega Christopher Cossovel, psicologo esperto in psicopatologia dell’apprendimento. “Capita spesso che i genitori si focalizzino eccessivamente sulle prestazioni dei figli, creando delle aspettative tossiche e passando il messaggio che l’amore nei loro confronti dipenda dai risultati raggiunti. Come conseguenza, i bambini si concentrano sul risultato, invece che sull’impegno e sul processo, finendo per pensare che il loro valore in quanto esseri umani dipenda da questo. Quando diventano adulti, continuano a sentire questo peso: pensiamo ai casi di studenti universitari che si tolgono la vita dopo aver mentito per anni sull’avanzamento della propria carriera accademica, che in realtà era bloccata”.
Durante lo sviluppo, sentirsi ripetere quanto si è bravi alimenta una tendenza al perfezionismo che impedisce di avere aspettative realistiche su se stessi. Una volta cresciuti, è difficile mantenere gli stessi standard di successo: visto che tutto dipende dal talento e dall’impegno del singolo, ogni fallimento è vissuto come una sconfitta personale. “Qui non c’è solo un problema di competitività, ma anche di identità”, afferma la sociologa Chiara Saraceno, portavoce dell’Alleanza per l’infanzia. “Se il mio modo di pormi verso l’esterno è sempre stato basato sull’essere bravo, quando questa caratteristica viene meno finisco per chiedermi: allora io chi sono?”.
La scuola delle etichette
La psicologa Carol Dweck, nel libro Teoria del sé, spiega che etichettare i bambini come “eccellenti” li porta a inibire la propria curiosità e a porsi in situazioni meno sfidanti, per non veder frustrate le aspettative proprie e altrui. Dweck consiglia di considerare l’intelligenza e il talento non come qualità innate e immodificabili, ma come caratteristiche potenziabili. “La scuola dovrebbe smettere di funzionare come un votificio”, commenta Enrico Galiano, insegnante ideatore della webserie Cose da prof, autore di diversi libri tra cui Scuola di felicità per eterni ripetenti. “Il voto è tranchant ed è difficile da interpretare: un numero non spiega gli errori e non evidenzia i punti di forza. I ragazzi si sentono etichettati e fanno molta fatica a uscire da questa gabbia”.
I risultati che si ottengono a scuola però non dipendono solo dal merito, tutt’altro: l’ultimo rapporto Invalsi mostra che in Italia gli allievi eccellenti sono presenti in una percentuale più che doppia tra chi proviene da un ambiente socioeconomico avvantaggiato. Le differenze territoriali rimangono consistenti e tendono ad aumentare al crescere dei gradi scolastici. Un ulteriore fattore riguarda la relazione tra i risultati degli studenti e il titolo di studio dei genitori: all’aumentare di quest’ultimo, migliorano anche le performance in classe. Il World economic forum ha definito l’Italia un paese “a bassa mobilità sociale”, per le scarse possibilità che ha chi proviene da un background socioeconomico più basso di migliorare la propria condizione: ci collochiamo 34º posto dopo Lettonia, Slovacchia e Israele.
“Chi proviene da famiglie benestanti ha più probabilità di riuscire a scuola, perché solitamente a casa riceve più stimoli”, spiega Chiara Saraceno. “È stato dimostrato che attività come leggere, viaggiare, visitare un museo, favoriscono lo sviluppo cognitivo fin dalla primissima infanzia. Di fronte a questo, la retorica del merito viene svuotata. L’articolo 34 della nostra costituzione afferma che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, ma in primis bisogna favorire lo sviluppo della meritevolezza: non è un dono di natura, ma va coltivata ognuno secondo le proprie capacità”.
“Molti alunni ad alto potenziale hanno uno sviluppo asincrono: al livello cognitivo anticipano le tappe, mentre al livello emotivo e relazionale sono ancora bambini
Anche per chi ha un’intelligenza sopra la media il percorso scolastico può diventare tortuoso. L’Italia è ancora uno dei pochi paesi dove non esistono programmi specifici per bambini ad alto potenziale o gifted: circa il 5 per cento degli studenti delle nostre scuole ha un alto potenziale, ma non sempre questo è riconosciuto e adeguatamente supportato. Le conseguenze vanno dall’underachievement, ossia la discrepanza tra il rendimento scolastico e gli indici di capacità di un bambino, a problemi socio-relazionali con compagni e insegnanti, fino all’abbandono scolastico più o meno precoce.
“Le famiglie spesso si trovano sole ad affrontare queste difficoltà”, spiega Maria Assunta Zanetti, fondatrice del LabTalento, il Laboratorio sullo sviluppo del potenziale del talento e della plusdotazione dell’università di Pavia, che dal 2009 ha trattato più di mille casi di studenti gifted. “Dagli anni sessanta negli Stati Uniti esistono percorsi ad hoc per i bambini plusdotati, mentre in Italia ancora non ci siamo mossi. La scuola dovrebbe accompagnare tutti nella piena realizzazione delle proprie capacità: negli ultimi anni gli istituti si sono attrezzati per rispondere adeguatamente ai bisogni di chi ha disturbi dell’apprendimento, deficit intellettivi o disabilità, mentre verso chi ha una plusdotazione non c’è la stessa attenzione”.
Nel 1994 una raccomandazione del Consiglio d’Europa ha sottolineato la necessità di sviluppare il potenziale dei bambini gifted. In Italia, però, è ancora scarso il personale docente formato per riconoscere l’alto potenziale e mettere in campo percorsi ad hoc. “Molti alunni gifted hanno uno sviluppo asincrono: a livello cognitivo anticipano le tappe, mentre a livello emotivo e relazionale sono ancora bambini”, spiega Zanetti. “Questo squilibrio tra il quoziente intellettivo e il quoziente emotivo può generare un senso di inadeguatezza e bassa autostima: è come dare in mano una Ferrari a un neopatentato”. Alcuni presentano anche disturbi comportamentali e socio-emotivi, come isolamento sociale, ansia, deficit di attenzione e iperattività, oppure disturbi dello spettro autistico.
“Durante la pandemia, nelle neuropsichiatrie infantili abbiamo visto sempre più casi di adolescenti con sintomi di tipo depressivo, autolesionistico o con disturbi del comportamento alimentare, che poi si sono rivelati plusdotati”, spiega Elisa Fazzi, presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. “In casi come questi si possono individuare situazioni di doppia eccezionalità, perché l’alto potenziale si combina con disturbi psichiatrici o del neurosviluppo. Con l’emergenza sanitaria, molti di loro si sono ritirati da scuola e hanno abbandonato le relazioni sociali: spesso le loro difficoltà non erano comprese, perché l’alto profilo cognitivo mascherava il loro malessere”.
Per valorizzare l’individualità e le caratteristiche personali dei bambini ad alto potenziale, il LabTalento organizza formazioni per gli insegnanti e laboratori per i ragazzi e le loro famiglie. A occuparsi di plusdotazione ci sono anche altre realtà, come l’associazione Gate Italy e la società Sem Italy, che collabora con il Renzulli center for creativity, gifted education and talent development dell’università del Connecticut, proponendo attività didattiche strutturate su un metodo specifico, il “modello di arricchimento scolastico”.
“A scuola il mio talento è sempre stato considerato una perdita di tempo”, racconta Gaia Daria Miolla, 22 anni, di Bari. “Sono sempre stata molto eclettica: quando avevo cinque anni ho scritto il mio primo libro e ho vinto un premio letterario, a nove suonavo il pianoforte e poi la batteria e la chitarra”. Gaia è una ragazza ad alto potenziale, eppure fin dall’elementari ha avuto grandi difficoltà a scuola: ha cambiato nove istituti ed è stata bocciata tre volte. “Le insegnanti mi consideravano casinista e nullafacente, ma erano loro a non capire il mio approccio: piuttosto che imparare le nozioni a memoria, preferivo realizzare un disegno o comporre una canzone, ma per loro questo non era ‘studiare’. A 16 anni suonavo nei teatri in giro per l’Europa, e le professoresse dicevano a mia madre: ‘Basta con questa musica, sua figlia si deve concentrare sulla scuola’”.
È stato solo in quarta liceo che Gaia ha fatto il test e ha scoperto di essere una ragazza ad alto potenziale. “Ho informato la scuola, che avrebbe dovuto ideare un piano di studi personalizzato”, ricorda. “Questo non è successo, anzi: un’insegnante mi ha preso in giro davanti alla classe, chiamandomi ‘ragazza speciale’. Mi sentivo stupida e incapace. L’arte è stata la mia terapia: appena uscivo da scuola, correvo in sala prove”. Nel 2018 Gaia ha partecipato al programma televisivo The voice of Italy, e ha realizzato tre brani per la colonna sonora della fiction Oltre la soglia. L’anno scorso ha vinto la Biennale MArteLive di Roma, selezionata nella categoria musica con il suo progetto da cantautrice solista, con il nome d’arte Gea. “Se avessi saputo prima di essere gifted, almeno avrei dato un nome al mio disagio e avrei evitato molte situazioni di solitudine e bullismo”, conclude. “Almeno adesso so chi sono”.
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