Costruire un “argine all’avidità di avere tutto e comunque” perché la maternità è una delle “poche cose negate agli uomini che si sono presi nei secoli tutto il resto”. Guardando in prospettiva e mettendo a fuoco una realtà in cui sono tanti i bambini che si possono adottare. È una via complessa e articolata quella indicata dalla filosofa Roberta De Monticelli interpellata da ilFattoquotidiano.it sui confini etici della gestazione per altri. Una pratica, vietata in Italia ma regolamentata in alcuni paesi. Un meccanismo che più che ledere la dignità delle donne, che offrono il loro utero, circoscrive il danno a quello che la studiosa definisce “una negata fioritura“.
Per la docente, ordinaria di Filosofia della Persona all’Università Vita Salute San Raffaele, “il problema etico non si porrebbe affatto se si inventasse un utero artificiale (purché capace di assicurare al feto le condizioni anche affettive di sviluppo, che sono legate in natura all’unipatia gestatoria) e un parto acconcio”. Riflessioni che superano la superficie di un dibattito quasi manicheo in cui i politici di destra hanno deciso che la pratica è un abominio su cui non si discute e gli altri per ora pongono la questione sulla difesa dei diritti dei bambini già nati e che non possono essere discriminati da tutti gli altri. Sullo sfondo, quasi in ombra, la distanza che appare incolmabile tra le coppie formate da due donne che possono ricorrere alla fecondazione eterologa e le coppie formate da uomini la cui aspirazione a essere padri può essere soddisfatta solo con la gestazione per altri. Una via potrebbe essere quella della legalizzazione della maternità surrogata solo a “solo a condizione che sia gratuita”.
Secondo lei la gestazione per altri lede la dignità della donna?
È certamente una pratica che alla gestante fa male, salvo rarissimi casi di vera e completa partecipazione affettiva e relativa inclusione almeno virtuale nel nucleo familiare. E in ogni caso dovrebbe essere offerta a titolo più che gratuito, direi “surerogatorio”, come quando si fa molto di più che il dovere: ad esempio si sacrifica la propria vita per salvarne altre. Forse però – nel caso più generale della gestazione compensata economicamente – sarebbe più chiaro non parlare di dignità lesa, che comporta sempre uno svilimento della persona, ma di capacità offesa o negata fioritura, il cui prezzo è una mortificazione della donna. Per la quale la maternità può essere una felicità grande e un’autorealizzazione molto specifica. Una delle poche cose negate agli uomini che si sono presi nei secoli tutto il resto. Perché per forza anche questa? Anche se, naturalmente, discorso diverso vale per le coppie eterosessuali sterili. Ma perché una donna dovrebbe cercare una felicità al prezzo della mortificazione di un’altra donna? Con tutti i bambini da adottare che ci sono?
Molti politici di destra considerano la pratica come un abominio, quelli di sinistra evitano l’argomento. Perché è così difficile esprimersi su un argomento che benché delicato può potenzialmente riguardare molte più persone di quello che si pensa?
Non sarebbe così difficile, forse, se si avesse cura di distinguere i due problemi che la destra ha volutamente mescolato: la registrazione legale dei figli, che è un diritto umano e di pari dignità, assolutamente incontestabile qualunque sia l’origine dei figli stessi e la gestazione per altri. E non ci sono contro-argomenti all’universalità del diritto di riconoscimento, perché la registrazione non cancella affatto il diritto del bambino a conoscere le proprie origini, anzi, nulla vieta di proteggere anche questo diritto. Peraltro, anche se si concorda con l’idea che la gestazione per altri sia auto-lesiva anche se consensuale, non ne segue necessariamente che bisogna proibirla: un’altra e migliore soluzione, in un mondo ideale, sarebbe quella di “rimuovere gli ostacoli” – cioè la miseria – che induce le donne a infliggersi questa pratica, nella stragrande maggioranza dei casi.
Davvero è possibile pensare che ricorrere alla gestazione per altri significa reificare l’essere umano?
Qui la questione è: chi reificherebbe chi? In base a un liberalismo comprensivo, cioè alla filosofia morale più congenita alle democrazie liberali, la questione del consenso fa un’enorme differenza. In un modello contrattualistico, la reificazione o negazione della libertà morale è presente solo se a disporre del proprio corpo non è la persona stessa, adulta e autonoma. Ma una proibizione legale di disporre del proprio corpo (senza recare danno a terzi) invece si avvicina pericolosamente a una tale “reificazione”: non sei tu a decidere cosa fare di te stessa, ma decido io, Stato, per il tuo bene. Per questo chi proibisce accampa danni a terzi (il bambino). Anche se questi sono difficilmente dimostrabili (vedi sopra). Tuttavia si pone evidentemente un problema analogo in tutte le situazioni in cui il “consenso” sembri più disperato che autonomo. Quindi torniamo al suggerimento di prima: meglio “rimuovere gli ostacoli” della miseria. E magari scoraggiare fortemente la mercificazione di questa pratica legalizzandola solo a condizione che sia gratuita – come alcuni paesi hanno fatto.
Essere genitore – a dispetto di sesso o malattie che lo impediscano – può o deve essere un diritto minore?
Io vedo un progresso nell’umanizzazione della natura, vale a dire il fatto che cadano sotto le nostre libere decisioni circostanze che in altri tempi erano parte di un cieco destino: se e come morire, ad esempio, quando la vita sia divenuta umanamente insostenibile; chi e come amare, quale identità di genere abbracciare, come e in che direzioni allargare la propria famiglia, etc. Tuttavia da sempre normare queste nuove libertà (quindi proteggerne ma anche delimitarne il diritto) comporta bilanciarle con l’eguaglianza in dignità e diritti, che le nuove libertà possono offendere. Dunque il diritto di essere genitore si potrebbe considerare “minore”, in una legislazione ideale, nella misura in cui fosse condizionato non necessariamente dai limiti biologici, ma dalla superiore obbligazione – dato il superiore valore – della crescita in pari misura per tutti delle opportunità di vita piena, umana, realizzata. Che vuol dire anche che il legislatore certamente non deve prendere decisioni morali al mio posto, ma è giusto che ponga un argine a quella che Aristotele chiamava la pleonexia: in sostanza, l’avidità di avere tutto e di più, comunque. Ci sono tanti e tanti bambini al mondo che hanno bisogno di genitori adottivi.
Se una pratica è tecnicamente possibile quali criteri deve rispettare per essere anche lecita e accettata?
Sempre gli stessi: rispetto del libero consenso personale dove esistano questioni di coscienza, rispetto della pari dignità e dell’eguaglianza di opportunità in ogni caso.
Il limite biologico per un uomo ad avere un bambino è anche un limite necessariamente etico?
No, qui non vedo alcun nesso. Il problema etico non si porrebbe affatto se si inventasse un utero artificiale (purché capace di assicurare al feto le condizioni anche affettive di sviluppo, che sono legate in natura all’unipatia gestatoria) e un parto acconcio, come con Dioniso che fu cucito dentro la coscia di Zeus quando sua madre Semele rimase folgorata dallo stesso Zeus. Il problema qui sarebbe che non ci deve essere nessuna morte e anche nessuna mortificazione di Semele. I problemi etici implicano sempre, direttamente o indirettamente, le relazioni con gli altri.
Si parla di gestazione per altri solidale. Eliminando le relative questioni economiche che si innescano con questa procedura così com’è attualmente in molti casi si può pensare di eliminare il limite etico?
Appunto, è il caso che ho ipotizzato sopra di una prestazione gratuita e surerogatoria. “Solidale” tuttavia mi sembra un termine ancora molto debole. Si solidarizza con uno che perde il lavoro, non con uno che desidera un figlio. Si può ritenere che una persona amata che non può averlo altrimenti lo meriti più di ogni altra cosa, perfino al prezzo di un mio grande sacrificio. Non la chiamerei solidarietà.
In molti paesi la gestazione per altri – Canada, Usa e diversi stati europei – è regolamentata. Perché in Italia le questioni etiche non vengono mai affrontate e ineluttabilmente finiscono al vaglio dei giudici?
C’è una componente di grande ignoranza da parte di chi si trova, nelle contingenze elettorali, a divenire legislatore, in questi tempi di populismi. Ma anche un problema specificamente italiano, fatto di cialtronaggine proterva che scambia le leggi con bandierine identitarie. Ne abbiamo avuto altri esempi in questa legislatura.
Il clamore della discussione con posizioni così estreme è giustificato quando si parla di diritti civili o addirittura umani?
Mi pare che tutto quello che ci siamo detti inviti a toni più civili e soprattutto a un maggiore esercizio di discernimento, distinzione, analisi, chiarezza. Che poi è ciò che lega l’etica alla logica.
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