L'estetizzazione della vita quotidiana si è imposta all'attenzione degli intellettuali come portato antropologico della nuova fase postmoderna. Quest'ultima, rea di aver trasformato in cultura gli aspetti più materiali delle relazioni sociali, otterrebbe, fra le sue immediate conseguenze, uno sfilacciamento della dimensione collettiva a favore di un nuovo narcisismo di massa, in cui l'esistenza, sentita come imprescindibile prerogativa dell'individuo, è vissuta quale opportunità di scavalcamento egoistico dell'alterità.
Chi critica il primato dell'estetizzazione, intendendola come svuotamento della concretezza sociale, si colloca a favore di una posizione critica che ribadisce la necessità di smascherare le falsità sociali imposte dal tardo capitalismo.
Una posizione più morbida e confermativa, che si presta facilmente a un assorbimento neoliberale, ha visto nella diffusione pervasiva dell'estetica - intesa come possibilità per l'individuo di concepire la propria esistenza come sempre più artefatta performatività - un'occasione di liberazione da, e di oltrepassamento del, sé rigido e normativo della modernità. Una chiara allusione a questa tesi si può reperire già fra i teorici del primo pensiero debole, e trova un suo terreno di elezione, qualche anno prima, nei movimenti controculturali di contestazione. Nell'odierna riflessione sociale, una terza ipotesi sdogana le conseguenze filosofiche più agguerrite del culturalismo: dal momento che l'attuale fase economica sembra inscindibile dall'emancipazione porosa della cultura in tutti gli ambiti della realtà, è inutile rimarcare la necessità di articolare il momento della produzione materiale di merci a quello della generica diffusione culturale, semplicemente perché tale articolazione non sussiste. Al contrario, la cultura è diventata una sorta di contenitore indifferenziato di senso in cui giocare la partita politica, al di là del tradizionale schema marxista che pensa il legame dialettico tra struttura e sovrastruttura. Ritengo questa possibile terza via troppo compromessa allo spirito del nuovo capitalismo: continuo a pensare che il dovere di una teoria critica della società sia ancora quello di dimostrare e, specie oggi, demistificare le ragioni materiali e storiche che sottendono le rappresentazioni culturali, le abitudini collettive e i comportamenti sociali. L'attuale estetizzazione della vita quotidiana appare, a chi insista su un'antropologia critica della falsificazione sociale, una strategia di annichilimento dei rapporti sociali, che si manifestano ora fondati su una radicale tensione a rendere il proprio Sé esposto, artificialmente costruito secondo logiche competitive che rimandano alle strategie totalizzanti e antisociali del tardo capitalismo.
Il libro ritrovatoChecché se ne pensi di questo dibattito e al di là delle posizioni in campo, certamente più varie e complesse, la questione dell'imitazione sociale, della moda, del sorgere cioè di comportamenti normativamente condivisi, risulta oggi dirimente. E la lettura di un libro «dimenticato» come Le leggi dell'imitazione di Gabriel Tarde - meritoriamente riproposto di recente da Rosenberg & Selllier (pp. 384, euro 30) nella neonata collana «La critica sociale» con la traduzione e introduzione di Filippo Domenicali - si pone come particolarmente interessante per l'odierna sociologia. Tarde non ha goduto di molta fama; il suo nome risalta genericamente nei manuali come oppositore del lavoro di Durkheim - contro la cui visione di un sistema coercitivo che ingabbia gli individui si schiera più volte - e viene ricordato per un passaggio in nota contenuto in Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze. Eppure, questo figlio della borghesia cittadina francese, nato nel 1843 e formatosi a Toulouse, arriva a ricoprire la cattedra di Filosofia moderna al Collège de France (viene preferito nientemeno che a Bergson) e si produce, nel corso della sua vita, in una vera e propria elaborazione sistematica che coinvolge ambiti filosofici, sociologici, naturalistici e scientifici, in perfetto spirito positivista.
Come spiega Domenicali nella sua efficace introduzione, la concezione di Tarde si muove attraverso un onnipresente monismo: tutto è ricondotto a un medesimo principio di ordine cosmico, ossia la dialettica tra differenza e ripetizione, che, nella sua particolare grammatica speculativa, assume la forma della relazione tra invenzione e imitazione. Per Tarde, l'intera società si fonda su un processo imitativo e ripetitivo: a un'imitazione corrisponde una somiglianza, che instaura una ripetizione, ovviamente sempre diversa, a sua volta successivamente imitata, in un processo che sembra non avere mai fine, e che si svolge, per Tarde, a un livello singolare, psicofisico. L'agente dell'imitazione è, difatti, una monade che, in virtù della sua infinita ambizione, tende a espandersi, a coprire ogni lembo della realtà, ad allargare il suo esempio per renderlo assoluto. Su questa strada incontra ostacoli, rallentamenti, accelerazioni, interferenze.
La società, per Tarde, è dunque un organismo composto da entità monadiche che stabiliscono di stare insieme col ricorso a un fondo comune, realizzato mediante un'assimilazione mentale sorta per via imitativa. Pur beneficiando sia della comunicazione linguistica, sia di istituzioni pedagogiche come la scuola, l'imitazione è però un fatto prima di tutto mentale, che procede dall'interno verso l'esterno: essa esercita la sua pressione sul contenuto ideale e solo in un secondo momento si concretizza in comportamenti, abitudini, modi di relazionarsi. Non sfugge poi a Tarde che, nella complessa società moderna, l'individuo carismatico riesce meglio a governare tale processo, avvalendosi del prestigio (come dato, in qualche modo, naturale) che emana e potendo così diffondere la sua autorità. Ne consegue che nessuna società sfugge alle leggi (in questo caso antropomorfiche, cioè connaturate in modo primordiale all'individuo) della gerarchizzazione.
Erosione della modernitàIl processo sociale è visto come illimitata conquista da parte delle dinamiche imitative, tale da far prevedere un'assimilazione infinitamente sempre più estesa e coercitiva, che ha fatto parlare di anticipazione degli attuali assetti politico-sociali della globalizzazione. Ma Tarde afferma perentoriamente che i continui ostacoli a cui l'imitazione è sottoposta scongiurano questo rischio, per quanto paventi - e questa tesi paradossalmente lo avvicina all'idea, oggi ripresa, di una fuoriuscita estetico-sociale dal processo di erosione della collettività portato avanti dalla massificazione capitalistica - che la somiglianza sociale possa condurre al fiorire dell'estrema differenziazione, e dunque all'individualità irripetibile e assoluta, appunto estetica. Una tesi che suona reazionaria. Quel che resta di appetibile, da un punto di vista oppositivo e critico, è lo sforzo di questo sociologo francese di mettere a tema la capacità di un universale (nel suo lessico: l'imitazione) di produrre differenza e complessità, di porsi cioè come principio assoluto di governo dei rapporti sociali. Un'intuizione che, slegata dai suoi aridi contenuti positivistici, può essere allargata, sul piano teoretico, a più aspetti dell'attuale condizione umana sotto il tardo capitalismo.
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