sabato 17 novembre 2012

SOCIOLOGIA. RICORDO DI ERVING GOFFMAN, SCOMPARSO NEL 1982, di FABRIZIO DENUNZIO, Il palcoscenico della realtà, IL MANIFESTO, 16 novembre 2012


A trent'anni dalla sua morte, l'opera di Erving Goffman conosce una nuova stagione di pubblicazioni. Sociologo eccentrico, è stato usato dall'«antipsichiatria» per poi essere dimenticato. Dopo la ripubblicazione di «Asylum», è stata la volta di «Stigma». La posta in gioco è sempre la relazione cangiante tra il singolo e la collettività



Il 19 novembre del 1982 moriva uno dei maggiori sociologi contemporanei, Erving Goffman. Andandosene trent'anni fa da questo mondo, lasciava alle scienze sociali una difficile eredità da amministrare, e questo in termini genealogici e interpretativi.
Siccome gran parte della sua formazione superiore si era svolta presso il Dipartimento di Sociologia dell'Università di Chicago (nel 1949 vi aveva conseguito un master e nel 1954 un dottorato), sembra naturale inserire il suo lavoro nel glorioso solco della Scuola di Chicago, ossia in quel filone di ricerca teso a una rigorosa riflessione sui fenomeni connotativi della vita in città. Da questa tradizione deriverebbe in Goffman la tendenza a collocare sullo sfondo metropolitano l'analisi delle interazioni tra gli attori sociali: a tale riguardo, come esempio tra tutti, si pensi a quelle «pratiche di movimento dei pedoni» che consentono loro di districarsi tra traffico, strade e negozi così minuziosamente descritte in Relazioni in pubblico del 1971.
Se la Scuola di Chicago da un lato permette di riconoscere in Goffman gli elementi caratterizzanti di una sociologia urbana, dall'altro consente di misurare l'effetto che su di lui ha prodotto l'opera di Georg Simmel. Furono proprio i sociologi di Chicago, infatti, a tradurne per primi in America alcuni saggi (penso soprattutto al lavoro di Albion W. Small, fondatore del già menzionato Dipartimento, per l'«American Journal of Sociology»). Inoltre, fu sempre un esponente della scuola di Chicago a proporre a Simmel un trasferimento a Chicago, cosa che non ebbe seguito. Attraverso il sociologo tedesco, o meglio, attraverso la mediazione che ne aveva fatto la Scuola di Chicago, Goffman acquisisce una precisa metodologia. Così scrive nella Prefazione a quello che a tutt'oggi è riconosciuto essere il suo capolavoro, La vita quotidiana come rappresentazione del 1959: «Il materiale illustrativo presentato in questo lavoro è di vario tipo: parte è stato ricavato da ricerche scientifiche; parte da documenti impressionistici scritti da gente curiosa; parte sta a metà fra i due generi (...) La giustificazione di questo metodo - che mi sembra essere anche quella di Simmel - è da trovarsi nel fatto che gli esempi, nel loro complesso, formano uno schema coerente che ricompone i frammenti delle esperienze vissute dal lettore e che fornisce allo studioso uno schema che val la pena verificare in studi particolari della vita sociale».

Le cerimonie del séDa un punto di vista genealogico, allora, la storia del pensiero sociologico non ha difficoltà ad assegnare la paternità dell'opera di Goffman alla Scuola di Chicago, tanto per la sociologia urbana quanto per la metodologia di lavoro simmeliana. Non a caso Alessandro Cavalli, nella sua fondamentale introduzione alla Sociologia di Simmel, vedeva in Goffman uno dei più acuti e originali eredi del maestro tedesco. Eppure, questo lascito genealogico non è scontato. L'eredità di Goffman non si lascia amministrare con facilità.
Come ha dimostrato Pier Paolo Giglioli, il più autorevole interprete di Goffman in Italia, dal momento che il sociologo canadese lavora su quei rituali e quei cerimoniali che producono il sé e l'aura di sacralità che lo avvolge, in realtà è ad un'altra eredità che bisogna guardare, non tanto a quella anglo-tedesca di Chicago e Simmel, quanto a quella francese di Durkheim. La sacralità del sé con i relativi rituali che ne presiedono la formazione, infatti, sembrano discendere direttamente dalla sociologa della religione elaborata da quest'ultimo.
In effetti, in quella che sembra essere una contraddizione all'interno della storia del pensiero sociologico rispetto alla genealogia da attribuire all'opera di Goffman (una nascita divisa tra due tradizioni inconciliabili come quella anglo-tedesca e quella francese), si deve leggere la cifra più intima del pensiero di questo autore: la resistenza a conformarsi all'univocità delle discipline.
Le difficoltà a gestire il lascito goffmaniano si ripercuotono anche sulle interpretazioni che sono state date del suo dispositivo sociologico. Tra le tante avanzate, si prenda come esemplare quella più vicina alla storia culturale italiana: l'interpretazione anti-psichiatrica. Guardando ad opere come Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza del 1961 e a Stigma. L'identità negata del 1963, ma anche a Il comportamento in pubblico. L'interazione sociale nei luoghi di riunione sempre del 1963, e al lavoro che attorno ad essi è stato fatto da Franco Basaglia e da Franca Ongaro Basaglia negli anni Settanta del secolo scorso, sembrerebbe che sia l'anti-psichiatria il luogo di ricezione naturale di quella parte dell'opera di Goffman politicamente più impegnata. Naturalmente, l'intera riflessione messa in campo dal sociologo si presta ad un'interpretazione di questo tipo: l'istituzione totale, nella fattispecie il manicomio, come spazio chiuso di segregazione; la disumanità e lo svilimento a cui è sotto posto l'internato; i rapporti autoritari di dominazione agiti dal personale medico.
Anche in questo caso, però, come avviene per i classici della sociologia, l'eredità di Goffman non è riducibile alle forme specifiche di un sapere definito, in questo caso, quello anti-psichiatrico. A ben guardare, infatti, l'analisi delle dinamiche ospedaliere è condotta con strumenti concettuali che poco o niente hanno a che fare con la psicologia, si pensi, ad esempio, come, in sede manicomiale, Goffman impieghi l'idea di carriera.
Quindi, gli elementi ci sono tutti per assicurare all'eredità goffmaniana tanto una stabile genealogia (i classici della sociologia americana, tedesca e francese), quanto delle autorevoli interpretazioni (nel caso specifico, quella anti-psichiatrica). Eppure, tale lascito continua a non farsi inquadrare, c'è qualcosa nell'opera di Goffman che ne assicura l'apertura e non la fa «chiudere» in un significato definitivo.
Da cosa è assicurata tale apertura? Almeno da due fattori. Il primo è, come Goffman sostiene nell'Introduzione a L'interazione strategica, «l'interazione faccia-a-faccia». Questo vuol dire piegare le scienze sociali alle dinamiche comunicative, le quali sono per loro natura processuali. In questo senso, la genealogia «segreta» a cui Goffman appartiene da buon canadese è quella di storici e sociologi della comunicazione canadesi come Harold Innis e Mashall McLuhan. Al pari di questi, ha ritenuto che lo studio delle associazioni umane passasse innanzitutto dal modo in cui gli attori sociali comunicano in pubblico tra di loro.
Il secondo fattore è il modello, altrettanto comunicativo, della drammaturgia teatrale, sempre nella Prefazione a La vita quotidiana come rappresentazione, si legge: «La prospettiva che viene usata è quella della rappresentazione teatrale; i principi che ne derivano sono di tipo drammaturgico». Dopo Goffman, l'analisi dell'agire sociale si fa a partire da concetti come quello di attore, ruolo, retroscena e ribalta. In breve, per capire il tipo di interazioni che gli uomini danno vita quando si incontrano, è utile «immaginarseli» come se recitassero su di un palcoscenico: presentano se stessi, vogliono suscitare emozioni e controllare l'effetto che producono sul pubblico.
Si capisce che lì dove si parla e si recita, la sociologia non può che aprirsi su situazioni instabili e in continua trasformazione. Da qui la difficoltà di amministrare l'eredità dell'opera goffmaniana cercando di classificarla in forme di sapere stabili.

Il mancato incontroGoffman mobilita dunque l'attenzione di numerose e differenziate discipline. Del breve panorama descritto, però, non si può non notare la mancanza di un confronto serio tra la sociologia goffmaniana e quella di ispirazione marxista.
Non sembra che il dispositivo del sociologo canadese abbia mai seriamente preoccupato i marxisti. Forse, la testimonianza più significativa al riguardo, rimane quella di Adorno quando, nel breve testo del 1965 intitolato Società, riferendosi anonimamente a quelle sociologie che avevano iniziato ad usare il concetto di ruolo, le «bollava» come funzionali all'ideologia del sistema dominante. A suo parere ciò avveniva perché tali sociologie non riportavano criticamente il ruolo alle sue ragioni d'essere, cioè quelle di una società che costringe gli uomini a recitare. Questo si potrebbe considerare un classico esempio di incontro mancato.
Nella VI tesi su Feuerbach, Marx definisce l'essenza umana come «l'insieme dei rapporti sociali». Per designare questo «insieme» nel testo originale il filosofo usa il termine francese ensemble che indica, in tedesco, un momento preciso della recitazione teatrale. Se leggiamo «l'insieme dei rapporti sociali» come «insieme recitativo dei rapporti sociali», si vede apparire il retroterra culturale su cui si è andata disporre la scoperta goffmaniana.
Quale conseguenza trarre da questa convergenza? Cominciare a pensare che l'analisi recitativa dei ruoli così come l'ha definita Goffman nel corso della sua opera non sia funzionale al mantenimento dell'ordine esistente, che non serva cioè solo a determinare la posizione occupata dagli attori nel sistema sociale, ma che, piuttosto, come prescriveva Marx nelle tesi su Feuerbach, sia il primo passo per trasformarla.

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