Vi sono delitti così enormi che è impossibile perdonarli, ma è molto difficile anche punirli in modo equo. È il dilemma di Norimberga, ora riproposto dalla condanna di Saddam Hussein. «Purtroppo, sessant'anni dopo, siamo ancora alla giustizia dei vincitori — commenta Frediano Sessi, studioso della Shoah — che non è realmente di monito ai criminali perché non opera nel senso di sradicare la cultura della violenza. Lo disse con chiarezza Primo Levi: la vendetta non è una soluzione civile. Ma che i gerarchi nazisti dovessero sottostare al giudizio di chi li aveva sconfitti era inevitabile. Che oggi accada lo stesso, dopo tanti sforzi per affermare i diritti umani a livello mondiale, non è buon segno».
Più drastico Danilo Zolo, autore del libro La giustizia dei vincitori (Laterza), secondo il quale il processo di Bagdad è molto peggio rispetto a Norimberga: «In quel caso quattro potenze si accordarono per creare la corte, la qualità dei magistrati era alta, c'erano garanzie per gli imputati. Senza contare che i capi nazisti erano gli aggressori, così come i militari giapponesi condannati più tardi a Tokio, mentre Saddam è l'ex tiranno di un Paese invaso. Qui non è neanche giustizia dei vincitori, perché non è affatto sicuro che gli Stati Uniti usciranno vittoriosi dall'Iraq. Il processo è stato voluto da Washington, sulla base di uno statuto redatto da giuristi americani, e manca di ogni legittimazione sulla base del diritto internazionale come dell'ordinamento iracheno. È solo uno strumento per giustificare una guerra preventiva motivata con evidenti imposture». Lo storico Massimo Teodori spazza il campo dalle sottigliezze giuridiche: «È un'astrazione voler regolamentare in termini di diritto la fine di dittature criminali. I processi ai responsabili di delitti contro l'umanità rispondono sempre a criteri di opportunità politica. Con il giudizio di Norimberga si diede una risposta in termini internazionali agli orrori della Seconda guerra mondiale, mentre mi è parso corretto affidare a una corte irachena il compito di processare Saddam Hussein, responsabile in primo luogo di aver massacrato il suo stesso popolo». Sessi la pensa diversamente: «Forse è un'utopia, ma io credo che i crimini contro l'umanità debbano essere puniti da una corte internazionale, con requisiti d'imparzialità. In questo senso il processo al serbo Slobodan Milosevic è stato un passo avanti rispetto a Norimberga, mentre con Saddam siamo tornati indietro, quasi al livello della condanna sommaria inflitta al dittatore romeno Nicolae Ceausescu». «Il caso di Ceausescu — nota Zolo — ricorda un po' quello di Mussolini, anche perché venne fucilato insieme alla moglie. Quanto a Milosevic, era un despota, ma non certo sanguinario come Saddam: del resto gli stessi americani lo avevano coinvolto nella pace di Dayton che pose fine alla guerra in Bosnia. La corte dell'Aja che doveva giudicarlo, prima che morisse per cause naturali, era di gran lunga superiore, per dignità e competenza dei giudici, al tribunale di Bagdad. Però anche i processi per i crimini nella ex Jugoslavia non sono stati equi: basta pensare che il procuratore Carla Del Ponte rifiutò d'indagare sulle atrocità compiute dalle forze della Nato». Teodori è anch'egli scettico sui tribunali internazionali, ma ritiene che a Bagdad il problema sia un altro: «Sarebbe stato meglio che Saddam non fosse stato catturato vivo o avesse fatto la fine di Ceausescu. Allestire un lungo processo, in cui il raìs a volte è apparso come una vittima, è stato un errore. Tanto più che Saddam è stato portato alla sbarra per uno solo degli innumerevoli eccidi compiuti: in teoria bisognerebbe giudicarlo un'infinità di volte. Mi sembra però innegabile che la sua condanna risponda alle aspettative di giustizia della grande maggioranza del popolo iracheno».
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