“La dittatura degli algoritmi. Dalla lotta di classe alla classe action” è il nuovo libro di Paolo Landi. Un titolo che attira l’attenzione o meglio che ti spinge a soffermarti, perché si tratta di due parole che portano a riflettere e a sfogliare il libro. La prima, “dittatura”, tristemente e angosciosamente diffusa sia nei libri di storia che, purtroppo, anche nei giornali dei nostri tempi. La seconda, “algoritmo”, ormai anch’essa conosciuta, che passa da una bocca all’altra: ma siamo sicuri di capirne tutti il vero significato?
Immagine da IL FATTO, 30.01.2024 (Piromallo, Recensione al libro)
Basta provare a chiedere a chiunque di dirti in poche parole cos’è o cosa si intenda per algoritmo e nella migliore delle ipotesi risponderanno una formula matematica. Eppure basta cercare la parola algoritmo sulla Treccani per capire che la cosa non è così semplice. Il dizionario definisce algoritmo “un procedimento sistematico di calcolo, oggi per lo più destinato a essere eseguito da un automa esecutore quale un computer”. Notate “automa esecutore”. È sufficiente sommare in maniera semplicistica e basilare questi due termini per desiderare di passare dal tenere in mano il libro a volerlo leggere e conoscerne le tesi.
Ma un’altra cosa che attira su quella copertina è il nome del suo autore, Paolo Landi. Per chi non lo conoscesse, Landi è uno storico comunicatore del mondo della cultura, ha scritto di teatro, cinema, televisione. Ma il suo lavoro nella comunicazione diventa letteralmente oggetto di studio universitario internazionale quando nel ‘91 entra a far parte dello staff comunicativo di Oliviero Toscani: l’anno di avvio delle campagne sociali di Oliviero Toscani con il marchio United Colors of Benetton. Manifesti giganti di “comunicazione sociale”, che vengono etichettati da molti come campagne pubblicitarie, ed in effetti avranno lo strano effetto di far diventare la Benetton il marchio più famoso di abbigliamento in Europa. Landi si trova a dovere spiegare a giornalisti, amministratori, intellettuali, cittadini che non c’è nulla da comunicare, tutto quello che devono comprendere e capire sta nella foto di Toscani. Se vuoi capire il messaggio non devi leggere, non devi studiare, non hai slogan, devi solo guardare la foto. Immagini che attraggono e alcune scioccano, ma bellissime fotograficamente, dirompenti o addirittura offensive per la morale del tempo, come quella della donna nera a mezzobusto di cui si vedono solo gli splendidi seni neri che allattano un bimbo bianchissimo. Devi solo guardare, non occorrono parole.
Il successo di quei manifesti e di quel modo di comunicare è così dirompente che poco dopo nasce la rivista Colors: un giornale di grandi dimensioni di sole foto e alcune frasi in inglese. In pratica una vera e propria avanguardia dell’attuale Instagram. Strumento fantascientifico per quel periodo, perché internet come lo conosciamo noi oggi non esisteva, l’uso del World Wide Web doveva ancora diffondersi.
Insomma, Landi era uno di quegli uomini che stava nella cabina di progettazione di quel nuovo modo di fare comunicazione con le immagini nato Italia nel 1991 con Oliviero Toscani e che oggi insieme ai social è divenuto linguaggio universale.
Basterebbero questi semplici elementi della copertina per definire il libro molto interessante. Giudizio che viene confermato leggendo rapidamente alcuni dei titoli dei capitoli: “Il comunismo distopico di Chiara Ferragni”; “Dalla lotta di classe alla class action”; “Povertà analogica e ricchezza digitale”; “La solitudine, condizione necessaria della subalternità digital” e altri altrettanto interessanti. Ma i titoli come tutti i sommari non riescono a rendere pienamente come viene trattato l’argomento. Qualche stralcio può essere utile, per esempio quello su Ferragni: “Lei è l’imprenditrice e l’operaia, lavoro e tempo libero per lei sono la stessa cosa, lavora sempre senza lavorare mai, è essa stessa merce senza smettere di essere individuo: anzi, elevando alla massima potenza il valore di sé come persona. Marx avrebbe sgranato gli occhi per la meraviglia di fronte a questo comunismo distopico annunciato da una bella ragazza bionda”. O il capitolo dal titolo “Dalla lotta di classe alla Class Action”: “Se sembra tutto gratis, se non si paga per usare i social network e i motori di ricerca, con la Rete che ci consente di accedere gratuitamente a una enormità di servizi, è evidente che lo scambio con chi possiede questi mezzi di comunicazione siamo noi, la massa degli user, gli utilizzatori che, come in era analogica, riunisce operai, impiegati, studenti, disoccupati, precari, cassintegrati, lavoratori flessibili, sfruttati di ogni categoria. A cui si aggiungono, a formare la nuova classe digital-oriented, per usare una terminologia desueta ma ancora esplicativa, il terziario, il terziario avanzato, i professionisti. Siamo noi i nuovi consumatori che il capitalismo digitale smette come per incanto di targettizzare, riunendoci sui social in un’unica grande community interclassista. Tutti pronti ogni mattina a fornire gratuitamente a Zuckerberg e Co. i contenuti di cui hanno bisogno le varie piattaforme digitali, per acquisire le informazioni indispensabili a venderci”.
Il libro spiega che in questa illusoria democrazia portata dall’avvento di Internet, dei social network e di tutto quel mondo si nasconde una dittatura tecnologica: rischiamo di entrare in un’epoca dove avremo un gemello digitale ridisegnato dalla tecnologia o peggio dalla dittatura tecnologica.
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