Il convincimento che il miglior modo per difendersi sia attaccare è molto diffuso. Non ci è stato trasmesso esplicitamente,
ma l’abbiamo fatto nostro respirandolo da chi ci attorniava. Il problema di fondo è il nostro orgoglio.
Facciamo fatica a chiedere scusa, ad ammettere i nostri torti, temiamo il confronto e, soprattutto, qualora ci venga mossa una critica, scattiamo come una molla, passando subito al contrattacco. Questo meccanismo si attiva con maggior enfasi soprattutto quando la critica che ci venga mossa abbia ragion d’essere, quindi quando questa critica sia davvero sensata.
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“Nessuno viene conquistato dall’adulazione più dell’orgoglioso, che vorrebbe essere primo e non lo è”.
(Baruch Spinoza)
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Ognuno di noi ha un lato che odia e che non riesce a gestire. Niente al mondo ci fa perdere la testa quanto una critica ben assestata che colpisca nel punto giusto e che arrivi laddove inizia il nostro corto circuito. Questo tipo di critica assume una valenza fastidiosa quando colpisce quell’aspetto che abita il nostro intimo, e delle cui disfunzioni siamo consapevoli, ed è proprio questo ad aumentare la fragilità del nostro muro difensivo ed a provocare le fiamme inconsulte di risposte impulsive.
Fatichiamo a metterci in discussione come persone, come membri di una comunità, poiché mettersi in discussione comporta il coraggio di attraversare una crisi temporanea, la perdita di riferimenti e certezze: un caos identitario, quando, invece, siamo convinti che tutto ciò non debba mai accadere. Siamo convinti sia solo necessario difendersi, a tutti i costi, sempre, e pensiamo che il modo migliore per farlo sia attaccare. Siamo vittime di una cultura che c’induce a mostraci forti, integri, per assecondare una logica perversa che ci vuole in competizione “l’un contro l’altro armati” al solo fine di stimolare una produttività necrofila.
Da tutto ciò consegue che l’idea di poter chiedere aiuto, di aprirsi alla critica e di accettare la debolezza umana sia una roba da sfigati, da falliti; la stessa idea di andare da uno psicologo viene infatti ritenuta da pazzi, da disperati, da persone non abbastanza forti per cavarsela da soli: i deboli, i perdenti. Questa realtà ci aiuta a comprendere quanto non siamo in grado di relazionarci con la fragilità umana in termini di cultura. Ai nostri tempi è ancora molto diffusa questa convinzione. In un contesto del genere, dove la critica, e maggiormente l’autocritica, fanno una gran paura perché fa paura mostrarsi deboli, il nostro orgoglio pervicace s’inalbera di fronte alle critiche, che quindi c’inducono ad un atteggiamento di chiusura, ancor più se giuste, perché ci risuonano nel torace, nel cervello, nello stomaco, in tutto il corpo, critiche vissute come attacchi dai quali difendersi a tutti i costi perché mettono a rischio la nostra immagine e la stessa corazza che invece viene poi richiesta.
Alla fine è tutta una questione di orgoglio
Ci sentiamo costretti a tener dentro ciò che non va, ingoiandolo. “L’orgoglio esasperato è l’espressione di una invulnerabilità latente che si pensa di non dover accettare, di non poter accettare e che quindi non riesce a trovare espressione, restando intrappolata nella prigione della nostra corazza caratteriale”. Per questo motivo la critica si trasforma nella minaccia, nell’attacco cui rispondere, per mantenere l’immagine di vincenti, preoccupati come siamo della percezione che l’altro ha di noi, sino a non ammettere di aver sbagliato, disposti a stare molto peggio.
Il lavoro di gruppo è molto utile; al suo interno troviamo un intreccio di soggettività. Esso fa in modo che non abbia senso trattenersi per preservare l’immagine che si desidera gli altri abbiano di sé ma che poi ti sta stretta: il lavoro di gruppo fa comprendere l’insensatezza della difesa ad oltranza e dell’orgoglio del contrattaccare. Se qualcuno dovesse farci provare quel dilaniamento che ci fa impazzire, vorrà dire che ci verrà offerta, invece, l’opportunità di far venire a galla la nostra vulnerabilità, vorrà dire che avremo avuto l’occasione per dare finalmente sfogo alla nostra debolezza. E sarà proprio quel momento che, anziché contrattaccare, dovremo necessariamente abbassare le armi. L’occasione unica, durante il “duello sociale” di sentirsi colpiti all’interno, per poter riflettere, sentirci, guardarci: amarci.
Dobbiamo smetterla, una volta per tutte, di pensare che la miglior difesa sia l’attacco, dobbiamo abituarci a capire che, forse, il modo migliore per difendersi è disarmarsi, smettendola di nasconderci e cominciando a comunicare, perché la libertà non ha prezzo, siate liberi.
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