C’è il legittimo sospetto che la recente battaglia di Salvini per il ripristino di limiti di velocità più laschi denunci qualcosa di più che il timore di un congestionamento del traffico. È assai probabile che in un pensiero di destra muscolare e maschio torni a far breccia l’encomio di un’accelerazione capace di suggerire l’orizzonte di una società nuova. E in effetti, è possibile che questa resistenza al bisogno di città “più lente” sia l’indice di un non pienamente elaborato trauma da declino della civiltà, che fa parte del panorama psichico della destra più a destra.
Leggi la poesia di Marinetti "All'automobile da corsa" (1921)
È noto l’apologo secondo cui, nel 1908, Filippo Tommaso Marinetti, alla guida della sua nuova Fiat, incrociava due ciclisti sulla strada e per evitarli finiva in un fosso. Ne usciva “straccio fangoso elettrizzato da una gioia acutissima”. Eppure lodava compiaciuto l’istintivo “scarto” dal volante, utile a scansare gli “incauti ciclisti già promessi all’ingordigia” delle sue ruote, mentre l’auto si capovolgeva “lenta, meno lenta, prestissimo”. Secondo la fantasia mitopoietica del Nostro, fu questa l’origine del Futurismo, che assieme al pericolo, l’energia, la temerarietà, e il coraggio, l’audacia, la ribellione, celebrava i fasti della velocità estrema. Una “eterna velocità onnipresente”, come recita il Manifesto del Futurismo, che per codice etico e professionale ne sposava appieno il rapporto di prossimità con la morte.
Eppure, al netto del fastoso vitalismo con cui glorificava l’esperienza dell’uscita di strada, quello fu uno choc personale tale da fare il paio con lo choc collettivo del tramonto di una civiltà, quella ottocentesca, che andava incontro a un plumbeo destino. Marinetti si faceva istintivo cantore del senso di una fine, giunta per mano di una società nuova, capace di innovazioni tecnologiche e scientifiche di inimmaginate proporzioni. Il lutto veniva psichicamente elaborato tramite la necessità di accogliere con arrogante disinvoltura il rischio mortale da sempre inscritto nell’invito ad accelerare. E una tale mescolanza di slancio vitale e spavalderia nutriva l’immaginario, altrimenti piuttosto povero, dei movimenti fascisti al loro primo sorgere.
Cento anni dopo, l’accelerazione presenta lo stesso grado di ambiguità. All’inizio degli anni Novanta, Nick Land articolava con visionario cinismo il suo invito a liberare del tutto il potere espansivo del capitalismo, sempre frenato da una politica inefficiente e timorosa. La civiltà occidentale, diceva Land, avrebbe dovuto accelerare verso il disastro, aumentare il disordine senza alcuna deviazione dal flusso di morte che tutto toccava. Qui nasceva il movimento noto come accelerazionismo, piattaforma frammista di idee ipermoderne e reazionarie, che invoca una drastica intensificazione della crescita capitalista e del progresso tecnologico per sveltire la pratica di dismissione di una società in piena decadenza.
Certo, esiste anche un accelerazionismo di sinistra, legato soprattutto al nome di Mark Fisher, che delinea scenari di maggiore equità, con più intensi tassi di libertà, gravidi della promessa di una più schietta eguaglianza sociale. Ma il tema dell’accelerazione eccita soprattutto le reti internazionali di neofascisti, neonazisti e suprematisti bianchi, che propiziano lo scontro finale nel loro trasognato conflitto razziale e puntano ad affermarsi col ricorso a mezzi violenti. Non è un caso che, nell’EU Terrorism Situation and Trend Report, l’accelerazionismo venga messo alla stregua del satanismo apocalittico là dove ambo i movimenti “fomentano il caos per accelerare il crollo delle società occidentali e raccomandano la violenza più estrema per perseguire questo loro obiettivo”. Insomma, si tratta di una velocità che non è tanto la realizzazione decisa e spedita di un corso della storia, ma un delirante cupio dissolvi in un affresco tanto grottesco quanto irrealistico.
LA SINISTRA CHE RALLENTA
Non stupisce che chi sposa l’accelerazione trovi ripugnante l’idea del suo opposto. A sinistra, ad esempio, il movimento slow food, diffusosi a partire dagli anni Ottanta, ha cercato di trasformare l’esperienza quotidiana della produzione, dello scambio e del consumo di cibo. Mentre contestava l’industrializzazione rampante e l’affezione consumistica alla cucina del tardo capitalismo, slow food raccomandava economie sociali da sviluppare attorno a incontri culinari più consapevoli e radicati nel territorio. Con più o meno conscio richiamo all’utopismo meno rivoluzionario, che non rovescia ma dà forma, l’intento di slow food era ed è educare il gusto e rendere visibili i legami tra stagionalità, territorio e consumo: non tutto si può avere e consumare dappertutto e sempre.
Del pari, il concetto di città slow ne sposa l’aspirazione utopistica nel segno del pragmatismo, per disegnare un’alternativa alla corsa che affatica e drena. Questo modello di urbanistica invita alla pianificazione di una mobilità che, sì, risparmi tempo, ma lo faccia puntando sull’organizzazione collettiva e non sull’accelerazione individuale. Per fare un esempio, la città slow immagina soluzioni ibride fra il lavoro a distanza e quello in presenza, come la pratica del coworking: luoghi di lavoro condivisi, in cui lo spazio è a disposizione di lavoratori a distanza, freelance e piccole imprese. Un tale approccio, almeno nei migliori auspici, è volto a stimolare le economie locali, creare momenti di condivisione pubblica e ridurre le emissioni legate al pendolarismo.
Beninteso: in quanto ho sin qui scritto non c’è alcun intento di disegnare polarità o attribuire velocità diverse, fisiche e morali, alla destra e alla sinistra. In fin dei conti, nella Russia sovietica, i futuristi presero a definirsi “costruttivisti” per esprimere il senso di una proiezione verso il salto industriale e l’edificazione di una società nuova. Si dedicavano a grandiosi e immaginifici progetti in ogni campo, dall’architettura e l’industria fino alla moda, quando i colleghi italiani dovevano accontentarsi di un mondo nuovo inscenato su carta o dipinto su tela. Né chi scrive, sempre prossimo al sinistro per incauta conduzione dello scooter, potrebbe tirar su un didatticismo spicciolo sui trenta all’ora.
Il problema, piuttosto, sta nell’idea un poco avventata secondo cui velocità e progresso sarebbero sinonimi. Di contro a ogni affanno e vertiginoso slancio, il progresso è pianificazione accorta sulla base di una studiata riduzione degli ostacoli, che un po’ derivano dalle infrastrutture inadeguate un po’ dall’umana stupidità. E se è vero che a quest’ultima non c’è rimedio che tenga, credo che neppure il collasso apocalittico auspicato dai velocisti nostrani saprebbe eradicarlo in via definitiva.
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