Parlare di Marco Aime significa riprendere da una parte il senso classico del fare antropologia, andare nella brousse africana, comprendere il senso dei mercati nel Benin, immergersi tra i Dogon in una delle più complesse culture animiste, ma anche scoprire che si può diventare ricercatori dopo avere lavorato in fabbrica a Torino e avere elaborato lì la propria voglia di scrittura e di mondo. I suoi libri spaziano da Timbuctu (Bollati Boringhieri 2008) alla Guida minima al cattivismo italiano (Eleuthera, 2020) alla narrativa nelle sue valli piemontesi All’Avogadro si cominciava ad Ottobre (Agenzia X). I suoi studenti all’Università di Genova sanno che è sui suoi manuali come Il primo libro di antropologia (Einaudi, 2008) che bisogna farsi le ossa.
Da un certo punto di vista tu sei il caso di un antropologo “come se ne facevano una volta”, nella grande tradizione francese di Marcel Griaule e di Michel Leiris, dove il lavoro di campo diventa occasione per scoprire altre culture ma anche per guardare se stessi “da lontano”. Mi piacerebbe sentire da te come hai imparato il metodo del dubbio sistematico che dovrebbe essere di ogni antropologo.
Ognuno «ha la filosofia delle proprie attitudini », ha scritto Pavese, e praticante del dubbio lo sono sempre stato, anche per mia insicurezza, quindi non ho dovuto impegnarmi troppo. Però le esperienze africane e non solo, hanno reso più solida questa attitudine. Il confronto con l’altro, ti costringe a metterti in discussione e questo rende affascinante la ricerca antropologica, ma soprattutto costituisce un’esperienza umana davvero profonda.
Tenendo ben presente la tua esperienza africana, poi hai “riportato tutto a casa” con i tuoi lavori sull’antropologia del contemporaneo pur restando fedele all’essere “dentro una disciplina”. Io temo che oggi ci sia una dispersione, un approccio ai temi delle culture che si lascia andare a molta semplificazione, che dia per scontato che l’antropologia sia una visione politically correct del mondo che ci circonda.
No, quello dell’antropologo è uno dei molti possibili sguardi su di noi umani. Anzi, direi che a volte il politically correct, oltre a nascondere sotto il tappeto la polvere dell’ipocrisia, finisce per trasformarsi in una nuova forma di discriminazione, anche se a volte è una discriminazione positiva. Per quanto riguarda la dispersione, direi che da un lato è un bene che gli antropologi si occupino di ambiti diversi, ma temo l’iperspecializzazione, che finisce per diventare sterile. Andando troppo in profondità, si rischia di non vedere più il cielo.
Credo di essere affascinato dal patrimonio di ricerche e monografie raccolte da generazioni di ricercatori sul campo. Me ne servo per cercare di affrontare temi che ci appartengono. E so di essere criticabile perché non sono un vero etnografo. Io credo però che gli antropologi devono essere capaci oggi di nuove sintesi, devono dire la loro sul presente. Cosa ne pensi?
Sono assolutamente d’accordo. Perché un antropologo dovrebbe occuparsi dell’oggi e del qui? Per “comune decenza” si potrebbe dire, evocando George Orwell. Perché lavorando per una istituzione pubblica, quale è l’università, sostenuta economicamente dal contributo di tutti i cittadini, diventa importante portare un piccolo e modesto apporto alla comprensione della società in cui si vive quotidianamente, usando gli attrezzi che si conoscono: quelli dell’antropologia.
Ho molta paura dell’antropologia militante, impegnata, che si autogiustifica perché è dalla parte giusta, ambientalista, femminista, lgbt, antispecista. Mi sembra che tutto questo nasconda un’incapacità di essere messi in crisi da come il mondo veramente è, e non come dovrebbe essere.
Credo sia bene chiarire in che modo vogliamo essere “militanti”. Nella fase dell’etnografia, della raccolta dei dati, non ci si può fare guidare dalle nostre passioni politiche o di altro genere, altrimenti si rischia di essere accusati di parzialità e quindi di uscirne indeboliti. Penso, invece, che dei risultati ottenuti con una certa scientificità (con tutti i dubbi che questo termine si porta dietro) e correttezza possano diventare degli ottimi strumenti per condurre azioni di carattere politico, proprio perché poggiano su basi professionali.
In generale, come vedi l’antropologia in Italia, rispetto a ciò che accade in altri paesi, alla tradizione francese, ma anche agli sviluppi nel mondo anglosassone? Vedo una grande povertà, molto accademismo, non solo poco fieldwork, ma poca formazione, poche letture, poca conoscenza del mondo attuale. Sono troppo pessimista?
Un po’ sì, ma non ti do torto. Diciamo che la tradizione antropologica italiana non ha mai brillato per le ricerche sul campo, anche perché da noi la disciplina è giovane e non abbiamo avuto esperienze simili ad altri Paesi. Oggi però mi sembra si sia accentuata ancora di più la tendenza all’autoriflessività: si discute più si cos’è l’antropologia, invece che praticarla. Questa autoreferenzialità finisce poi per escludere gli antropologi dal dibattito pubblico e relegarli nei loro circoli ristretti.
Torniamo sulla tua Africa. Vorrei capire cosa è per te adesso? Cosa continua a rappresentare, cosa pensi che ci possa insegnare?
«Ex Africa semper aliquid novi», dall’Africa infatti arriva sempre qualcosa di nuovo, scriveva Plinio il Vecchio e anche oggi, purtroppo, l’Africa ci mostra, anche se noi prestiamo poca attenzione, degli scenari, che potrebbero realizzarsi anche da noi. Basti pensare alla precarietà lavorativa, alle spaccature generazionali, alla disgregazione urbana. Con la differenza che, grazie alla giovane età degli africani, queste esperienze possono essere dei laboratori di incubazione, mentre per noi, continente di anziani con pochi figli, rischiano di essere un orizzonte cieco.
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