giovedì 10 aprile 2025

FEMMINICIDI E SENTENZE. IL CASO TURETTA. SESTA L. Sentenza Turetta, cos’è la ‘crudeltà’ in senso giuridico e perché sbaglia chi si indigna sui social, IL FATTO, 9.04.2025

 *Docente di Filosofia Morale, Dipartimento SPPEFF dell’Università di Palermo

Su certe tristi vicende, dovrebbe essere sempre garantito il pudore e il rispetto delle vittime, sia di coloro che non ci sono più, sia dei loro familiari, amici e vicini. Nella misura in cui costringe a riaprire la ferita, quasi fosse un’ultima, dolorosa, coltellata, il dibattito sulle motivazioni della sentenza Cecchettin è al limite di questo rispetto e di questo pudore.


La sentenza della Corte di Assise, che com’è noto ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo, non ha riconosciuto alcuna attenuante, perché Turetta è stato dichiarato lucido, perfettamente capace di intendere e di volere. Ed è proprio questa sua condizione ad aver determinato l’aggravante della premeditazione: Turetta ha agito non solo organizzando meticolosamente l’assassinio, ma per di più spinto da motivi abietti, che aggravano ulteriormente la sua colpevolezza. Il suo operato, come si legge nella sentenza, è stato caratterizzato da: “Efferatezza dell’azione, risolutezza del gesto compiuto, abietti motivi di arcaica sopraffazione, vili e spregevoli, intolleranza per la libertà di autodeterminazione della giovane donna, di cui l’imputato non accettava l’autonomia delle anche più banali scelte della vita”.

Perché all’operato di Turetta, pur giudicato “efferato”, non è stata associata anche l’aggravante della “crudeltà”? Non bastano, si è detto, 75 terribili coltellate? Quante ne dovrebbero essere inflitte per poter parlare di crudeltà?

Non sono un giurista, ma un minimo di buon senso, qui, avrebbe indotto chiunque a chiedersi quale sia stato il criterio seguito dalla Corte, visto che, di fronte a un omicidio così evidentemente “crudele”, considerarlo “non crudele” da parte di una corte di giustizia deve necessariamente nascondere un qualche motivo “tecnico”. Diversamente, dovremmo considerare i giudici dei soggetti del tutto sprovveduti o privi di umanità. Il che è davvero improbabile, oltre che ingeneroso.

L’aggravante della crudeltà, nel diritto penale, ha in effetti un’accezione tecnica, diversa da quella che, in queste ore, si sta impropriamente utilizzando per indignarsi nei confronti della sentenza. Noi intendiamo la crudeltà come la cattiveria morale di chi agisce in modo particolarmente violento nei confronti di una vittima, procurandole danni ingiusti e sproporzionati. La definizione giuridica accoglie e integra questa base di senso comune. C’è crudeltà, in senso penale, quando si può dimostrare, con certezza, che vi sia stata una sadica volontà di infliggere, alla vittima, sofferenze aggiuntive rispetto a quelle strettamente necessarie a causarne la morte. È penalmente “crudele”, per capirci, uno che fa intenzionalmente soffrire la propria vittima compiendo azioni diverse da quelle che compie per toglierle la vita. Quando per esempio la tortura e sevizia, anche con la stessa arma con cui vuole ucciderla, ma avendo cura di non ucciderla. Per poi portare a compimento, ma solo alla fine, o anche solo nell’atto di “esagerare” con le torture, il suo proposito criminale.

Ora, dall’esame medico-legale del caso i giudici hanno ritenuto di non poter dedurre, con certezza, questa specifica volontà. Dalla perizia è emerso che le 75 ferite siano state frutto di un gesto caotico e “inesperto”, chiaramente incapace di colpire con precisione i punti vitali, senza che i giudici abbiano potuto raggiungere la certezza che le coltellate non mortali siano state inferte per seviziare, piuttosto che come colpi mortali maldestri, che, in quanto falliti nel loro intento letale, avrebbero richiesto una sempre più nervosa ripetizione. Se per la Corte questa frenesia omicida non è stata accompagnata tecnicamente da “crudeltà” – perché non si è potuto mostrare che fosse animata dall’esclusiva volontà di far soffrire – è però un’ulteriore prova della premeditazione, e dunque dell’agghiacciante inflessibilità con cui il carnefice ha perseguito il proprio perverso obiettivo. Turetta avrebbe cioè continuato non per far soffrire, ma perché non riusciva a finire.

Il motivo che esclude l’aggravante della crudeltà, qui, è lo stesso motivo che rinforza l’aggravante della premeditazione. Un’ulteriore conferma, questa, che escludere la crudeltà non ha affatto significato, per la Corte, alleggerire la gravità del gesto, ma affermarla a un diverso livello di fattispecie penale. La premeditazione, appunto.

Tutto questo è terribile anche solo a descriverlo “asetticamente”. Ma aiuta a capire ciò che nell’opinione pubblica sembra che nessuno stia capendo, tranne i giuristi. E cioè che il senso dell’esclusione dell’aggravante della crudeltà non attenua affatto né la pena (che infatti è la massima) né la gravità del delitto (efferato), né la “cattiveria” di chi lo ha premeditato (per abietti motivi).

La giustizia deve ricostruire i fatti e, nei limiti del possibile, proporzionare colpa e pena. Ma non può soddisfare tutti i sentimenti. Non è uno strumento sociale di rivalsa nei confronti del colpevole, né pretende di esaurire il mistero del male. Cerca solo, con gli strumenti del diritto, di fronteggiarlo, fermandosi un attimo prima di superare la soglia che lo separa dalla morale. Perché la crudeltà morale di una persona rimane intatta, anche se non può essere dimostrata la crudeltà giuridica del suo gesto.

L’incapacità di capire questa distinzione, o anche solo di sospettarne l’esistenza è un’ennesima conferma che i social media, complice l’informazione giornalistica a effetto, stanno inibendo ogni facoltà di ragionamento, dando libero corso a ondate di indignazione viscerale, che non rendono giustizia al lavoro di chi, come i giudici, sono impegnati a promuoverla. Paradossalmente, in nome di quello stesso popolo italiano (Cost. art. 101) che in queste ore sembra fraintenderli.

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