domenica 13 aprile 2025

TANATOLOGIA. EDUCAZIONE ALLA MORTE. GELATI M. A., In Islanda rispettano gli elfi per accettare l’incontrollabile: se ci fosse lo stesso riguardo per la morte?, IL FATTO, 13.04.2025

 In Islanda ci sono strade che si piegano. Non per necessità geologiche o per un piano regolatore fantasioso, ma per rispetto. Là dove si ritiene che vivano gli elfi, il popolo nascosto, l’asfalto devia. Si chiamano Huldufólk, “il popolo invisibile”, e fanno parte del folklore nordico, ma sono anche qualcosa di più: sono presenze non misurabili, ma ascoltate. Lì, non si tratta di credere o meno alla loro esistenza. Si tratta, piuttosto, di una forma di riguardo. Per ciò che non si vede, ma si sente. Per l’ignoto che merita uno spazio.



Reykjavík, progetti edilizi sono stati modificati, rallentati o persino sospesi perché avrebbero attraversato zone considerate abitate dagli elfi. Qualcuno li chiama miti, altri tradizione. Altri ancora, semplicemente, mistero. Nel 2013, un progetto per una superstrada nei pressi di Garðabær venne sospeso per consentire la “salvaguardia” di una roccia considerata dimora spirituale. E non è un caso isolato: secondo una ricerca dell’Università d’Islanda del 2007, oltre il 60% della popolazione non esclude che gli elfi possano esistere. Come ha enunciato la Bbc, in Islanda “una roccia non è solo una roccia”: può essere abitata, sacra, o semplicemente portatrice di una storia invisibile.

Il professor Terry Gunnell, autore del volume Elves in Iceland: Folklore and the Natural Landscape, sottolinea come queste credenze non siano residui arcaici, ma modi attuali per relazionarsi al paesaggio. “Gli elfi sono un’estensione dell’ambiente”, afferma. “Ci ricordano che il mondo è più grande di noi.” Allo stesso modo, Valdimar Hafstein, docente di folklore all’Università d’Islanda, ha spiegato in varie interviste che l’Huldufólk rappresenta “una forma di sapere che si muove tra razionalità e immaginazione, tra realtà e rispetto simbolico”. Secondo Hafstein, “non è tanto questione di credere, quanto di comportarsi come se fosse possibile”. Una sospensione del giudizio che apre uno spazio di relazione con l’invisibile.

Educarsi alla morte significa, prima di tutto, educarsi all’invisibile. Accettare che l’assenza non è vuoto, ma trasformazione. Che la fine di una vita non è solo un evento biologico, ma un passaggio. Nella nostra cultura, dominata dalla velocità, dal consumo e dal bisogno di certezze, tutto ciò che non si vede viene rimosso, dimenticato o ridicolizzato. Eppure, chi ha perso qualcuno lo sa: l’invisibile è ovunque. In una canzone che torna, in una frase scritta su un muro, in un sogno che consola, in un gesto che sembra arrivare da spazi altri. Parlare di morte, in quest’ottica, non è un esercizio di freddezza, ma un’apertura. Un modo per non calpestare quelle rocce che, anche senza saperlo, ci stanno parlando.

Il rispetto per gli elfi è, in fondo, rispetto per ciò che sfugge al controllo. E allora viene da chiedersi: cosa succederebbe se anche da noi, nei luoghi del lutto, della cura, del commiato, ci fosse lo stesso riguardo? Se lasciassimo che il mistero avesse diritto di cittadinanza? Se non cercassimo sempre di spiegare tutto, ma imparassimo a stare, anche solo per un attimo, nella soglia?

La death education ci invita a fare anche questo: ascoltarla. Non colmare subito l’assenza, ma attraversarla. Accettare che ci siano cose che non torneranno più come prima, e che questo non significa smettere di viverle. La roccia che non si tocca, perché “potrebbe essere sacra”, diventa allora una metafora potente. È il dolore che non va rimosso troppo in fretta. È la memoria che chiede spazio. È la relazione che continua anche oltre la finitudine.

Ogni cultura ha avuto i suoi modi per abitare l’invisibile. Oggi, nella secolarizzazione spinta, rischiamo di perdere non solo il contatto con l’aldilà, ma anche quello con ciò che resta qui: i gesti, le parole, i silenzi che danno forma al lutto. Riscoprire un’educazione alla morte significa anche questo: restituire dignità a ciò che non ha forma, ma ci accompagna. Dare spazio all’invisibile, senza timore di apparire ingenui. Perché c’è una saggezza nel fermarsi davanti a una roccia e decidere di non spostarla. Di lasciarla lì. Di ascoltarla.

Non serve credere negli elfi per comprendere il valore di quel gesto. Basta ammettere che, nella vita come nella morte, ci sono presenze che non si spiegano. Ma che meritano rispetto. E forse, anche noi, ogni tanto, dovremmo imparare a deviare il nostro cammino.

Nessun commento:

Posta un commento