domenica 5 aprile 2015

CINA. CRITICA DELLE NUOVE TECNOLOGIE. TECNOLOGIE E DIPENDENZE DA INTERNET. G. BATTAGLIA, Addicted. i ragazzi del web di Pechino, IL MANIFESTO, 4 aprile 2015

 La ragazza cam­mina len­ta­mente lungo una fila di pan­chine di cemento, alta e magra nella sua uni­forme mili­tare. È sola. Si avvi­cina e squa­dra l’intruso attra­verso le spesse lenti da vista: «Sei euro­peo, vero? Cono­sci Amé­lie (Tian­shi ai meili)?»


Prima che si rie­sca a capire il rife­ri­mento al film fran­cese con Audrey Tau­tou, una voce di donna abbaia un ordine che la porta via. Deve con­ti­nuare a girare intorno alle pan­chine, nel grande cortile.
«Quella ragazza è troppo debole”, spiega Li Huan, vice diret­tore del Cen­tro di Svi­luppo Men­tale per Gio­vani Cinesi. «Non può mar­ciare con gli altri. Deve cam­mi­nare da sola, per irro­bu­stire le gambe».
Pechino, quar­tiere meri­dio­nale di Daxing. Tra i capan­noni di un parco indu­striale, sorge un grande cen­tro di ria­bi­li­ta­zione. Qui non si com­bat­tono droga o alcol, ma una dipen­denza ben più al passo con i tempi: internet.
«I miei mi hanno fre­gato», dice Wang Dewei (pseu­do­nimo), 18 anni, che viene dalla pro­vin­cia dell’Hebei. «Hanno detto che anda­vamo a Pechino in gita e invece mi hanno por­tato qui. Li ho odiati».
È quasi alla fine del suo trat­ta­mento di 6 mesi. Il per­so­nale lo defi­ni­sce un “paziente modello” e quindi può vestire con orgo­glio la stessa divisa mime­tica degli istrut­tori mili­tari, invece di quella verde stan­dard, degli altri ragazzi. «Con­ti­nuavo a con­trad­dire i miei geni­tori e, invece di tor­nare a casa dopo la scuola, avevo preso l’abitudine di infi­larmi in un inter­net café. Adesso mi piace soprat­tutto gio­care a basket. Quando torno a casa voglio con­ti­nuare a farlo».
Come si fa a sta­bi­lire se un ragazzo ha un pro­blema psi­co­lo­gico chia­mato “dipen­denza da Internet”?
«Non è solo il fatto che tra­scor­rono troppe ore al com­pu­ter», dice il dot­tor Tao Ran, crea­tore della tera­pia di ria­bi­li­ta­zione, psi­co­logo rico­no­sciuto a livello mon­diale non­ché gene­rale dell’Esercito Popo­lare di Libe­ra­zione. «Di solito diven­tano sem­pre più aggres­sivi nelle rela­zioni fami­liari, si tra­scu­rano fisi­ca­mente e non vanno bene a scuola. Quando i geni­tori se ne accor­gono e rie­scono a supe­rare la ver­go­gna, li tra­sci­nano qui come ultima spiag­gia».
Mianzi (“fac­cia”) è parola chiave nella cul­tura cinese. «Solo mamma, papà e i nonni sanno che sono qui», dice Wang Dewei. «I miei inse­gnanti pen­sano che sia stato spe­dito a stu­diare per un seme­stre all’estero e nep­pure i miei amici ne sanno nulla». Come tutti gli altri qui den­tro, Wang è figlio unico: una vizia­tis­sima cala­mita di aspet­ta­tive e pres­sioni psi­co­lo­gi­che. «Ai miei impor­tava solo che stu­diassi per fare soldi».
Il novanta per cento sono maschi, solo il dieci fem­mine. In una grande aula, circa 60 ragazzi guar­dano un mega­schermo che tra­smette un docu­men­ta­rio della BBC. Men­tre una voce fuori campo spiega le mera­vi­glie del corpo umano, scor­rono sullo schermo cau­ca­sici nudi, di età e sesso diversi. Alcuni spet­ta­tori ridac­chiano imbarazzati.
«L’obiettivo è quello di met­terli in con­tatto con il pro­prio corpo — spiega Li – per­ché quando ven­gono qui sono privi di ener­gia fisica e sono impri­gio­nati in una realtà vir­tuale».
Su una fila di sedie ai lati della stanza sono acca­ta­stati giac­che a vento e cap­potti; ma un’occhiata ulte­riore rivela un gio­vane che se la dorme alla grande sotto i vestiti dei suoi com­pa­gni di classe.
«Non li costrin­giamo. Se uno non mostra alcun inte­resse verso le atti­vità, è libero di farsi gli affari suoi». Dopo tutto, tra un paio d’ore dovrà comun­que mar­ciare con i suoi compagni.
Il cen­tro di Daxing è una joint ven­ture tra la Lega della Gio­ventù Comu­ni­sta e una società che fa capo al dot­tor Tao. «Il Par­tito ci mette l’investimento; noi espe­rienza, scienza e tec­no­lo­gia», dice lui, aggiun­gendo che inter­ven­gono anche alcuni spon­sor, tra cui la fon­da­zione Li Ka-shing, cha­rity fon­data dall’uomo più ricco d’Asia.
«Noi siamo 60 per cento psi­coa­na­lisi occi­den­tale, 40 per cento “carat­te­ri­sti­che cinesi”», aggiunge il dot­tor Tao. «Que­sto signi­fica che il sot­to­scritto non è uno psi­co­logo che se ne sta seduto e ascolta senza inter­fe­rire con la vita inte­riore del suo paziente. Gli dico cosa è buono e cosa non lo è. Que­sta è la parte cinese, così come l’addestramento fisico».
«Mar­ciando impa­rano come essere parte di un gruppo — spiega Li Huan — e, per esten­sione, come essere parte della nostra società».
Per spie­gare meglio quello di cui i medici stanno par­lando, biso­gna but­tare un occhio a una stanza chiusa a chiave in fondo al cor­ri­doio del dor­mi­to­rio maschile. Si chiama tera­pia Morita, pro­ba­bil­mente il trat­ta­mento più har­d­core qui den­tro. «È una tec­nica giap­po­nese — spiega Li — i ragazzi pos­sono sce­gliere, senza alcuna pres­sione, di tra­scor­rere una set­ti­mana in iso­la­mento asso­luto den­tro quella stanza. Non pos­sono nean­che por­tarsi die­tro un libro, devono solo medi­tare. Se hanno biso­gno del bagno, un addetto li porta fuori in cor­ri­doio».
Que­sta è la “fase di riposo”, punto di par­tenza della tera­pia Morita, chia­mata così per­ché ela­bo­rata dallo psi­chia­tra giap­po­nese Shoma Morita all’inizio del secolo scorso. La pre­messa è che durante la fase ini­ziale del trat­ta­mento, un paziente si debba iso­lare da pres­sioni e incom­benze quo­ti­diane. Poi, len­ta­mente, può tor­nare alla vita sociale, lavo­ra­tiva: può cooperare.
Fino a pochi anni fa, quasi tutti i ragazzi ave­vano sui 17–18 anni. Recen­te­mente, il boom di Inter­net ha ampliato la for­bice d’età: si va dai 12enni agli ultra 30enni.
In que­sto momento gli ospiti sono nella stra­grande mag­gio­ranza ado­le­scenti, ma in prima fila nel plo­tone in mar­cia spicca un tipo più anziano. «Ha 32 anni — dice Li — il suo pro­blema è il gioco d’azzardo online. La fami­glia è così ricca che lo spreco di denaro non è per loro un grosso pro­blema, ma il ragazzo è spo­sato, deve tor­nare a una vita digni­tosa».
«Il 91 per cento dei nostri pazienti ha il pro­blema dei gio­chi di ruolo», dice Tao. «Il restante 9 per cento è equa­mente sud­di­viso tra chat, porno e gioco d’azzardo».
Qui non tro­ve­rete la prole di con­ta­dini o lavo­ra­tori migranti. Tutti i ragazzi sono figli della nuova classe media cinese, o per meglio dire del suo seg­mento supe­riore, piut­to­sto bene­stante. «Ven­gono da fami­glie di fun­zio­nari o uomini d’affari — rico­no­sce Li — e anche i geni­tori par­te­ci­pano alla tera­pia».
«La retta è di 9.700 RMB al mese (circa 1.000 euro) — spiega il dot­tore Tao Ran — se una fami­glia non può per­met­ter­selo, con­ce­diamo sconti fino al 15 per cento».
I geni­tori si riu­ni­scono in un edi­fi­cio sul lato oppo­sto del cor­tile rispetto ai dor­mi­tori e alle aule dei figli. Qui seguono lezioni degli psi­co­logi su come trat­tare i figli senza schiac­ciarli sotto troppe pres­sioni. Fanno inol­tre ses­sioni di psi­ca­na­lisi indi­vi­duali e di gruppo. Ci sono anche sedute a cui geni­tori e figli par­te­ci­pano insieme, sotto la super­vi­sione dei medici.
Que­sto è in genere il pro­gramma del mat­tino. Al pome­rig­gio i ragazzi mar­ciano, men­tre alcuni padri pre­stano ser­vi­zio come Bao’an — sor­ve­glianti – volon­tari: indos­sano la tipica fascetta rossa al brac­cio e con­trol­lano che nes­suno cer­chi di filar­sela sca­val­cando il muro di cinta.
«Suc­cede a volte — rico­no­sce Li — quindi dob­biamo sem­pre tenerli d’occhio».
Peng Xin è una delle psi­ca­na­li­ste del campo. Lavora qui da dieci anni, «mi occupo sia delle ses­sioni indi­vi­duali sia di quelle col­let­tive; sia con i ragazzi, sia con i geni­tori», spiega. «Gli psi­co­logi occi­den­tali spesso si foca­liz­zano su una spe­ci­fica scuola o meto­do­lo­gia, noi pre­fe­riamo mesco­lare diversi approcci a seconda delle esi­genze dei pazienti», aggiunge. «L’altra dif­fe­renza è abba­stanza chiara: un paziente occi­den­tale sce­glie di seguire una tera­pia, qui abbiamo a che fare con ragazzi che sono stati tra­sci­nati di forza al campo dai loro geni­tori: diciamo che sono tutt’altro che felici quando ci vedono la prima volta», spiega ridendo .
«Que­sto è il motivo per cui, in genere, nei primi due mesi lot­tano sia con­tro noi sia con­tro gli istrut­tori fisici. Se si chiede loro “per­ché sei qui?” con­ti­nuano a ripe­tere “non lo so”, chiu­den­dosi a ric­cio. Quanto ai geni­tori, di solito spie­ghiamo loro durante il trat­ta­mento che è neces­sa­rio “sen­tire” i loro figli, non solo dare loro ordini».
«Ogni psi­co­logo si occupa di 8–10 ragazzi, che con­di­vi­dono la rou­tine quo­ti­diana del campo», spiega Tao. «Le sedute di gruppo sono utili per­ché così, se qual­cuno non dice la verità, gli altri lo ret­ti­fi­cano. Quelle indi­vi­duali riguar­dano invece pro­blemi per­so­nali come il sesso e la mastur­ba­zione, men­tre gli incon­tri con i loro geni­tori sono utili per fare emer­gere il ran­core reci­proco. E poi, attra­verso i corsi di psi­co­lo­gia, sco­prono l’esistenza di pro­blemi come il com­plesso di infe­rio­rità e si ren­dono conto che è una pato­lo­gia cura­bile. A volte li por­tiamo in visita in luo­ghi come le car­ceri mino­rili e gli orfa­no­trofi, per farli comu­ni­care con casi peg­giori del loro. A volte li met­tiamo di fronte a “casi modello” per dar loro modo di ispi­rarsi».
La pre­pa­ra­zione fisica non con­si­ste solo nel mar­ciare come soldatini.
Guo Ming è un istrut­tore mili­tare. Ha 24 anni, è dun­que solo un po’ più grande rispetto alla mag­gior parte dei ragazzi in cura. Ha con­cluso il suo ser­vi­zio mili­tare nell’Esercito Popo­lare di Libe­ra­zione un anno fa. «Ci diamo molto da fare, qui: basket, pal­la­volo, cal­cio. Ma nes­suno sport da com­bat­ti­mento: se devono libe­rare la pro­pria aggres­si­vità, c’è una stanza spe­ciale dove pos­sono sfo­garsi pic­chiando un cuscino».
«A causa della loro stile di vita lento e disor­di­nato, arri­vano qui in stato di debo­lezza e pro­stra­zione. Noi prov­ve­diamo quindi all’allenamento fisico per aumen­tare i loro livelli di ener­gia», dice Li Huan. «E miglio­rano molto rapi­da­mente», aggiunge il pre­pa­ra­tore fisico Guo. «Per me que­sto è un buon lavoro., anche abba­stanza facile, dato che vengo dall’esercito. Per adesso mi va bene così, in futuro vedremo.»
«Ci siamo resi conto che la dipen­denza da inter­net è una con­se­guenza della depres­sione o del
defi­cit di atten­zione e ipe­rat­ti­vità (ADHD)», spiega il dot­tor Tao. «Ma la mia ultima ricerca dimo­stra che in molti casi que­ste pato­lo­gie discen­dono a loro volta da un pro­blema di meta­bo­li­smo e quindi c’è anche biso­gno della tera­pia fisica. I ragazzi hanno di solito una carenza di vita­mine o di mine­rali e la riso­nanza magne­tica spesso rivela poca cir­co­la­zione di san­gue e di ossi­geno a livello cere­brale. Finora abbiamo dato a circa il 20 per cento di loro far­maci anti­de­pres­sivi, ma la mag­gior parte avrebbe invece biso­gno di qual­cosa per i pro­blemi meta­bo­lici. Per­ciò penso che in futuro toglierò di mezzo gli anti­de­pres­sivi e mi con­cen­trerò su inte­gra­tori ali­men­tari.»
Secondo Tao, fino al 2008 i pazienti recu­pe­rati si aggi­ra­vano sul 30 per cento circa. Ora, la stima è dell’85 per cento. Per deter­mi­nare se un ospite è pie­na­mente de-internettizzato sono presi in con­si­de­ra­zione due para­me­tri. «Il primo è il suo recu­pero sociale — spiega il dot­tore — vale a dire, se torna a scuola o al lavoro, se ha una vita nor­male. Il secondo è rela­tivo al suo rap­porto con i geni­tori, gli amici, la società nel suo com­plesso. È par­ti­co­lar­mente impor­tante moni­to­rare se è in grado di gestire cor­ret­ta­mente i con­flitti quo­ti­diani o se ricorre al com­por­ta­mento vio­lento come prima. Seguiamo i ragazzi per circa 3 mesi dopo la fine della ria­bi­li­ta­zione, spesso li chia­miamo a casa per gli aggior­na­menti. Del 15 per cento che ha una rica­duta, il 10 per cento torna al nostro cen­tro per un periodo più breve rispetto a prima. In que­sti casi, si tende a pri­vi­le­giare il trat­ta­mento indi­vi­duale.»
Wang Yaxuan e Yin Xue­chun hanno entrambe 19 anni. Le due ragazze sono state tem­po­ra­nea­mente tolte dall’università, dove stu­diano rispet­ti­va­mente logi­stica e sicu­rezza infor­ma­tica. Tutte e due hanno già pas­sato al campo tre mesi, sono a metà della riabilitazione.
«Sono qui per­ché avevo qual­che pro­blema di comu­ni­ca­zione», sus­surra una timi­dis­sima Yin, senza rac­con­tare ulte­riori det­ta­gli. «La prima volta che ho visto gli psi­co­logi, l’ho presa piut­to­sto male. Ma ora qui den­tro ho molti amici, più di quanti ne avessi prima, e quindi mi sono resa conto che avevo un pro­blema. Quando mi hanno por­tata qui, ho odiato i miei» rivela; e si avverte che un po’ di rab­bia sof­fusa c’è ancora.
«Ogni giorno, stavo almeno 12 ore a gio­care online», aggiunge Wang. «Che cosa ho pen­sato quando ho visto per la prima volta uno psi­co­logo? Beh, ho pen­sato che qual­cuno mi stava ad ascol­tare».

Nessun commento:

Posta un commento