Occorre riconoscerlo: quel congedo progressivo dalla violenza, in cui molti avevano sperato, non è mai avvenuto. Una violenza endemica percorre le strade delle nostre città, travolge e scuote borghi isolati e piccoli comuni, imperversa tra le mura domestiche. Quella stessa violenza oltrepassa di nuovo il labile confine tra privato e pubblico, esplodendo con ferocia ovunque, anche nelle sedi istituzionali.
Non c’è diritto né divieto che sembra poterla arginare. Fuori dai vecchi schemi ideologici, al di là perfino della criminalità convenzionale, la violenza di questi tempi non è tanto l’aggressione del fuorilegge, quanto la crudeltà di chi non conosce regole. A cominciare da quelle che dovrebbero reggere gli stessi rapporti umani. Perciò questa violenza fa apparire obsoleto ogni scontro regolato, che sia il duello di un tempo o la guerra tra eserciti. E infierisce sul più vicino, sul prossimo, su chi, per sorte, è a tiro.
Così la violenza che viene da fuori ha più di un tratto in comune con quella che riemerge all’interno. E c’è da chiedersi quale sia alla fin fine più inquietante. In entrambi i casi si tende a parlare, come è accaduto spesso in questi giorni, di «follia», un’etichetta con cui si elude sbrigativamente la complessità. Forse perché la violenza che, nelle sue innumerevoli forme, è ormai protagonista delle cronache, mette in crisi il grande racconto del miglioramento, quel mito del progresso che appare sempre più una finzione.
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