A New York, dove Broadway incontra Columbus Circle e il Trump International Hotel che, infine, i contestatori si son stancati di picchettare, una giovane coppia attraversa di buon passo, con due bimbi. Lei, vestitino rosa, forse quattro anni, cammina con gli occhietti fissi allo schermo di un cellulare dove scorre Winnie the Pooh. Il fratellino di due anni sul passeggino, serissimo, è immerso su un altro iPhone. La madre ride «A casa si arrabbiano con la tv, passano la mano sul video scambiandolo per un iPad e si scocciano perché non mutano le immagini». L’ilarità della signora mi colpisce, perché tra pochi giorni uscirà in America «iGen», saggio della psicologa Jean Twenge, docente a San Diego University, e mentre ne leggo le bozze la rivista Atlantic anticipa un capitolo, buttando nella costernazione milioni di genitori.
Mettendo a confronto i dati degli ultimi 40 anni, Twenge scopre che i teenagers Usa sono più depressi e meno inseriti a scuola o al lavoro, dei loro genitori e nonni. Passano meno tempo con gli amici, nello studio, nello sport, perfino pomiciare e far l’amore sono trascurati. Non si prende la patente, non si va a ballare. I suicidi aumentano, preceduti dall’uso di droghe, l’insicurezza sociale genera bullismo aggressivo e vittimismo paralizzante. Vittime numerose tra le ragazze, vulnerabili più dei coetanei maschi.
E di chi è, secondo Twenge, la colpa di questa epidemia di solitudine, frustrazione e nevrosi nella generazione 13-19 anni? Di cellulari e tablet, soprattutto iPhone, lanciato nel 2007, e iPad, 2010, che assorbono cervello, anima e cuore dei nostri ragazzi, lasciandoli per ore, gusci vuoti a letto. «Passo le giornate distesa, il materasso ha l’impronta del mio corpo» confessa un’adolescente della «iGen», la Generazione iPhone, secondo il marchio coniato da Twenge. Né il dramma è limitato a Trumpland, una passeggiata, una cena, una visita ai parenti, vi confermano in ogni città europea analoga alienazione («Uscite di casa con la Bibbia, non lo smartphone!» invoca perfino il Papa).
Ieri il «Washington Post» intervistava i giovani palestinesi della Striscia di Gaza, niente lavoro, scuola, sport, ostaggi di un conflitto senza soluzione. Alla domanda, «Come passate la giornata?», la risposta è identica a quella dei californiani abbienti e viziati: «Curvi sullo smartphone». L’inchiesta di Jean Twenge conferma il trend, ricchi e poveri, cittadini e figli della campagna, i ragazzi iGen trascurano famiglia, amici, fidanzatini, chiesa, volontariato, smarriti nell’ossessiva solitudine del cellulare. I più sfortunati si perdono nella malattia mentale e nel suicidio.
«The Atlantic», una delle migliori riviste Usa, non è nuova alla denuncia fosca contro la cultura digitale, già nel 2008 con l’angosciante saggio di Nicholas Carr - poi diventato libro tradotto da Cortina - che in inglese si chiamava «Google ci rende stupidi?», in italiano divenne un più prudente «Internet ci rende stupidi?». Nel 2012, Stephen March spaventava invece i lettori con un altro titolo di quelli che il cliché kitsch si ostina a chiamare «choc»: «Facebook ci rende solitari?». Insomma, più la nostra vita, dalla politica con i tweet del presidente Trump, all’amore - matrimonio o flirt di amanti -, alle notizie online, dipende dal piccolo schermo digitale, più la paura di una trappola infernale dilaga.
Come se ne esce? Per Twenge solo con un perentorio «Posate quei telefoni!», ordine da impartire a scuola, in famiglia, ovunque i ragazzini passino tempo. Già oggi docenti universitari illustri, Jeff Jarvis o Sherry Turkle, impediscono agli studenti di usare in classe cellulari e computer, solo quaderni e penne, e la leggenda narra che Steve Jobs limitasse ai figli l’uso di iPhone. Non c’è dubbio che la full immersion digitale muta il nostro approccio a realtà e vita, ma nel considerare la fobia anti-tecnologica di quelli che, nel suo geniale saggio del 1964, Umberto Eco chiamava «apocalittici», i nemici degli «integrati», non dimenticate mai la Prima Legge della Tecnologia dettata dal professor Melvin Kranzberg: «La tecnologia non è buona, o cattiva, ma neppure è neutrale». Dipende da noi, da come la vivremo.
Twenge vede salire dai suoi dati le correlazioni adolescenti-infelicità-solitudine-abusi di sostanze-suicidio-tempo speso sui cellulari e, in automatico, addossa la colpa agli smartphone. Ma siamo sicuri che, se li eliminassimo, i ragazzi di botto ritroverebbero sorriso e entusiasmo? Siamo certi che siano depressi perché vivono al telefono, o invece vivono al telefono perché il nostro tempo non ha per loro idee, valore, speranze e dunque sono già depressi?
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