domenica 6 agosto 2017

SCIRTTORI E SCIENZE UMANE. G. SIMONETTI, La letteratura circostante, IL SOLE 24 ORE, 30 luglio 2017

La letteratura circostante è la letteratura a noi contemporanea, quella che nasce oggi e oggi entra a far parte del circuito della comunicazione. È fatta dei libri che abbiamo intorno, quelli che troviamo negli scaffali delle librerie (magari tra le novità) e non solo in quelli delle biblioteche. Spesso è organizzata in generi che hanno molti secoli di vita, come il romanzo, o la poesia lirica; anche per questo tendiamo a leggerla in continuità con la letteratura del passato, e soprattutto con quella del Novecento, che ci è più vicina. 


A ben guardare però la maggior parte della letteratura che si scrive oggi è decisamente diversa da quella che si scriveva ieri o l’altroieri: sia pure tra mille eccezioni e cautele sembra operare un distacco progressivo e forse irreversibile dalla tradizione del Novecento. La cultura letteraria che stiamo attraversando è in effetti una cultura mutante, che sta ripensando, e a tratti capovolgendo, le basi stesse del proprio sapere.
Se le cose stanno così, varrà forse la pena, nelle prossime settimane, di provare a riflettere su quanto di specifico e di nuovo agisce nella forma delle opere che in Italia definiscono il paesaggio della letteratura circostante. Ne identificheremo le abitudini stilistiche e ne collauderemo le ambizioni culturali. Soprattutto proveremo a misurarne la distanza da quella che definirei la “letteratura di una volta”.
La letteratura di una volta cristallizza un ideale estetico all’ingrosso umanistico e romantico, ancora centrale nella cultura italiana del Novecento, che assegnava al bello un ruolo centrale nell’educazione sentimentale e morale dei cittadini, e alla letteratura un posto chiave all'interno del sistema delle arti. Anche per questo nei nostri licei la letteratura è stata per lungo tempo la disciplina-guida: non solo un linguaggio artistico tra gli altri, ma per così dire l’arte per eccellenza, quella che ambiva a surrogare la politica, la filosofia, la religione, e in definitiva la vita stessa. Così ad esempio per Kafka, secondo il quale scrivere è qualcosa di «vicino alla preghiera»; così per Proust, per cui la vera vita, «la sola veramente vissuta», è appunto la letteratura. Così, da noi, per Montale, che nella poesia vedeva «la forma di vita di chi veramente non vive».
Ovviamente accanto a quest’idea così totalizzante e ascetica di letteratura c’è sempre stato spazio per concezioni meno esigenti e più edonistiche. Pensiamo alla letteratura popolare, e a quella di consumo: letterature senza pretese di totalità, senza rovelli metafisici e senza desideri di infinito. Ma tra Otto e Novecento questi due piani non si contraddicevano, anzi si legittimavano a vicenda. Sia perché erano teoricamente separati e quasi incomunicanti; sia perché si riferivano a due tipi di lettore che potevano occasionalmente sovrapporsi ma che di solito restavano lontani; infine perché si incarnavano in progetti formali diversi e inconfondibili.
La prima idea di letteratura, la più ambiziosa, che chiamerei letteratura “in senso forte”, si identifica nel Novecento in una forma carica di significati, in uno stile personale, in un determinato e accorto uso della lingua. Il piacere che persegue fa parte integrante di un processo di conoscenza e non è separabile da esso.
Nella stessa epoca, la letteratura popolare e poi quella di consumo puntano al divertimento; un divertimento che può nascere dalla ripetizione del noto, o da qualche innocua variazione sul tema. È questa una letteratura che rispetto alla precedente può apparire debole, perché frequenta piaceri regressivi, pratica stilizzazioni grossolane, si accontenta di risultati parziali. Un eccesso di forma, o una eccessiva concentrazione della forma stessa, diventano più un difetto che un pregio, perché impegnano troppo la testa e sollecitano troppe domande. Ben vengano invece un po’ di approssimazione stilistica, un’organicità meno ferrea, una scarsa coerenza strutturale e logica: aspetti tipici, da sempre, dell’arte cosiddetta di genere. Qui l’epigonismo paga più dell’originalità, perché il ricorso a qualche stereotipo comporta meno fatica non solo per chi scrive, ma anche e soprattutto per chi legge.
Il rapporto tra queste due idee e pratiche del letterario si altera a partire soprattutto dagli ultimi decenni del secolo scorso. Le ragioni sono molte e diverse, ma le più importanti sono probabilmente rappresentate dall’aumento vertiginoso dei lettori e dall’esplosione della comunicazione e dei media di massa. Nella coscienza di un pubblico sempre più vasto entra in concorrenza con la parola scritta un numero vertiginoso di “opere” fatte soprattutto di immagini e suoni; opere che presuppongono un ideale specifico di bellezza, un nuovo senso del ritmo e un diverso rapporto con la conoscenza. Opere che sembrano spontaneamente alleate della realtà che rappresentano, assai più di quanto non lo sembri la parola scritta. Prima le storie-in-movimento del cinema, poi quelle della televisione (che oggi si incontrano sul terreno delle nuove serie intelligenti); poi le storie ibride dei reality, e infine quelle della rete, che coi social permette a tutti di narrare, o di inoltrarsi in narrazioni altrui disseminate e immersive quanto la vita stessa. Così il campo letterario italiano è passato nel giro di trent’anni da un complesso di superiorità a uno di inferiorità nei confronti della mediasfera. Se una volta sentivano di primeggiare sui linguaggi artistici concorrenti, i letterati constatano che socialmente egemoni sono oggi i linguaggi audio-visuali e informatici. Il racconto audiovisivo diventa, per molti scrittori, un modello privilegiato di narrazione; e sarà interessante verificare nelle prossime puntate in che modo la letteratura italiana contemporanea stia cercando di assorbirne l’energia e le tecniche.
Questo processo comunque non significa che tutta la cultura scritta si senta oggi in un angolo. A trovarsi in difficoltà è soprattutto un certo tipo di letteratura, e un certo tipo di scrittore, che definirei appunto di “stile Novecento”. Chi si mette nei suoi panni può meglio misurare quanto siano cambiate, rispetto al passato anche recente, la posizione che la letteratura occupa nella società e l’uso che comunemente se ne fa.
La posizione, innanzitutto. Nello scaffale simbolico in cui è ordinata, le scritture che conservano gli spessori e le ambizioni di una volta diventano sempre più un prodotto di nicchia, in senso merceologico. Come tutti i prodotti di nicchia, occupano una posizione prestigiosa ma defilata. Letteratura in senso forte non smette certo di essere scritta, ma sempre più è destinata a essere letta e compresa da un’élite. Il declino del modello umanistico le toglie ossigeno, cioè lettori in grado di apprezzarla o anche soltanto di riconoscerla per quello che aspira a essere: una forma di sapere specifica e insostituibile.
Quanto all’uso, se è vero che la letteratura in senso forte è sempre stata una miscela di piacere e di scoperta, è altrettanto vero che oggi la letteratura in generale è sempre meno socialmente intesa come esplorazione dell’ignoto. Ogni vera conoscenza artistica presupponeva, «una volta», una certa dose di rischio intellettuale: non c’è autentica cultura senza un po’ di silenzio, di sorpresa, forse di scarnificazione. E invece la letteratura contemporanea rischia di diventare, per milioni di lettori, niente più che la conferma conformista e rumorosa di una cosa che più o meno si sa già. Così la lettura si riduce a passatempo intelligente - meno tecnologico e versatile di altri passatempi, ma più blasonato (perché capace di farci sentire più maturi, più buoni, più rispettabili socialmente).
Continuiamo dunque a scrivere e a leggere letteratura. Ma quel che succede sotto i nostri occhi è che bassa temperatura stilistica, incerta padronanza formale, stereotipia, scarsa coerenza strutturale – quelli che abbiamo identificato come aspetti tipici delle scritture di genere, e prima ancora della letteratura popolare – si affacciano anche ai piani alti della poesia e del romanzo, non per scelta pop, ma per contagio inconsapevole. Le due letterature a cui la cultura novecentesca ci aveva abituati oggi sono diventate tre; anzi è proprio questa terza a guadagnare soprattutto posizioni e visibilità, non solo per il grande pubblico ma anche presso i lettori cosiddetti forti. Una letteratura via-di-mezzo, né puro consumo né vera sfida culturale, ma piuttosto nobile intrattenimento, che all’occorrenza può nutrirsi di impegno civile e citazioni colte, ma al dunque si avvicina ad altre forme di intrattenimento mediocre, più imperialistiche e più easy. Ecco perché in molta letteratura circostante - e presto vedremo più precisamente in quale - la mediocrità stilistica non è sempre l'esito imprevisto di un fallimento progettuale. Spesso è l'offerta più ragionevole e più democratica a una specifica domanda di cultura media.
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(1 - Primo di una serie di articoli)

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