Si parla di armi nel nuovo libro di Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale(Laterza, pp.109, euro 14,00). Anzi, più correttamente, di ARMI, dove i caratteri maiuscoli stanno ad indicare che non si tratta tanto di pistole, contraerei o droni, ma di un acronimo che sta per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità, ossia, per sciogliere il plesso terminologico piuttosto inquietante, il web: quell’apparato che determina le nostre esistenze più di quanto ne siamo in genere consapevoli.
Un apparato che è fatto di vincoli (ci sentiamo in colpa se non controlliamo le mail), opportunità (comunichiamo in modo infinito e possiamo verificare seduta stante un’informazione), chiamate (alle ARMI), nuove forme di socializzazione. L’acronimo non è scelto, ovviamente, a caso. Le ARMI sono, in effetti, qualcosa il cui aspetto è realmente inquietante, sono un assoluto che si impone in termini decisamente radicali, un potere che ci mobilita e ci fa entrare in qualche modo in guerra, innanzitutto nei confronti di noi stessi.
Un vocabolario di guerra
Le ARMI sono, a un tempo, struttura coercitiva e strumento di liberazione: potere determinante nei confronti delle esistenze – per cui ci si trova a organizzare il proprio tempo vitale sulla base di agende che sono coerenti con il sistema della rete, si apprende e si commenta ciò che Google, Facebook o Twitter ci chiedono di apprendere e commentare – e insieme possibilità di emancipazione – forza in grado di abbattere muri prima nemmeno scalfibili, di raggiungere conoscenze prima protette da densi e opachi filtri sociali, facendo sentire la propria voce (anzi la propria scrittura, perché la voce sembra ormai scomparsa) là dove prima non ne arrivava nemmeno l’eco.
Ma Ferraris insiste soprattutto, contro la retorica della condivisione totale e coerentemente con alcuni suoi assunti teorici, sull’aspetto subdolamente costrittivo e performativo delle ARMI: «ciò a cui stiamo assistendo … è il dispiegarsi su scala mondiale di un potere il cui antenato più prossimo è appunto l’alleanza tra burocrazia e potere militare che si manifesta nelle esperienze storiche della mobilitazione totale». In questo senso se c’è un vocabolario in grado di penetrare e rendere ragione delle dinamiche di funzionamento del web, della sua straordinaria pervasività e della sua capacità di modificare e strutturare nel profondo le vite di coloro che spesso si illudono di dominarne il senso, questo è appunto il vocabolario della militarizzazione e della guerra. Il Web è un apparato che mobilita, che determina le priorità, che plasma alla radice le temporalità esistenziali, che destruttura e ristruttura i concetti classici di lavoro, di azione, di produzione, di mercato. Dentro il sistema delle ARMI, infatti, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di riposo diventa illusoria, così come indefinibile è per molti versi il confine tra attività privata e attività pubblica, e dunque, in termini ancora più generali, tra libertà e ingiunzione.
Né apocalittica denuncia del nuovo e invisibile potere costituito dalla Rete, né integrata lode nei confronti dei nuovi orizzonti da essa dischiusi, il lavoro di Ferraris non è un’indagine latamente sociologica, e non è un pamphlet di critica del costume. È un discorso schiettamente filosofico che si situa, esplicitamente, su un livello antropologico, come un un discorso sulla natura umana. La radice delle ARMI non è infatti, secondo Ferraris, il Capitale, non è un’agenzia di multinazionali che guida gli individui verso comportamenti finalizzati a un interesse specifico; non è nemmeno la CIA o la National Security Agency (cosa che la visione di Citizenfour, il documentario di Laura Poitras su Edward Snowden potrebbe anche far pensare) o una qualche Spectre di altro tipo: non è appannaggio di Apple né di Microsoft. E non perché questi non siano reali poteri, ma perché, semplicemente, fermarsi a questo livello equivarrebbe alla rinuncia di una spiegazione radicale del fenomeno. La fonte germinale delle ARMI, la forza da cui scaturiscono è, dice Ferraris, la natura umana, la peculiare tendenza degli umani a sopperire alle debolezze e alle fragilità della propria natura con protesi tecniche. La radice delle ARMI è la natura originariamente tecnica dell’umano; ridurla a strumento elaborato dal potere di taluni per il dominio degli altri significa non comprenderne la radicalità. Anzi, proprio nella loro duplice natura di strumento di vincolo e oppressione, e allo stesso tempo, di ribellione ed emancipazione, le ARMI mostrano di essere una delle modalità di emersione della natura dell’umano.
Le ARMI sono, a un tempo, struttura coercitiva e strumento di liberazione: potere determinante nei confronti delle esistenze – per cui ci si trova a organizzare il proprio tempo vitale sulla base di agende che sono coerenti con il sistema della rete, si apprende e si commenta ciò che Google, Facebook o Twitter ci chiedono di apprendere e commentare – e insieme possibilità di emancipazione – forza in grado di abbattere muri prima nemmeno scalfibili, di raggiungere conoscenze prima protette da densi e opachi filtri sociali, facendo sentire la propria voce (anzi la propria scrittura, perché la voce sembra ormai scomparsa) là dove prima non ne arrivava nemmeno l’eco.
Ma Ferraris insiste soprattutto, contro la retorica della condivisione totale e coerentemente con alcuni suoi assunti teorici, sull’aspetto subdolamente costrittivo e performativo delle ARMI: «ciò a cui stiamo assistendo … è il dispiegarsi su scala mondiale di un potere il cui antenato più prossimo è appunto l’alleanza tra burocrazia e potere militare che si manifesta nelle esperienze storiche della mobilitazione totale». In questo senso se c’è un vocabolario in grado di penetrare e rendere ragione delle dinamiche di funzionamento del web, della sua straordinaria pervasività e della sua capacità di modificare e strutturare nel profondo le vite di coloro che spesso si illudono di dominarne il senso, questo è appunto il vocabolario della militarizzazione e della guerra. Il Web è un apparato che mobilita, che determina le priorità, che plasma alla radice le temporalità esistenziali, che destruttura e ristruttura i concetti classici di lavoro, di azione, di produzione, di mercato. Dentro il sistema delle ARMI, infatti, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di riposo diventa illusoria, così come indefinibile è per molti versi il confine tra attività privata e attività pubblica, e dunque, in termini ancora più generali, tra libertà e ingiunzione.
Né apocalittica denuncia del nuovo e invisibile potere costituito dalla Rete, né integrata lode nei confronti dei nuovi orizzonti da essa dischiusi, il lavoro di Ferraris non è un’indagine latamente sociologica, e non è un pamphlet di critica del costume. È un discorso schiettamente filosofico che si situa, esplicitamente, su un livello antropologico, come un un discorso sulla natura umana. La radice delle ARMI non è infatti, secondo Ferraris, il Capitale, non è un’agenzia di multinazionali che guida gli individui verso comportamenti finalizzati a un interesse specifico; non è nemmeno la CIA o la National Security Agency (cosa che la visione di Citizenfour, il documentario di Laura Poitras su Edward Snowden potrebbe anche far pensare) o una qualche Spectre di altro tipo: non è appannaggio di Apple né di Microsoft. E non perché questi non siano reali poteri, ma perché, semplicemente, fermarsi a questo livello equivarrebbe alla rinuncia di una spiegazione radicale del fenomeno. La fonte germinale delle ARMI, la forza da cui scaturiscono è, dice Ferraris, la natura umana, la peculiare tendenza degli umani a sopperire alle debolezze e alle fragilità della propria natura con protesi tecniche. La radice delle ARMI è la natura originariamente tecnica dell’umano; ridurla a strumento elaborato dal potere di taluni per il dominio degli altri significa non comprenderne la radicalità. Anzi, proprio nella loro duplice natura di strumento di vincolo e oppressione, e allo stesso tempo, di ribellione ed emancipazione, le ARMI mostrano di essere una delle modalità di emersione della natura dell’umano.
Orizzonti antropologici
Per questo il discorso sulle ARMI non può che essere un’antropologia. E l’antropologia che emerge in questo lavoro di Ferraris è fondamentalmente pessimistica. Il punto è cruciale perché getta una luce niente affatto banale su quel (nuovo) realismo filosofico di cui molto si è discusso in questi anni, a volte con stizza e non di rado con accenti isterici. In un certo senso, in questa antropologia sembra di poter scorgere una delle motivazioni profonde che spingono verso quella opzione ontologica e metafisica. Nel sottolineare e nell’insistere sulla necessità di pensare l’indipendenza del reale dalle menti e, conseguentemente, la dipendenza delle menti dal reale, il realismo di Ferraris si fa in queste pagine, realismo esistenziale.
Nell’antropologia che viene proposta in questa analisi della rete come luogo dentro il quale le nostre esistenze si trovano gettate a vivere, l’esistenza si rivela in effetti adeguata solo in quanto accoglie la sua dipendenza dal reale. La convinzione che Ferraris cerca di difendere qui è dunque questa: che l’esistenza non sia tanto formatrice di mondo (come voleva Heidegger, che distingueva così il modo d’essere dell’uomo dal modo d’essere della pietra – priva di mondo – e dall’animale – povero di mondo) ma sia semmai dipendente dal mondo. Più radicalmente ancora: è il mondo, con il suo correlato di linguaggi, tradizioni, leggi e storie, a essere formatore di esistenze. Le vite degli umani ricevono il loro senso dal mondo e da tutte quelle stratificazioni di senso che vi si sono formate, fuori da qualsiasi dinamica volontaristica e intenzionale: dalla grammatica delle abitudini al sistema di norme sociali che costituiscono il gigantesco inconscio dentro il quale già da sempre siamo e già da sempre, fin dal nostro primo respiro, ci muoviamo.
Per questo il discorso sulle ARMI non può che essere un’antropologia. E l’antropologia che emerge in questo lavoro di Ferraris è fondamentalmente pessimistica. Il punto è cruciale perché getta una luce niente affatto banale su quel (nuovo) realismo filosofico di cui molto si è discusso in questi anni, a volte con stizza e non di rado con accenti isterici. In un certo senso, in questa antropologia sembra di poter scorgere una delle motivazioni profonde che spingono verso quella opzione ontologica e metafisica. Nel sottolineare e nell’insistere sulla necessità di pensare l’indipendenza del reale dalle menti e, conseguentemente, la dipendenza delle menti dal reale, il realismo di Ferraris si fa in queste pagine, realismo esistenziale.
Nell’antropologia che viene proposta in questa analisi della rete come luogo dentro il quale le nostre esistenze si trovano gettate a vivere, l’esistenza si rivela in effetti adeguata solo in quanto accoglie la sua dipendenza dal reale. La convinzione che Ferraris cerca di difendere qui è dunque questa: che l’esistenza non sia tanto formatrice di mondo (come voleva Heidegger, che distingueva così il modo d’essere dell’uomo dal modo d’essere della pietra – priva di mondo – e dall’animale – povero di mondo) ma sia semmai dipendente dal mondo. Più radicalmente ancora: è il mondo, con il suo correlato di linguaggi, tradizioni, leggi e storie, a essere formatore di esistenze. Le vite degli umani ricevono il loro senso dal mondo e da tutte quelle stratificazioni di senso che vi si sono formate, fuori da qualsiasi dinamica volontaristica e intenzionale: dalla grammatica delle abitudini al sistema di norme sociali che costituiscono il gigantesco inconscio dentro il quale già da sempre siamo e già da sempre, fin dal nostro primo respiro, ci muoviamo.
In questo senso il realismo di Ferraris, e con esso la sua idea di esistenza, la sua stessa idea di filosofia e di pratica culturale, per quanto spesso giocata in termini di leggerezza, di ironia e di humour, è molto più radicalmente pessimista (in un senso che direi quasi leopardiano) di tanto pensiero negativo, di tanta retorica del tragico, di tanta mestizia della finitudine e della colpa, che, dietro l’apparente modestia, direbbe Hegel, nasconde non di rado la più altezzosa superbia: quella di sentirsi in potere di dire all’uomo, alle cose e al mondo nella sua complessità, come l’uomo, il mondo e le cose debbano essere per essere ciò che sono.
Ovviamente, l’idea che l’esistenza sia innanzitutto dipendenza, prima che autodeterminazione, è la più problematica e spinosa di tutta la faccenda. Una delle accuse che sono state rivolte al nuovo realismo è infatti quella di non riuscire a pensare l’istanza emancipativa, di non riuscire a dare senso a un bisogno di trasformazione del reale a partire da istanze di giustizia: a partire, ad esempio, da un qualche senso di inaccettabilità delle circostanze date. Se infatti si vuole trasformare il reale è necessario pensare a una qualche possibilità costruttiva nei confronti della realtà, è necessario potersi muovere nei suoi confronti dentro un rapporto che non sia di sola dipendenza; è necessario, cioè, riconoscere un elemento di originaria autodeterminazione da parte dell’umano affinchè sia capace di instaurare una dinamica emancipativa e trasformativa rispetto al mondo.
I diritti della realtà
In effetti, risponde Ferraris, è possibile emancipazione solo là dove si riconoscono alla realtà i suoi diritti, dove si pensano le differenze tra diversi tipi di realtà, dove è chiaro rispetto a quali realtà è in nostro potere agire e rispetto a quali, invece, pretendere di essere costruttivi è solo un’operazione ideologica. Si coglie qui tutta la fatica di coniugare il pessimismo antropologico con la possibilità di pensare un’azione in grado di rendere il mondo migliore rispetto a come è.
In questo senso, se c’è un limite in questo lavoro al solito brillante, rigoroso e questa volta più di altre segnato, e forse esistenzialmente attraversato, da una intrinseca e produttiva problematicità, è quello per cui un certo ottimismo ontologico non è sempre all’altezza del pessimismo antropologico radicale che anima tutto il lavoro. Per difendere la ragioni della realtà (cosa che a mio parere Ferraris fa benissimo a fare, contro tutte le caricature ideologiche e costruttivistiche e contro tutti i velleitarismi soggettivistici) questo libro tende, a volte, a leggere la realtà storica e sociale con categorie non altrettanto raffinate di quelle usate per indagare non solo quella manifestazione specifica del presente che sono le ARMI, ma anche i modi con cui le nostre esistenze concrete si fanno da esse plasmare.
In effetti, risponde Ferraris, è possibile emancipazione solo là dove si riconoscono alla realtà i suoi diritti, dove si pensano le differenze tra diversi tipi di realtà, dove è chiaro rispetto a quali realtà è in nostro potere agire e rispetto a quali, invece, pretendere di essere costruttivi è solo un’operazione ideologica. Si coglie qui tutta la fatica di coniugare il pessimismo antropologico con la possibilità di pensare un’azione in grado di rendere il mondo migliore rispetto a come è.
In questo senso, se c’è un limite in questo lavoro al solito brillante, rigoroso e questa volta più di altre segnato, e forse esistenzialmente attraversato, da una intrinseca e produttiva problematicità, è quello per cui un certo ottimismo ontologico non è sempre all’altezza del pessimismo antropologico radicale che anima tutto il lavoro. Per difendere la ragioni della realtà (cosa che a mio parere Ferraris fa benissimo a fare, contro tutte le caricature ideologiche e costruttivistiche e contro tutti i velleitarismi soggettivistici) questo libro tende, a volte, a leggere la realtà storica e sociale con categorie non altrettanto raffinate di quelle usate per indagare non solo quella manifestazione specifica del presente che sono le ARMI, ma anche i modi con cui le nostre esistenze concrete si fanno da esse plasmare.
Natura di una cultura
Dire ad esempio, come si dice con insistenza nelle pagine finali del libro, che non è mai esistita un’epoca con tanta cultura, proprio grazie alle possibilità offerte dalla rete e alle sue conseguenti possibilità emancipative, è certamente dire una cosa vera, persino banalmente vera (e Ferraris sosterrebbe che è sempre meglio una cosa banalmente vera che una profondamente falsa), ma non ci dice in realtà molto della forma che ha questa cultura, del senso che essa incarna, della sua possibilità di essere davvero e radicalmente decostruttiva. Forse, non basta decostruire il costruttivismo soggettivistico: per rendere ragione della realtà, per guardarla in faccia con occhio sincero, bisogna anche decostruire i realismi che la imprigionano.
Dire ad esempio, come si dice con insistenza nelle pagine finali del libro, che non è mai esistita un’epoca con tanta cultura, proprio grazie alle possibilità offerte dalla rete e alle sue conseguenti possibilità emancipative, è certamente dire una cosa vera, persino banalmente vera (e Ferraris sosterrebbe che è sempre meglio una cosa banalmente vera che una profondamente falsa), ma non ci dice in realtà molto della forma che ha questa cultura, del senso che essa incarna, della sua possibilità di essere davvero e radicalmente decostruttiva. Forse, non basta decostruire il costruttivismo soggettivistico: per rendere ragione della realtà, per guardarla in faccia con occhio sincero, bisogna anche decostruire i realismi che la imprigionano.
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