IL TITOLO. Credo si tratti di una parafrasi/riformulazione
del titolo di una delle opere più note di Frantz Fanon (I DANNATI DELLA TERRA,
1961) un intellettuale originario della Martinica francese, protagonista di
quella tendenza del pensiero del Novecento che ha riflettuto sugli effetti del
colonialismo e sulle “costruzioni” psico-mentali e ideologico-politiche prodotte
dalla dialettica colonizzato-colonizzatore.
Fanon, che combatte in Europa fra le fila degli alleati
contro il nazi-fascismo per poi diventare medico-psichiatra e diventare uno dei
simboli della rivolta anti-francese in Algeria dove aveva chiesto di svolgere,
appunto, la professione di medico.
Fanon, di cui è stata ricordata recentemente la sua “passione
per la cura altrui”, una sensibilità per la sofferenza psico-esistenziale di
coloro che verranno definiti, appunto, i “dannati della terra”.
Per cui, la prima questione potrebbe essere proprio
questa: l’esperienza che Lei racconta in questo saggio è anche un resoconto di
tante vite umiliate dalla violenza razziale, economica e culturale di nuove
forme di imperialismo/colonialismo che strutturano il nostro tempo
globalizzato? Il dare la parola ai migranti attraverso una pratica dialogica
intensamente cercata nel tentativo di evitare qualsiasi forma di asimmetria e
di potere, è simile al tentativo di Fanon di restituire al nord-africano la sua
effettiva identità?
MIGRANTI ED ECONOMIA. Il secondo punto potrebbe riguardare il rapporto fra migrazione ed economia.
Nel saggio la dimensione economica è, di fatto, quella dimensione all’interno
della quale si svolge il dramma dei migranti. Condannati ad entrare,
prevalentemente, all’interno del sistema dell’”economia informale”, la ricerca
si sofferma, poi, su quelle persone che escono da questo sistema già per sé
illegale, per perdersi definitivamente nei territori della devianza e della
marginalità. Non credo si sia fatto abbastanza in questi anni per spiegare i
meccanismi di sfruttamento della migrazione, né quando si parla di migranti che
abbandonano il loro Paese, né quando si parla di delocalizzazione.
RAZZISMO. Il terzo punto, anche facendo
riferimento a vicende recenti, riguarda il razzismo
che scopriamo dalle interviste e dalle dichiarazioni delle persone che appaiono
nel libro. Molti di questi racconti rivelano violenze continue in tutti i
passaggi e paesaggi che devono essere attraversati dai migranti. I territori attraversati da queste persone ci
consentono di esaminare un complesso multiculturale segnato da soprusi ed
angherie di ogni tipo. E quando queste persone arrivano a casa nostra, le cose
e gli atteggiamenti non cambiano affatto. Come dire che c’è un continuum
etnocentrico che attraversa, contraddittoriamente, quel processo omologante e politicamente corretto che dovrebbe
essere, invece, la globalizzazione.
METODO. Il quarto ed ultimo punto fa
riferimento, invece, alla metodologia usata nella ricerca. Siamo rimasti
colpiti dalla accentuazione che è stata data alla costruzione delle relazioni con
queste persone. Che dunque deve essere stata la cosa più difficile da
realizzare. Alcune domande che sono state preparate riguardano proprio le
strategie che sono state usate per costruire la “relazione giusta” ed avviare
la pratica dell’intervista.
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