Viviamo in una fase di interregno, e questo può spiegare la crisi della governance, dell'autorità, della rappresentanza. Siamo sospesi tra il "non più" e il "non ancora", siamo instabili per forza di cose, nulla è solido attorno a noi, nemmeno la direzione di marcia. Non ci sono infatti movimenti politici che, avendo messo in crisi il vecchio mondo, siano oggi pronti a ereditarlo; non c'è un'ideologia che selezioni un pensiero vincente e lo diffonda; non c'è uno spirito costituente - morale, politico, culturale - che prometta di dare forma a nuove istituzioni per il mondo nuovo.
Stiamo scivolando verso un territorio sconosciuto e lo facciamo da soli, in ordine sparso, con le forme e i modi che hanno regolato le nostre vite che perdono contorno mentre smarriscono efficacia e autorità. Non usiamo più la politica, diffidiamo delle istituzioni che ci siamo dati, dubitiamo persino della democrazia, che sembrava l'unica religione superstite - e secondo alcuni destinata a diventare universale - dopo la fuga dalle false divinità che avevamo creato nel Novecento. Tu spieghi la ragione ultima di tutto questo: quando la politica non riesce a incidere sulla nostra vita quotidiana, non interseca le nostre inquietudini sul futuro dei nostri figli, a che cosa ci serve, qual è il suo valore d'uso? Chi ha perso il lavoro per la crisi e non lo trova più a cinquant'anni, potrebbe dire qualcosa di terribilmente simile addirittura per la democrazia: tu non mi aiuti, le tue regole auree valgono solo in tempi di benessere oppure valgono solo per i garantiti; noi esclusi siamo fuori da tutto, dalla procedura democratica concreta e anche dai diritti, perché senza libertà materiale non c'è libertà politica.
In questo strappo del patto tra Stato e cittadino c'è una condanna, come se la democrazia fosse una forma temporanea della costruzione umana e non riuscisse a governare il nuovo secolo appena incominciato, arenata nel Novecento; per definizione e per sua natura, la democrazia non prevede esclusioni: o vale per tutti oppure non funziona. Ma c'è anche un insegnamento: la democrazia dopo aver sconfitto le dittature non ha lo scettro per sempre, deve riconquistarlo ogni giorno rilegittimandosi continuamente, e la politica deve ritornare a occuparsi in concreto della vita delle persone, legando gli interessi legittimi in campo con i valori di cui è portatrice e con gli ideali a cui fa riferimento.
Esiste quindi una strada. Ma si rischia di non vederla perché l'interregno è anche il luogo in cui si libera l'irrazionale della decadenza, in una ribellione mossa più dall'angoscia che dalla libertà, dove nascono figure sciamaniche che operano una riduzione carismatica del meccanismo politico, rispondono agli istinti con emozioni, coltivano le paure per risolverle in una grande banalizzazione, come se esistessero soluzioni semplici a problemi complessi. Io chiamo tutto questo "neopopulismo", e credo sia uno spirito dell'epoca, quello in cui sembra rifugiarsi l'energia politica residua di democrazie estenuate, addirittura una riserva di forza e un'illusione di giustizia che le istituzioni temono di aver smarrito.
Che ci piaccia o no, il "neopopulismo " che affascina masse deluse e disperse potrebbe sembrare una nuova strada per riportare il cittadino dentro il recinto del discorso pubblico, disertato ogni giorno di più. Ma quale discorso, e per quale concetto di pubblico? Più che di discorso pubblico dovremmo parlare di un nuovo sistema di relazione tra il leader e le masse, che si sta proponendo in vari paesi, all'insegna della Grande Semplificazione. Ma se il termine masse è del tutto inadatto a definire le solitudini che si raccolgono dietro i nuovi pifferai, quasi sentissero la loro musica magica ognuno nelle sue cuffie, anche la parola leader viene da un altro secolo e non spiega questo tempo mutante.
Se la politica ormai vive soltanto nell'immediato, di momenti singoli o di fuochi fatui, se il gesto politico si consuma mentre si compie, il leader diventa un performer, che non cerca più di convincere perché gli basta strappare una vibrazione di consenso quotidiana e una delega periodica. Quanto a noi, crediamo di partecipare, magari con rabbia, ma il consenso è banalizzato in audience. La politica e l'indignazione si accendono e si spengono come la musica sul palco e si torna a casa soli come prima, perché il rapporto è soltanto verticale, mentre politica e pubblica opinione scorrono in orizzontale, unendoci agli altri. Che discorso pubblico può nascere da questa somma di secessioni individuali che non riescono a tramutarsi in politica? Che messaggio collettivo? Forse solo questo: l'ultimo spenga la luce.
[Z. B.]
Dove dunque possiamo approdare con una battaglia di idee ridotta a competizione fra spin doctors? Come dici tu, l'interregno è il luogo in cui si libera l'irrazionale della decadenza, il tempo in cui si vive sospesi tra "non più" e il "non ancora ". Prendiamo come esempio la crescita incessante della disuguaglianza sociale nella sua nuova incarnazione di rifiuto/esclusione. Non possiamo più leggerla nei termini di semplice dicotomia fra ricchi e poveri. L'aspetto morfologico della nuova divisione è costituito dall'opposizione fra mobilità e fissità. Essa sta sotto a tutte le altre opposizioni e gerarchie, anche quella fra ricchi e poveri, fra quelli che sono in grado di autodeterminarsi e quelli che sono determinati dall'esterno, fra controllanti e controllati, fra soggetti e oggetti. Naturalmente, la divisione di mobilità contro fissità è a sua volta il prodotto della fine unilaterale della reciproca interdipendenza sociale/economica che aveva segnato la fase "solida" della modernità capitalista, quell'interdipendenza fra i proprietari e i produttori del capitale, fra i datori di lavoro e i lavoratori, dei tempi del capitale "fisso" investito in pesanti, massicci, non trasferibili edifici e macchinari industriali: in altre parole, dei tempi in cui il lavoro dipendeva dal capitale locale per la sua sopravvivenza, e il capitale dipendeva dalla forza lavoro locale per i suoi profitti.
A quei tempi i due protagonisti - la forza lavoro e il capitale - erano, per così dire, condannati a una duratura, forse infinita, coesistenza, ed erano perciò destinati con inesorabile necessità a elaborare un modus covivendisopportabile per entrambi e per entrambi accettabile, capace di resistere ai conflitti di interessi e alle conseguenti animosità reciproche; mantenere la forza lavoro locale in una condizione che permettesse di sopravvivere alle difficoltà della vita di fabbrica e gestirne le complesse esigenze era nell'interesse del capitale-locale, immobile, fisso.
Questo "patto" non scritto, imposto dalla necessità, pone un limite naturale, ineludibile, alla disuguaglianza sociale. Nel momento in cui il capitale finanziario prende il posto del capitale industriale come principale motore di distribuzione della ricchezza e del reddito, questo patto può essere - ed è stato - unilateralmente annullato. Il capitale che opera all'insegna di "il mondo è il mio orticello", mobile, facilmente trasferibile, libero di spostarsi in qualsiasi momento verso il luogo dove è stata pubblicizzata un'erba più verde, non ha interesse a guardare al destino e alla condizione della forza lavoro fissata a una qualche località del pianeta.
In passato i lavoratori potevano combattere con un minimo di successo contro gli attacchi dei capitali fissi al loro standard di vita; oggi sono del tutto disarmati di fronte a "investitori" straordinariamente mobili, ondeggianti, capricciosi, inquieti e imprevedibili, continuamente a caccia di più alti profitti, con la conseguente incertezza che viene trasformata nella loro condizione esistenziale. I sindacati? Gli scioperi? Non c'è da aspettarsi altro che più fabbriche e uffici chiusi e abbandonati dai proprietari del capitale offesi dalla inospitalità, dalle arroganti pretese e dalla militanza degli incontrollabili soggetti locali.
Nessuna meraviglia che lo smantellamento di quel che rimane del welfare state sia diventato al
giorno d'oggi una questione "al di là della sinistra e della destra".
Zygmunt Bauman e Ezio Mauro, introdotti e coordinati da Concita De Gregorio, dialogheranno sui temi del libro in occasione del Salone di Torino, domenica 17 alle ore 15 in Sala Gialla.
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