La barba è lunga, intessuta di fili d’argento, la voce è quella inconfondibile che ai tempi di Cinico Tv apostrofava Filangeri e i fratelli Abbate da un fuoricampo indecifrabile, segno tangibile della morte di una certa idea di cinema. Franco Maresco risponde alle mie domande flemmaticamente, dandosi il tempo di soppesare le parole, risposte articolate e urgenti. Iniziamo parlando di Belluscone, Una Storia Siciliana.
Belluscone: Un film incompiuto, un regista scomparso, un’inchiesta a sfondo politico inconclusa, un documentario sui neo melodici rimasto in sospeso.…forse uno dei temi del film è proprio il suo stesso fallimento?
L’ho già detto in altre occasioni, il tema di questo film, che è il tema a me forse più caro, è proprio quello dei falliti e degli sconfitti, dei vinti, più in generale, direi, il tema del fallimento. Si tratta del compimento di una specie di trilogia iniziata con Il Ritorno Di Cagliostro e proseguita con Io Sono Tony Scott, dedicato a un grande jazzista siculo-americano, che si conclude idealmente, appunto, con questo film, in cui il soggetto principale è proprio il fallimento.
Il bianco e nero, sin dai tempi dei lavori con Ciprì, ha definito una diversa dimensione dell’esistere, quel luogo immaginario e reale al contempo in cui in cui vivono i personaggi devastati di Cinico Tv. Ciccio Mira, sempre ritratto in bianco e nero, quindi forse per lei può essere considerato una sorta di «cugino» dei personaggi di Cinico Tv.
Ciccio Mira era già apparso in Lo Zio Di Brooklin, in cui suonava la chitarra e cantava «Chella Llà», momento centrale del film, quindi era già dentro l’universo dei miei\nostri film, in più lo avevamo incrociato in diverse altre occasioni. Questo bianco e nero che lo separa da tutto il resto, è un tentativo di ritagliare una dimensione, ovviamente del tutto illusoria, in cui collocare questo personaggio connotabile come filo-mafioso, apologeta di cosa nostra, ma irresistibilmente simpatico e che, a conti fatti, è un uomo vero dentro una realtà a colori che ha ormai il colore della deriva, il colore dell’imbarbarimento definitivo. Qualcuno ha detto, ed è vero, che io non ho mai amato i miei personaggi, tranne Ciccio Mira, che mi ha dato gli unici momenti divertenti durante le riprese, perché per il resto mi sono ritrovato di fronte a una realtà a me già nota, ma a dir poco agghiacciante. Cinico Tv è stato l’anticipazione di questa realtà, la profezia di una apocalisse che sarebbe arrivata e un commiato doloroso a un mondo, quello di prima, che è sparito per sempre. E Ciccio Mira è una scheggia di questo passato, di un mondo in cui non ci sono guardie e ladri, eroi o anti-eroi, un altro mondo, ancora retto, ma solo secondo Ciccio, da una sorta di «codice cavalleresco», che certamente è meno peggio di tutto quello che è venuto dopo, perché nessuna distopia si era spinta sino a prevedere tanto orrore.
Storicamente la scelta del bianco e nero risale ad anni in cui io e Ciprì volevamo evitare i bruttissimi colori che si ottenevano con il nastro magnetico, di una bruttezza unica.
Adesso la bruttezza vera sta nel digitale, che ha ammazzato completamente il cinema perché la pellicola era fatta di chimica, di materia, imponeva una distanza rispetto all’immagine e a quello che sta al di là dell’immagine, una distanza necessaria, che il digitale ha completamente eliminato sottraendo al cinema la dimensione del mistero.
Io appartengo a una generazione per cui il rapporto con le immagini era molto diverso da ora. La possibilità stessa di poter vedere un certo film era un’esperienza unica, che non sapevi se e quando si sarebbe potuta ripetere, mentre con la rete e i supporti digitali c’è la possibilità di vedere quello che si vuole e quando lo si vuole, di studiarlo, di analizzarlo eccetera. Nei primissimi anni ottanta feci parte del cineclub «Nuovo Brancaccio», creato da giovani contestatari e contestatori del Pci nel quartiere Brancaccio, patria delle famiglie Parolisi e Graviano: dovevamo portare «le pizze» dalle cineteche come la Tortolina, ormai sparite e smaniavamo per poter vedere, neanche sempre per intero, un Erich von Stroheim o le novità del cinema tedesco, ricordo Nick’s Movie di Wenders, con il suo Nicolas Ray morente. E dopo la visione creavamo una vera e propria mitologia del film, mille discorsi, interpretazioni e dibattiti, che occupavano serate intere. In questo senso il cinema era un mistero, un puro desiderio. Oggi tutta questa sovraesposizione, questo tirare fuori continuamente i makin’off, il far uscire tutta la filmografia di un tizio in una volta, il poter vedere quaranta cinquanta film all’anno, tutto questo ha tolto il desiderio al cinema. Una volta c’era il tempo, le cose, cioè, si svolgevano in un tempo dettato dalle cose stesse, c’era un orizzonte diverso e credo che questo avere tutto e avercelo quando si vuole abbia ucciso il mistero. Il digitale, con la sua immediatezza, ha ucciso un’idea di cinema. Non dico che abbia ucciso «il» cinema in assoluto, ma di sicuro una certa idea di cinema, per cui il cinema era un fatto stregonesco, come era stata in passato la fotografia: era alchimia, era chimica, era fisica, era qualcosa di elitario. In più se oggi fai un film in pellicola poi te lo lavorano quelli che non hanno più l’arte, che lavorano in digitale e che non sanno più come trattare la pellicola. Una volta l’operatore era un mago, era uno stregone, Joseph August o Gregg Toland giravano senza neanche guardare nel mirino della macchina, poi quando andavano a vedere i giornalieri, erano già dei capolavori. Dietro c’era l’apprendistato sui set, un direttore della fotografia che tra cento, mille aspiranti, sceglieva proprio te e poi ti insegnava col tempo e non ti rivelava i suoi segreti. Cioè, era una iniziazione alla vita, e questo si è perso, in questo senso è finita, ed è finita un’idea di cinema. Bergman disse «il cinema come noi lo abbiamo immaginato è finito», ed è questo che è accaduto.
Questo c’è in Belluscone, l’idea della fine di un cinema. Cioè il fallimento di un ideale, di una idea di cinema, con il suo stupore. Lo stesso stupore che provano i Fratelli Abate in Cinico Tv, quando scoprono che un chilo di paglia e un chilo di ferro pesano allo stesso modo, uno stupore vero.
E in generale non solo il cinema, ma la vita di tutti noi, ha perso la capacità dello stupore.
Storicamente la scelta del bianco e nero risale ad anni in cui io e Ciprì volevamo evitare i bruttissimi colori che si ottenevano con il nastro magnetico, di una bruttezza unica.
Adesso la bruttezza vera sta nel digitale, che ha ammazzato completamente il cinema perché la pellicola era fatta di chimica, di materia, imponeva una distanza rispetto all’immagine e a quello che sta al di là dell’immagine, una distanza necessaria, che il digitale ha completamente eliminato sottraendo al cinema la dimensione del mistero.
Io appartengo a una generazione per cui il rapporto con le immagini era molto diverso da ora. La possibilità stessa di poter vedere un certo film era un’esperienza unica, che non sapevi se e quando si sarebbe potuta ripetere, mentre con la rete e i supporti digitali c’è la possibilità di vedere quello che si vuole e quando lo si vuole, di studiarlo, di analizzarlo eccetera. Nei primissimi anni ottanta feci parte del cineclub «Nuovo Brancaccio», creato da giovani contestatari e contestatori del Pci nel quartiere Brancaccio, patria delle famiglie Parolisi e Graviano: dovevamo portare «le pizze» dalle cineteche come la Tortolina, ormai sparite e smaniavamo per poter vedere, neanche sempre per intero, un Erich von Stroheim o le novità del cinema tedesco, ricordo Nick’s Movie di Wenders, con il suo Nicolas Ray morente. E dopo la visione creavamo una vera e propria mitologia del film, mille discorsi, interpretazioni e dibattiti, che occupavano serate intere. In questo senso il cinema era un mistero, un puro desiderio. Oggi tutta questa sovraesposizione, questo tirare fuori continuamente i makin’off, il far uscire tutta la filmografia di un tizio in una volta, il poter vedere quaranta cinquanta film all’anno, tutto questo ha tolto il desiderio al cinema. Una volta c’era il tempo, le cose, cioè, si svolgevano in un tempo dettato dalle cose stesse, c’era un orizzonte diverso e credo che questo avere tutto e avercelo quando si vuole abbia ucciso il mistero. Il digitale, con la sua immediatezza, ha ucciso un’idea di cinema. Non dico che abbia ucciso «il» cinema in assoluto, ma di sicuro una certa idea di cinema, per cui il cinema era un fatto stregonesco, come era stata in passato la fotografia: era alchimia, era chimica, era fisica, era qualcosa di elitario. In più se oggi fai un film in pellicola poi te lo lavorano quelli che non hanno più l’arte, che lavorano in digitale e che non sanno più come trattare la pellicola. Una volta l’operatore era un mago, era uno stregone, Joseph August o Gregg Toland giravano senza neanche guardare nel mirino della macchina, poi quando andavano a vedere i giornalieri, erano già dei capolavori. Dietro c’era l’apprendistato sui set, un direttore della fotografia che tra cento, mille aspiranti, sceglieva proprio te e poi ti insegnava col tempo e non ti rivelava i suoi segreti. Cioè, era una iniziazione alla vita, e questo si è perso, in questo senso è finita, ed è finita un’idea di cinema. Bergman disse «il cinema come noi lo abbiamo immaginato è finito», ed è questo che è accaduto.
Questo c’è in Belluscone, l’idea della fine di un cinema. Cioè il fallimento di un ideale, di una idea di cinema, con il suo stupore. Lo stesso stupore che provano i Fratelli Abate in Cinico Tv, quando scoprono che un chilo di paglia e un chilo di ferro pesano allo stesso modo, uno stupore vero.
E in generale non solo il cinema, ma la vita di tutti noi, ha perso la capacità dello stupore.
Nell’appropriazione dialettale del cognome da Berlusconi a Belluscone si annidano vari slittamenti: quello del suo film che è iniziato in un modo è finito in un altro, e quello dell’uomo Berlusconi, che transmuta nell’impalpabile creatura mitologica Belluscone.…
Il film inizialmente voleva essere in qualche modo commerciale, per quanto io possa immaginare un film commerciale. Era l’idea di raccontare Berlusconi, quando ancora era al governo, dal punto di vista della genesi siciliana del suo potere, che è fondamentale per capire il berlusconismo e che successivamente sarebbe stata messa in evidenza dalla condanna a dell’Utri. Volevo raccontare di come l’impero berlusconiano nasca attorno a tutta una Sicilia, che è la Sicilia di dell’Utri, ma non solo. Era un qualcosa di più simile a quello che ha fatto poi Sabrina Guzzanti con La Trattativa, perché conteneva una componente satirica ma aveva una componente di inchiesta molto più evidente. Ad un certo punto, però, mi sembrava di fare qualcosa che altri, gli autori di inchieste come Travaglio e Santoro, facevano meglio, sentivo che c’era qualcosa che mancava.
Quando ho incontrato Ciccio Mira, mi è venuta l’idea di raccontare non più Berlusconi ma Belluscone: ecco, in questo scarto «alla sicula» in cui si perde una R e si raddoppia la L, succede come con i grandi del jazz, che giocano con il tempo, che spostano, anticipano o ritardano gli accenti, creando variazioni che cambiano completamente il senso della composizione. Sostituendo una sola lettera nel cognome di Berlusconi cambia tutto il senso, cambia l’interpretazione e cambia il racconto.
Volevo tentare un approccio più simile a quello di Tirone in quel suo omaggio leopardiano ‘a Silvio’, straordinario perché celebra Berlusconi prendendolo senza volerlo per il culo, e facendone, al tempo stesso, un mito. In un mondo in cui la realtà annulla la distanza con la satira, pensa ai telegiornali di Emilio Fede, in cui, quindi, i non-comici, gli involontariamente cominci, rubano la scena ai comici di professione e tutto è destituito di senso, l’unica modalità di rappresentazione ancora credibile era questo Belluscone, mediato e mitizzato attraverso Ciccio Mira, senza il quale questo sarebbe stato un tentativo identico a quelli già fatti.
Quando ho incontrato Ciccio Mira, mi è venuta l’idea di raccontare non più Berlusconi ma Belluscone: ecco, in questo scarto «alla sicula» in cui si perde una R e si raddoppia la L, succede come con i grandi del jazz, che giocano con il tempo, che spostano, anticipano o ritardano gli accenti, creando variazioni che cambiano completamente il senso della composizione. Sostituendo una sola lettera nel cognome di Berlusconi cambia tutto il senso, cambia l’interpretazione e cambia il racconto.
Volevo tentare un approccio più simile a quello di Tirone in quel suo omaggio leopardiano ‘a Silvio’, straordinario perché celebra Berlusconi prendendolo senza volerlo per il culo, e facendone, al tempo stesso, un mito. In un mondo in cui la realtà annulla la distanza con la satira, pensa ai telegiornali di Emilio Fede, in cui, quindi, i non-comici, gli involontariamente cominci, rubano la scena ai comici di professione e tutto è destituito di senso, l’unica modalità di rappresentazione ancora credibile era questo Belluscone, mediato e mitizzato attraverso Ciccio Mira, senza il quale questo sarebbe stato un tentativo identico a quelli già fatti.
In questo suo Belluscone si ride, anche parecchio, ma si ride di sbieco, per storto, con un sapore di amaro in bocca. Mi spiega la sua idea di comico?
La mia idea di comico è un’idea molto seria, riconducibile a un tipo di artista che al momento è sparito, il comico dei fratelli Marx e Buster Keaton, i grandi comici americani o dei nostri Peppino e Totò, un’idea di comicità che si basa su un idea tragica dell’esistenza, l’esatto opposto di quella imperante oggi, una comicità da villaggio turistico.
Per me il comico è l’equivalente di un filosofo, di un poeta, è un tragico, uno che ha la capacità di vedere la tragedia del vivere umano. Sentimento tragico della vita: questo è il comico, e aveva una sua funzione specifica importante in determinati momenti della storia, questo eroe solo contro il mondo, che si è persa, ragione per cui il comico in cui credo è anche un’eroe sconfitto, apparentemente, un marginale, uno in controtendenza e in ultima analisi un uomo solo. Evidentemente questo tipo di comico è stato completamente bandito dal sistema del cinema contemporaneo, in Italia come altrove. Ben rari sono i casi in cui ancora si realizzi un tipo di comicità che porta in sé questo sentimento del tragico della vita. Quando c’era una distanza tra i piani del reale il comico era un sovversivo, un dinamitardo, adesso siamo tutti sullo stesso piano, quindi non c’è più niente da trasgredire, Internet e tutto il resto hanno fatto sì che non ci sia più bisogno di delegare, tutti siamo comici tutti siamo scrittori, fotografi o registi e questo toglie senso ai ruoli, alle identità.
La mia idea di comico è un’idea molto seria, riconducibile a un tipo di artista che al momento è sparito, il comico dei fratelli Marx e Buster Keaton, i grandi comici americani o dei nostri Peppino e Totò, un’idea di comicità che si basa su un idea tragica dell’esistenza, l’esatto opposto di quella imperante oggi, una comicità da villaggio turistico.
Per me il comico è l’equivalente di un filosofo, di un poeta, è un tragico, uno che ha la capacità di vedere la tragedia del vivere umano. Sentimento tragico della vita: questo è il comico, e aveva una sua funzione specifica importante in determinati momenti della storia, questo eroe solo contro il mondo, che si è persa, ragione per cui il comico in cui credo è anche un’eroe sconfitto, apparentemente, un marginale, uno in controtendenza e in ultima analisi un uomo solo. Evidentemente questo tipo di comico è stato completamente bandito dal sistema del cinema contemporaneo, in Italia come altrove. Ben rari sono i casi in cui ancora si realizzi un tipo di comicità che porta in sé questo sentimento del tragico della vita. Quando c’era una distanza tra i piani del reale il comico era un sovversivo, un dinamitardo, adesso siamo tutti sullo stesso piano, quindi non c’è più niente da trasgredire, Internet e tutto il resto hanno fatto sì che non ci sia più bisogno di delegare, tutti siamo comici tutti siamo scrittori, fotografi o registi e questo toglie senso ai ruoli, alle identità.
*Intervista effettuata a Bari nel corso del quarto appuntamento di Registi Fuori Dagli Sche®mi organizzata dalla rivista Uzak e Apulia Film commission.
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