Di solito non rigurgitano di bibliofili, gli ambienti leghisti, neonazisti e razzisti di vario genere. Sicché possiamo sperare che nessuno dei loro accoliti s’imbatta nel libro di Andrea Staid , I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità (edizioni Milieu, pref. di F. La Cecla, pp. 192, euro 13,90): non ne coglierebbero il senso e di sicuro lo userebbero a conferma del vecchio pregiudizio degli immigrati come delinquenti.
Opposti sono, invece, ispirazione e intento di Staid, «storico e antropologo», com’egli stesso si definisce, già autore, oggi poco più che trentenne, de Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata contro il fascismo (La Fiaccola, Ragusa 2007) e de Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù (Agenzia X, Milano 2011). In questo terzo lavoro egli compone, infatti, un’etnografia della micro-criminalità praticata da migranti, per meglio dire della loro «uscita dal confine della legalità», categoria in cui include anche evasioni, proteste e rivolte nei Cie, riportandone nel terzo capitolo una cronologia ragionata, dal 2011 al 2013, corredata da alcuni frammenti d’interviste. Tutto ciò al fine di mostrare, attraverso un ricco repertorio di testimonianze e storie di vita - frutto di una ricerca di campo condotta col metodo dell’osservazione partecipante - quanto labile sia il confine tra pratiche legali e illegali, quanto arduo il giudizio morale, se è vero che contro i migranti lo Stato esercita quotidianamente forme d’illegalità formale e sostanziale, e spesso li condanna all’esclusione civile e sociale. Se a ciò si aggiungono i processi sociali di marginalizzazione, inferiorizzazione e razzializzazione, si può dire che la loro devianza è, in fondo, profezia che si autoavvera. Una profezia che si annuncia fin dal momento in cui si parte avventurosamente da «clandestini» per finire in qualche lager più o meno orrendo e, talvolta, perfino in carcere. Ed è perciò che Staid dedica al viaggio e al carcere rispettivamente il secondo e il quarto capitolo, ugualmente basati su testimonianze e storie di vita.
Coerente con l’orientamento anarchico dell’autore è la tesi di fondo: nelle condizioni attuali, delinquere per poter vivere con un minimo d’agio «sembra la scelta più razionale», poiché «il rischio di finire in carcere è lo stesso sia per chi decide di delinquere sia per chi invece decide di lavorare per un salario da fame». Molti degli intervistati, argomenta Staid, «hanno scelto razionalmente di ribellarsi, evadere, delinquere per sottrarsi agli abusi che il sistema capitalistico esercita nei confronti delle fasce marginali della forza lavoro (…) formate dai migranti senza permesso di soggiorno, ovvero i nuovi schiavi dell’economia neo-liberale del nuovo millennio». È una posizione, la sua, che si pone sulla scia di quelle teorie radicali della devianza che, affermatesi alla fine degli anni ’60, inserivano la dialettica devianza/controllo nel contesto dell’ordine sociale capitalista e consideravano i comportamenti devianti come razionali, significativi, implicitamente politici.
A conferma della sua tesi, nel primo capitolo, dedicato alla metodologia della ricerca, Staid riporta una delle testimonianze più interessanti, perfino divertente, sebbene rimaneggiata in eccesso, mi sembra. È la storia avventurosa di tre fratelli nigeriani, partiti «clandestinamente» per procurarsi il pane e aiutare la famiglia, seguendo la traiettoria consueta dei terribili viaggi attraverso il Sahara aventi per tappa la Libia e per meta Lampedusa. Una volta arrivati in Italia, sperimentano forme estreme di sfruttamento nei campi e nei cantieri. Infine la svolta, grazie alla scuola di vita del carcere (uno dei tre è passato per San Vittore) e al magistero di un bergamasco, che li ha iniziati allo svuotamento notturno dei cantieri per suo conto. I tre decidono di mettersi in proprio, acquistano a rate un furgone usato e così si fanno piccoli imprenditori illegali: «piuttosto che lavorare per due euro all’ora nei cantieri, abbiamo preferito svuotarli di notte».
Questa e altre storie simili, raccolte per mezzo d’interviste non strutturate (spesso trascritte alquanto liberamente) si adattano in modo quasi perfetto a illustrare l’assunto centrale di Staid: la micro-criminalità come forma di resistenza, di «ribellione esistenziale», di autodeterminazione. Invece altre, mi sembra, non hanno niente che faccia pensare a qualche processo di emancipazione da oppressione e subalternità: che emancipazione è quella dell’egiziano Nabil, spacciatore di eroina, finito più volte in carcere, dove «ogni giorno era un incubo», come egli stesso dice?
Si ha l’impressione, insomma, che a volte l’ideologia prevalga sull’etnografia. Faccio un altro esempio. L’ultimo capitolo, dedicato all’etnografia di ciò che i media hanno definito «il fortino della droga», cioè la palazzina di viale Bligny 42, a Milano, non è che ti faccia venire la voglia di andarci ad abitare. E non solo perché proprio lì Matteo Salvini ha comprato un appartamento, come riferisce Pia, una vecchia abitante di Bligny, di origine pugliese, in una delle testimonianze più ricche e interessanti. Ma anche perché, pur detestando la retorica demonizzante dei media e dei Salvini, pur non nutrendo alcun pregiudizio razzista o moralistico, semplicemente pensi che non ti piacerebbe assistere passivamente, per dirne una, alle violenze che gli spacciatori egiziani infliggono alle trans: ricatti, vessazioni, aggressioni all’arma bianca, come racconta la stessa Pia.
Fuor d’ironia, in questo caso l’intento apprezzabile di mostrare la complessità sociale e anche la ricchezza umana e relazionale di un luogo spesso rappresentato come l’inferno a volte scivola verso una retorica che tende ad attenuare la crudezza della realtà, quale emerge dalle testimonianze degli stessi abitanti: «ci sono stati sì» due omicidi, commenta Staid, ma ci sono anche «le mille positività esperite in quel luogo».
Ciò malgrado (e nonostante una scrittura non sempre impeccabile), la ricerca di Andrea Staid, partecipata nel senso pieno del termine, ha il merito d’incrementare, in modo non convenzionale e coraggioso, un filone di ricerca empirica non abbastanza sviluppato in Italia.
Nessun commento:
Posta un commento