giovedì 7 marzo 2024

ALT-RIGHT E REGRESSIONE FEMMINILE. FALCONIERI A., L’antifemminismo suprematista delle ragazze, su TikTok le donne americane «stanno a casa», DOMANI, 06.03.2024

 Nei social c’è una nicchia preoccupante che propaganda un modello di donna subordinata all’uomo, contro qualsiasi lotta per raggiungere l’emancipazione sessuali




#Stayathomegirlfriend e #Traditionalwives non sono solo hashtag, ma movimenti femminili che ripropongono un modello di donna subordinata all’uomo, angelo del focolare domestico. Dopo anni di lotte per raggiungere l’emancipazione sessuale, lavorativa ed economica, alcune donne scelgono di rinunciare alla propria indipendenza, di vivere tra le mura domestiche e di dedicarsi esclusivamente al rapporto coniugale e alla cura della prole. Il movimento nasce in seno all’alt-right, movimento socio-politico statunitense di estrema destra, misogino e razzista.

Nel 2016 il nazionalista svedese Marcus Follin ha esposto nel video su YouTube “The Women Question” il problema del coinvolgimento delle donne nel movimento, invitando i suoi seguaci a riconsiderare le proprie posizioni antifemministe per estendere e rafforzare la causa del suprematismo bianco. Ecco che subentrano le “tradwives”, donne sposate che scelgono di rivestire il ruolo di casalinghe e che solitamente abbandonano la propria carriera per soddisfare i bisogni della famiglia. Il movimento si diffonde dapprima su canali YouTube, poi sui social media, fino a quando, nel 2022, approda su TikTok.


A lanciare il trend è Kendel Kay, modella e influencer ventiseienne di Porto Rico. In un video virale, che conta più di 13 milioni di visualizzazioni e 18.100 commenti, Kendel condivide la sua giornata tipo, dalla colazione con cappuccino e matcha alle faccende domestiche, alla cura del corpo.

Il trend spopola immediatamente su TikTok e, a oggi, conta 339,4 milioni di visualizzazioni. Le stay-at-home-girlfriend (ovvero tradwives senza il vincolo del matrimonio) e le tradwives dedicano interamente le loro giornate alla cura del corpo, alle faccende domestiche, ai propri hobby. Viene riproposto un modello di bellezza muliebre, il paradigma di donna che vive in attesa di una proposta di matrimonio e, poi, in funzione del suo uomo. Il lavoro domestico diventa social: le donne rivendicano la propria condizione di lavoratrici, sebbene non siano retribuite.

Predicano il fascino di una vita libera da incombenze, indossano abiti griffati, vivono in appartamenti di lusso, ostentano agio e benessere, il tutto condito con un culto eccessivo della propria immagine. Il movimento, che è la declinazione femminile del suprematismo bianco, ovviamente interessa solo donne bianche, cisgender, eterosessuali, benestanti, che hanno accesso a beni di lusso e a contesti sociali estremamente selezionati.

RAZZISMO

Hajar Yazdiha, sociologa presso la University of Southern California, in un’intervista a Business Insider evidenzia come il trend non coinvolga donne di altre etnie e come rinvigorisca ulteriormente lo stereotipo, parzialmente superato, della donna bianca che eccelle nella funzione di madre e moglie e che si dedica alle faccende domestiche. Al contrario, rafforza lo stigma razzista per cui le afroamericane casalinghe non sono altrettanto brave madri e mogli, ma zavorre.

Anche Lilian Wright, professoressa dell’università di Giurisprudenza di Los Angeles Ucla, sottolinea che la rappresentazione femminile che ne consegue danneggia gravemente le donne nere. Bell hooks nel saggio Il femminismo è per tutt*. Una politica appassionata, edito nel 2015, definiva «la bianchezza una categoria privilegiata». Le donne bianche godono di uno status, di un’istruzione e di un potere economico diverso da quello delle donne nere.

Quando le politiche di welfare protettivo, come le Mothers’ Pensions a livello statale e il Social Security Act a livello nazionale nel 1935, garantivano assistenza alle madri bianche single a basso reddito per rimanere a casa e prendersi cura dei propri figli, alle donne nere a basso reddito, fino agli anni Sessanta, era preclusa qualsiasi forma di assistenza economica. Trend di questo tipo rischiano di acuire un divario economico-sociale, oltre che razziale.

Anche in Italia molte donne sono casalinghe. Non si tratta di un movimento strutturato, ma di donne che, per scelta o per obbligo, non rivestono posizioni lavorative. Secondo dati elaborati da Randstad, società leader nei servizi per le risorse umane, alla fine del 2021, nella fascia d’età compresa tra i 30 e i 69 anni, circa 7,5 milioni di donne non lavoravano, ovvero il 42 per cento, di cui il 58 per cento residente al Sud.

Secondo la definizione Istat, si considerano casalinghe le donne che non svolgono nemmeno un’ora di lavoro nella settimana di riferimento o che non cercano lavoro. Le donne restano a casa a volte perché non hanno alternative, altre per scelta. Le ragioni di una scelta che sembra così anacronistica sono le più disparate: per lo più si tratta di donne che, benché provenienti da contesti umili, ritengono giusto restare a casa a occuparsi della famiglia.

Uno studio condotto da Istat ha raccontato quanto gli stereotipi di genere siano radicati e quanto sia difficile scardinarli. I più comuni sono: «Per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro» (32,5 per cento), «Gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche» (31,5 per cento), «È l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia» (27,9 per cento). Anche in Italia le donne, qualunque sia la propria estrazione sociale e la ragione della propria condizione, utilizzano le piattaforme social per condividere la propria giornata.

VIOLENZA ECONOMICA

Il trend delle stay-at-home-girlfriend si sta diffondendo lentamente, sebbene il contesto sociale sia profondamente diverso. Le casalinghe non provengono da contesti di agio e benessere, al contrario, hanno un’estrazione sociale medio-bassa e dispongono di scarse risorse finanziarie. A restare a casa, infatti, sono le donne più povere e meno istruite. Il rischio è che il trend, insinuandosi in contesti di estrema fragilità, inneschi possibili violenze: la mancanza di indipendenza economica espone le donne a forme di controllo da parte del partner e rende difficile avviare un percorso di emersione qualora si verifichino episodi di violenza domestica.

Nel rapporto realizzato da WeWorld per fondazione Cariplo e Ipsos, “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica”, si fa luce sul divario occupazionale tra uomo e donna: nel 2022, a livello globale il 61,4 per cento delle donne (di 25-54 anni) aveva un lavoro, contro il 90,6 per cento degli uomini (25-54 anni), con un gender gap nella forza lavoro di ben 29,2 punti percentuali.

In Italia, secondo l’ultimo rapporto della rete Di.re., una donna su tre tra quelle che si sono rivolte ai centri antiviolenza (30 per cento tra disoccupate, casalinghe e studentesse) è a reddito zero, e almeno una su tre ha denunciato episodi di violenza economica. Secondo recenti indagini Istat, nel 2021 il 38,8 per cento delle donne che ha avviato un percorso di emersione dalla violenza era vittima di violenza economica.

La violenza economica, inizialmente inserita nell’ambito della violenza psicologica, della quale hanno fatto cenno sia la Raccomandazione Cedaw Nr. 19 del 1992 che la dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite del 1993, è stata poi riconosciuta nella Convenzione di Istanbul del 2011, all’art. 3a. Creare una condizione di subordinazione e dipendenza della donna nei confronti del proprio partner, nel diritto internazionale, è reato.

Mettersi consapevolmente in una posizione di ricattabilità, se da una parte è estremamente pericoloso, dall’altra rivela la mancanza di posizioni lavorative destinate alle donne che, retribuite con salari inadeguati (gender pay gap) o svantaggiate rispetto agli uomini, ripiegano su una vita idealizzata di stampo patriarcale.

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