Sono uomini sempre più giovani che uccidono donne: mogli, fidanzate, amanti. Lo fanno quando una donna mostra di non essere più un corpo a disposizione e decide di prendere in mano con libertà la sua vita. Forse è venuto il momento di mettere al centro della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne non le vittime – ne abbiamo viste fin troppe e troppe le storie di maltrattamenti che abbiamo ascoltato -, ma l’aggressore.
Adesso sono gli uomini che devono interrogarsi sulla maschera di virilità che hanno ereditato, su quella pulsione di morte che esplode quando scoprono la loro dipendenza e fragilità di fronte a una relazione amorosa che finisce, su un potere maschile che si è perversamente confuso con le vicende più intime e che viene allo scoperto nel momento in cui si eclissano i corpi sociali che lo hanno finora sostenuto e legittimato.
Il patriarcato non è morto e di femminicidi purtroppo ce ne saranno ancora, ma già il fatto di nominarlo, come sta succedendo in questi giorni dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del giovane ex-fidanzato Filippo Turetta, e di riconoscerlo come la cultura che ha permesso al dominio maschile di durare così a lungo, significa che qualcosa sta cambiando nel maschilismo italico.
Non sono mancati finora uomini che hanno preso parola per dire che la violenza contro le donne «li riguarda», perché legata all’ideologia sessista che ha imposto anche al maschio un “copione” di genere.
Un potere di cui oggi si vedono emergere gli aspetti più arcaici, come potere di vita e di morte sul sesso che hanno sempre considerato a loro sottomesso per destino “naturale”. Ma chi ne ha parlato finora? Il gruppo Maschile Plurale esiste da oltre trent’anni, i suoi partecipanti hanno scritto libri, documenti, appelli, ma non li abbiamo mai visti comparire nei dibattiti televisivi. Allo stesso modo, a restare «innominabile» è il femminismo, il salto della coscienza storica che dagli anni Settanta in avanti è venuto modificando non solo il rapporto tra uomini e donne, ma l’idea stessa di politica, a partire da quelle esperienze universali dell’umano che sono state considerate «non politiche», come la sessualità, la maternità, la vita affettiva.
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Un rumoroso minuto di silenzioEppure, se oggi i giornali riempiono le prime pagine su quello che viene ormai definito un «fenomeno strutturale» e non, come fino a poco tempo fa un caso di cronaca nera, è proprio perché, da quasi mezzo secolo, il movimento delle donne ha continuato a interrogare con le sue teorie e pratiche la violenza maschile in tutte le forme, invisibili e manifeste, a scavare, come la vecchia talpa di marxiana memoria, nelle radici della storia millenaria che ha portato al governo del mondo un sesso solo.
È il femminismo che per primo ha cercato di andare alle radici di un dominio che si colloca là dove non penseremmo di trovarlo, cioè nella “normalità”: nei rapporti di coppia, negli interni delle case, nei ruoli familiari, nell’ambiguo legame tra vita intima e violenza.
Gli uomini sono i figli delle donne. Il corpo che hanno sottomesso alla loro legge, sfruttato e violato in tutti i modi è quello che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che conoscono nel momento delle loro maggiore inermità e dipendenza e che ritrovano nella vita amorosa adulta, quando i rapporti di potere sono ormai capovolti, senza che per questo si sia allentato il cordone ombelicale che fa di una donna e di un uomo ancora una madre e un figlio.
I femminicidi parlano della intollerabilità di un abbandono che richiama la relazione originaria con un oggetto d’amore – la persona che si occupa delle prime cure, generalmente la madre – che è anche, come nella prima infanzia, garanzia di sopravvivenza. Separandosi la donna non colpirebbe perciò solo un privilegio e un potere indiscutibile della mascolinità, ma «l’amore di sé», la fonte prima, anche nella età adulta, dell’«autoconservazione». Confinando la donna nel ruolo di madre, identificandola con la sessualità e la maternità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.
È dunque sulla famiglia che si dovrebbe portare l’attenzione, in quanto luogo che istituzionalizza l’amore nella sua forma originaria, creando vincoli di indispensabilità anche laddove non sono necessari e destinati perciò a diventare un impedimento all’autonomia del singolo. Forse non è un caso che siano state le parole «impreviste» della sorella di Giulia, Elena, a dare all’ ennesimo caso di violenza contro una giovane donna una interpretazione culturale e politica legata in modo inequivocabile alle consapevolezze portate dal pensiero femminista, tanto da impedire ancora una volta all’informazione di minimizzarne la portata.
A chi si affretta in questi casi a scrollarsi di dosso ogni responsabilità, Elena risponde: «Mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi responsabilità (…) I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento, è ciò che va a ledere la figura della donna a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza (…) come il controllo, la possessività,il cattcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.(…) Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno».
A partire da queste parole, chiunque tenti di riportare la violenza contro le donne alla patologia del singolo, alla crisi dei valori tradizionali della famiglia e dei ruoli genitoriali, o all’inasprimento delle pene, in qualsiasi modo cerchi di sottrarsi all’evidenza dell’ordine sociale, culturale e politico dentro cui cresce la violenza sessista, non sarà più credibile.
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