Agli inizi di questa crisi, paradossalmente, un fremito di speranza attraversò la vita di molti di noi. Di fronte al disastro le cui proporzioni diventavano di giorno in giorno più terribili, ci si trovò a disperare magari di noi stessi, ma a sperare nella possibilità di un vero rinnovamento della vita italiana.
Tanto inascoltabili sembravano diventate le uscite sguaiate e incompetenti, e non solo dei capi-fazione politici. Di chiunque di noi avesse osato esprimere un parere anche in una cerchia di amici, senza cognizione vera di causa.
E mi includo fra questi. Tanto acuto era il sentimento che fosse divenuto chiaro a ciascuno, ormai, quanto il rimedio gran rumore vitale e morale della democrazia non sia la via cinese, ma una iniezione massiccia di conoscenze: nella mente delle persone alla lunga, ma subito nelle governances del mondo.
Non solo medici però. Perché, per quanto temporaneamente accettabile in tempi di crisi, la scelta di subordinare tutti i valori dell’esistenza morale, civile e politica delle persone alla difesa dei valori vitali, e neppure tutti (che ne sarà ad esempio dell’economia?) non si può sottrarre troppo a lungo al vaglio delle coscienze.
La salute pubblica è certamente una condizione necessaria a una vita decente e sensata dei più, ma non è certo una condizione sufficiente: è un mezzo e non un fine. Così sono mezzi il buon funzionamento dell’economia, il welfare possibile, e ormai, sempre più evidentemente, anche la cooperazione internazionale a tutti i livelli, a maggior ragione quelli delle decisioni che ci riguardano tutti.
E’ in questo spirito che l’ex Primo Ministro britannico Gordon Brown ha invitato su The Guardian i leader del mondo a creare una forma magari temporanea di governo globale, una task force che comprenda capi di stato, esperti della salute ma anche di tutti gli altri campi nei quali esistono organizzazioni internazionali.
E’ in questo spirito anche che un’onda di speranza si era alzata in direzione del Parlamento e della Commissione Europea – prima che un coro di voci cacofoniche si alzassero a nutrire i sovranismi, i populismi, i tribalismi dei popoli messi peggio, come noi. Eppure tutte queste ondate di speranza, per elevati che siano gli ideali che le suscitano, riguardano ancora i mezzi, non i fini.
I fini, non li vediamo mai. Perché i fini non possono apparire se non al mattino o nel pieno mezzogiorno delle vite personali, all’incrocio delle circostanze loro date e dei beni e dei mali che ciascuna ha incontrato – dei valori di cui ha fatto esperienza, e questo vuol dire, spesso, dei dolori sofferti, dei rimorsi e dei rimpianti, ma vuol dire anche delle passioni e delle vocazioni.
Eppure la storia sembra insegnarci che ogni grande crisi suscita nell’umanità che la subisce imprevisti risvegli. C’è qualcosa di prezioso in ogni grande sconvolgimento, tanto più degno d’attenzione e di cura quanto alto è il prezzo pagato, la rovina, le morti subite.
Così il periodo seguito alla grande guerra vide una poderosa ondata di emancipazione femminile, promossa dal ruolo che le donne avevano saputo conquistare nella società durante la macelleria che coinvolgeva gli uomini. E il tempo dopo la Seconda Guerra Mondiale ha visto eventi spettacolari e rivoluzionari come l’incarnarsi della ragion pratica – l’eredità migliore della filosofia – nelle Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la nascita delle organizzazioni internazionali e dell’Unione Europea, la costituzionalizzazione dei diritti umani, il welfare.
E tuttavia, perfino mentre avvenivano sfuggiva alla coscienza dei più il senso e il valore di queste grandi trasformazioni della civiltà umana operate da mani umane, nella veglia del volere e dell’antivedere. Pochissimi videro l’insieme. Eppure molti immaginarono e fecero.
Il Regno dei Fini è fra le cose che nascono in solitari mattini, all’incrocio delle singole giovani vite col mondo: come una grandiosa costellazione, di cui ciascuno vede solo la sua minuscola stella. E non si realizza, imperfettamente e precariamente, che nel miracoloso convergere della creatività, dell’iniziativa, della spontaneità felice di ciascuno, che sono le figlie intellettuali e morali di una riconquistata libertà di tutti. Il filosofo la cerca invano, questa costellazione dei fini, e non trova che i cascami di sogni già sognati, quando non la truce sicumera dei suoi verbalismi gonfi d’ignoranza.
Perché c’è una luce di conoscenza di cui il filosofo ha nostalgia infinita, ma che al suo pensiero non è dato quasi che commentare quando s’è già spenta. E’ la luce di cui s’accende il sentire – quando la cognizione improvvisa del morire e di ciò che lo sovrasta rivela ciò che importa, chiaro come il sole, eppure nuovo come il mattino della creazione.
Pensate al Cielo di Borodinò, alto sopra gli occhi spalancati del Principe Andrea. Quando il Principe Andrea rivive in milioni di occhi spalancati, si chiama Apocalisse, che vuol dire rivelazione. Allora milioni di volontà deste si mettono all’opera, e la civiltà rinasce dalle sue ceneri, per un’altra stagione ancora – imperfetta e precaria. Ma che diventerà indimenticabile.
E allora cosa voglio dire? Cosa chiedo? Che ogni ragazzo cresca in questi mesi e anni come un Principe Andrea, che ogni ragazza scopra il finito e l’infinito con gli occhi principeschi di Natascia. Molti non scoprirebbero ciò che era in serbo per loro, solo per loro, fuori dalla Scuola. Vi prego, voi che la fate, voi che la governate, la Scuola – no, non ditegli soltanto: “promuoveremo tutti”. Non lo umiliate così, Il Regno dei Fini che forse sta nascendo in loro. Non lo avvilite sul nascere.
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