Secondo il biologo statunitense Rob Wallace, che da 25 anni studia le interrelazioni fra il nostro modello produttivo e i nuovi patogeni, il ruolo dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi è determinante nella diffusione delle epidemie. Nel suo libro Big Farms Make Big Flu (I grandi allevamenti producono grandi influenze), uscito nel 2016, ha analizzato come le cause strutturali di alcune malattie emergenti possano essere rintracciate nel l’attuale sistema di produzione di cibo. Una visione che rimette al centro il dibattito sulla salute pubblica contro gli interessi delle grandi corporazioni.
In che modo deforestazione e agricoltura intensiva favoriscono la diffusione di nuove epidemie?
Le malattie hanno successo o falliscono in base alle opportunità che trovano nell’ambiente circostante. Nel modello capitalista, la sottrazione di risorse alle foreste del pianeta interrompe il ciclo ecologico, lasciando che i patogeni che erano tenuti sotto controllo dalla complessità di quell’ecosistema possano viaggiare liberamente. Penetrando nelle zone rurali più remote il modello neoliberista ha aumentato le possibilità di Spillover (o salto di specie, ndr), portando la popolazione umana a relazionarsi con patogeni marginalizzati, come è successo con L’ebola, che ha lasciato un numero altissimo di morti.
E rispetto al coronavirus?
Questa epidemia è iniziata nel mercato di Wuhan ed è diventata internazionale in poche settimane, e questo è scioccante. Non dobbiamo confonderci riguardo all’oggetto del virus: è fondamentale studiarne gli effetti, la composizione, l’impatto, ma l’emergenza non deve farci perdere di vista un altro aspetto importante, e cioè una reale discussione sulle sue cause strutturali. I mercati di cibo selvatico come quello di Wuhan sono sempre più formalizzati, e questo ha aumentato l’interfaccia con patogeni sconosciuti che possono essere trasportati dagli animali stessi o dall’incontro con quelli degli allevamenti nelle filiere della grande distribuzione.
In che modo?
In molti paesi gli allevamenti intensivi occupano gran parte dei territori rurali, perché sono ovunque, e per renderli più proficui le compagnie esercitano controllo su ogni aspetto del processo, dai mangimi alla macellazione. In questo tipo di allevamento, che ha lo scopo di rendere i prodotti che ne derivano disponibili sempre e ovunque, la salute degli animali dipende esclusivamente da vaccini e interventi medici, e questo causa depressione immunitaria e stress da morbilità, rendendoli molto vulnerabili verso le nuove infezioni.
Quindi il virus potrebbe nascere ovunque?
Il luogo in cui i patogeni emergono è sicuramente importante, ma secondo una geografia relazionale, la connessione oggi esistente tra diverse parti del pianeta capovolge la nostra nozione di cosa costituisce un hot spot epidemiologico. Quello che è successo a Wuhan è intimamente relazionato al flusso di capitale che si muove da una parte all’altra del globo: anche New York, Londra o Hong Kong possono essere considerati potenziali focolai di malattie, perché è proprio in questi centri che ha origine il movimento di merce responsabile delle deforestazioni nelle zone rurali.
La responsabilità dell’epidemia è ricaduta sui piccoli produttori del mercato di Wuhan, tu ne hai parlato come di una strategia.
Nessuno, soprattutto nell’agrobusiness, vuole essere incolpato per la diffusione di virus e epidemie, per questo il dito viene puntato da un’altra parte. È quello che è successo negli Usa con l’influenza che ha provocato la morte 50 milioni fra tacchini e polli, in cui lo stato ha dovuto risarcire gli allevatori al posto di Hormel e degli altri colossi che ne erano responsabili. Spesso i piccoli produttori vengono incolpati con la scusa che non hanno seguito le linee guida del modello industriale. Questa visione è la stessa del presidente Trump, che chiama Covid19 il virus cinese, usando una lettura nazionalista della malattia e facendo coincidere la posizione ufficiale della nostra nazione con quella delle multinazionali.
In che modo vedi lo scenario attuale?
Vedo la pandemia come uno specchio della società, che ci dice per esempio che ci sono molti meno morti dove c’è la possibilità di accedere alle cure mediche. In Italia stiamo assistendo agli effetti dei tagli alla sanità inflitti dalla Ue, che hanno avuto, anche prima di questa emergenza, un impatto profondo sul tasso di mortalità del vostro paese. In America invece dobbiamo fare i conti con una sanità privatizzata che non è in grado di offrire gratuitamente neanche i tamponi. Ci troviamo tutti in questa situazione in parte perché abbiamo monetizzato la salute pubblica e l’epidemiologia, perdendo la forza del bene comune.
Come possiamo agire dopo la pandemia?
Curare il gap tra economia ed ecologia è la primaria sfida scientifica e sociale del nostro secolo. Dobbiamo seriamente domandarci come tornare ad un’economia naturale, preservando i servizi ecosistemici che permettono di avere aria e acqua pulite, suolo fertile e di ridurre le possibilità di epidemie. I piccoli contadini e le popolazioni native mostrano che per secoli abbiamo utilizzato un tipo di agricoltura rigenerativa e non invasiva e quindi possiamo tornare a farlo, impiegando le risorse che ci permetterebbero di continuare a fornire il cibo di cui il mondo ha bisogno senza distruggere i mezzi con i quali lo produciamo realmente.
In che modo sarà possibile evitare epidemie come questa?
Dovremmo sicuramente modificare la nostra relazione con l’ambiente, in modo da tenere i patogeni al loro posto. Le foreste primarie sono sempre più in pericolo. Siamo in un circolo perverso, in cui più perdiamo ambiente primario e più diventa prezioso per le compagnie che se lo contendono.
Possiamo accettare le restrizioni per un periodo, ma vogliamo vivere in questo modo per il resto della nostra vita?
Stiamo perdendo i mezzi per la prosperità, non a livello finanziario, ma nel senso di gioire ognuno della vicinanza dell’altro, in maniera conviviale. Ma ora siamo a un punto di svolta, abbiamo bisogno di assumere una posizione radicale: non è necessario distruggere il villaggio per salvarlo, ma unire le nostre forze affinché il mondo naturale possa mettere in campo le risorse per contrastare l’insorgere di nuove malattie.
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