Giorgio Agamben ha pubblicato il 26 febbraio sul Manifesto il suo punto di vista sul Coronavirus. Il titolo dell’articolo è, manco a dirsi: Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata. Che altro, qualcuno si chiederà, avrebbe potuto scrivere il filosofo romano? Ma proprio questo è il problema.
La prevedibilità delle affermazioni del filosofo e l’apparente assenza di argomentazioni impegnative nel suo contributo sono state accolte da molti con sorpresa. Eppure non tutti si sono stupiti: la stanchezza di certi paradigmi e la scarsa vitalità del panorama teorico-politico fanno di simili prese di posizione lo specchio di una condizione più generale. Quando, di fronte alla realtà sfaccettata e cangiante del mondo, le formule interpretative si ripetono identiche a sé stesse, si può avere la sensazione che la critica abbia aperto almeno in parte la strada al dogmatismo, nel senso kantiano di derivazione di concetti da concetti senza l’irruzione di un esterno che li vivifichi. Questo “esterno” dovrebbe mettere alla prova confini e rapporti tra categorie, così che queste ultime non appaiano sospettosamente intatte, inscalfibili.
La prevedibilità delle affermazioni del filosofo e l’apparente assenza di argomentazioni impegnative nel suo contributo sono state accolte da molti con sorpresa. Eppure non tutti si sono stupiti: la stanchezza di certi paradigmi e la scarsa vitalità del panorama teorico-politico fanno di simili prese di posizione lo specchio di una condizione più generale. Quando, di fronte alla realtà sfaccettata e cangiante del mondo, le formule interpretative si ripetono identiche a sé stesse, si può avere la sensazione che la critica abbia aperto almeno in parte la strada al dogmatismo, nel senso kantiano di derivazione di concetti da concetti senza l’irruzione di un esterno che li vivifichi. Questo “esterno” dovrebbe mettere alla prova confini e rapporti tra categorie, così che queste ultime non appaiano sospettosamente intatte, inscalfibili.
La tesi di Agamben parte dal presupposto che la malattia provocata dal Covid-19 non sia grave. “Poco più di una normale influenza”. Lo si sente dire spesso in questi giorni. Le misure prese dal governo sarebbero quindi “sproporzionate”. Tali misure sarebbero anzi frutto di una precisa, ancorché nascosta, intenzione: aumentare, “con un pretesto”, il controllo politico sulla popolazione. Come già in passato la tutela della salute sarebbe utilizzata per imporre limitazioni della libertà e forme di militarizzazione, abituando i cittadini a restrizioni sempre più invasive della libertà. L’eccezione giuridica – accumulo e concentrazione di sovranità secondo coordinate che presuppongono un’azione al di sopra o contro la legge ordinaria, in nome di una necessità dell’arbitrio fondativa per il diritto – diventa sempre più “regola”, vita inframmezzata di emergenze (epidemie, terrorismo, terremoti) che giustificano il ricorso continuo a misure invasive, rese di volta in volta permanenti.
Agamben cita un comunicato del Cnr come fondamento della sua valutazione medica. È un fatto curioso. Il Cnr è l’istituzione che per eccellenza agisce e coordina la ricerca per conto e nella logica dello stato. Il filosofo intende mettere a nudo un’operazione del sistema complessivo di poteri e saperi che dalle istituzioni si irradia, in primis sul piano medico; ma con quale criterio discerne quali interventi pubblici, formulati da e per conto di quel sistema, sono o meno parte di un disegno politico non immediatamente perspicuo? La questione è tutt’altro che irrilevante sul piano epistemologico; ma c’è di più. Il comunicato del Cnr non afferma affatto che il Covid-19 sia una semplice influenza: semmai che i sintomi, nell’80-90% dei casi, sono simili a quelli dell’influenza. Afferma anche che nel 10-15% insorge la complicanza polmonare, che è quella che provoca il sovraffollamento ospedaliero e i decessi. (La polmonite, per quanto suoni innocua, è una delle prime cause di morte per malattia infettiva in vaste regioni del mondo, e la prima in Europa). Se il Cnr contribuisce giustamente a contestualizzare la pericolosità del virus entro una cornice razionale, ricorda anche che un 4% dei casi rende necessaria la terapia intensiva, e non è affatto una percentuale bassa.
Nessuno sta dicendo che il Covid-19 sia il flagello del secolo o il virus più pericoloso al mondo. Le preoccupazioni per la sua diffusione sono molto più equilibrate di quanto alcuni sembrano pregiudizialmente pensare, talvolta mossi da uno schifo elitario per i comportamenti di massa. È vero, ad esempio, che virus anche più pericolosi non si diffondono con analoga rapidità. Benché non sia in grado di provocare effetti disastrosi, il Covid-19 non è quindi la semplice influenza, come del resto spiegato – volendo restare a fonti scientifiche statali, e in attesa di un criterio per selezionarle – dall’Istituto superiore della sanità. Potrebbe dire Agamben che la differenza tra influenza stagionale e Coronavirus non è comunque abbastanza rilevante da giustificare simili misure del governo? Qui veniamo al problema essenziale: come saperlo? Contrariamente ad altri virus le caratteristiche del Covid-19 non sono conosciute ad ora in maniera precisa, né sono stati messi a punto vaccini o terapie vere e proprie (per essi ci vorrà un po’ di tempo, forse fino a due anni). Per questo la gente spera di non prenderselo.
Non siamo in presenza, quindi, di uno “stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo”, per usare le parole di Agamben. Al contrario: la gente è piuttosto tranquilla, la vita procede regolare, nel mio quartiere a Torino supermercati e farmacie non sono sovraffollati. Ciò non toglie che tutti preferiscano che il virus circoli il meno possibile. Non mancano qua e là paranoici della pandemia, ma sono più numerosi, mi sembra, i paranoici del complotto, che negano vi sia un reale pericolo per le persone e deridono i comuni mortali. Ci sono invece ottime ragioni per preoccuparsi, il che non vuol dire assolutamente perdere le staffe. Dovendo sopravvivere vorremmo che l’economia non sprofondasse, molti di noi hanno già subito danni economici a redditi bassi, e sappiamo che le condizioni economiche, già prima non esaltanti, peggioreranno per lungo tempo se il contagio diventa epidemico. Un’epidemia porterebbe inoltre al tracollo del fragile e sottofinanziato comparto sanitario, mettendo in forse un numero di vite molto maggiore. Il collasso degli ospedali nelle regioni più colpite della Cina ha provocato decessi per semplice mancanza di cure adeguate. Accadrà anche in Europa?
Continua Agamben: “Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite”. In primo luogo, qui non c’è nessuna “invenzione”. La diffusione del virus e il virus stesso non sono inventati ed esistono concretamente, fuori dai nostri benedetti schemi concettuali, e non è necessario aspettare che metà degli italiani sia contagiata per pensare a delle misure, perché prevenire è meglio che curare. Le statistiche della diffusione, per ora molto limitata, sono note e veritiere almeno fino a prova contraria, salvo pensare di poter accusare migliaia di operatori sanitari di intelligenza con un presunto piano segreto di disinformazione. I media esibiscono indubbiamente un ansiogeno eccesso di zelo nel divulgare le statistiche (chissà se, qualora non lo facessero, si griderebbe alla censura), ma questo non corrisponde verosimilmente a un piano preordinato dello stato, esprimendo semmai la tipica logica capitalistica della competizione spettacolare; che è nefasta, ma non rientra nella lettura che Agamben dà della situazione.
Per ciò che concerne la politica, non sembra che Conte stia usando la diffusione del virus come pretesto per ampliare “oltre ogni limite” il potere dello stato o provvedimenti eccezionali. Questa sì che mi sembra la descrizione di una circostanza “inventata”. Se analizziamo i fatti, vediamo che il governo ha tentato in ogni modo di minimizzare un fenomeno di cui poco sanno i medici – figuriamoci i politici – e ora prende misure che hanno come primo scopo mostrare all’Italia e all’estero che sta facendo qualcosa. Proprio per tenere d’occhio con attenzione le mosse dello stato, sempre pericolose, a poco serve gettare subito ogni provvedimento in una notte in cui tutti i decreti sono stati di eccezione, rischiando di aumentare la sfiducia o l’indifferenza che le persone hanno maturato verso le filosofie radicali. Indubbiamente gran parte delle ordinanze e degli articoli del decreto saranno incoerenti o sbagliati. Occorrerebbe allora commentarli uno per uno e argomentare le obiezioni. Dovremmo riabituarci a fornire qualcosa di concreto a coloro cui rivolgiamo un’interpretazione dei fatti: le grandi costruzioni ideologiche, dovremmo averlo imparato, perdono mordente se non sono in grado di impigliarsi nella realtà.
Il paragone che Agamben fa tra Coronavirus e “terrorismo”, d’altra parte, è quanto mai rivelatore. Credo si riferisca agli attentati dell’Isis degli anni scorsi. Qui è all’opera tutta una meccanica acritica dell’analogia. Un movimento politico fatto da uomini non è per nulla analogo alla diffusione di un microbo. Gli attacchi dell’Isis, che non erano a loro volta un’invenzione, possono aver dato adito a sperimentazioni del controllo su vari piani, ed essersi a loro volta nutriti di quelle reazioni, ma non sono fenomeni di fronte ai quali si possa reagire senza violenza e quindi senza esercizio di un potere. Chi poi voglia o debba farsi carico del problema è un altro paio di maniche, ma emerge il problema di fondo di proposte teoriche che, per quanto valide e illuminanti su tantissimi aspetti, sembrano non porsi mai il problema dell’alternativa reale. Anche quando lo stato sperimenta l’eccezione in seguito ad attentati, la nostra critica non deve sovrapporre meccanicamente tutte le iniziative prese dallo stato le une con le altre, affogandole in un’analisi uniforme, perché proprio se si intende sostituirlo con qualcosa d’altro occorre immaginare cosa faremmo noi se avessimo responsabilità pubbliche in quella situazione. Allora ci renderemmo conto che alcune delle misure repressive (ad esempio procedere a perquisizioni, interrogatori, controlli sulle strade) sarebbero le stesse che prenderebbe una forza rivoluzionaria in condizioni analoghe (accade ad esempio in Rojava). Probabilmente una forza rivoluzionaria procederebbe anzi contro l’estrema destra, islamica e non, con minori complessi sul piano politico, ed anche con minori ambiguità.
Certa critica teorica, in ambito accademico e “militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione. Questo induce a sviluppare un’attitudine a un tempo cupa e contemplativa, che non vede vie d’uscite e non riesce a dare conto della complessità e delle differenze insite nello sviluppo politico. Tutto ciò che questa attitudine vede attorno a sé è narrazione, ideologia, mito e menzogna, e le uniche narrazioni analizzate sono quelle attribuibili al “potere”, appunto. Il potere: chi è costui? Una domanda familiare. Pur essendo descritto in via di principio come un reticolato di interventi umani nella società, assume poi paradossalmente, in interventi come questo, le sembianze di quella vecchia idea di Potere, concentrato e completamente individuabile, che proprio una stimolante tradizione di pensiero voleva in origine abbandonare.
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