Si direbbe che
la prova epidemica dissolve ovunque l’attività intrinseca della Ragione e
obbliga i soggetti a ritornare ai tristi effetti – misticismo, narrazioni,
preghiere, profezie e maledizioni – a cui il Medioevo era abituato quando la
peste ripuliva i territori.
Di conseguenza,
mi sento un po’ obbligato a mettere insieme alcune idee semplici. Direi
volentieri cartesiane.
(…)
Questo
transito locale tra specie animali fino ad arrivare all’uomo costituisce il
punto d’origine di tutta la faccenda. Solo allora entra in gioco un fatto
fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso
del capitalismo di Stato a un rango imperiale, vale a dire una presenza intensa
e universale sul mercato mondiale. Da
qui, innumerevoli reti di diffusione, prima che, chiaramente, il governo cinese
fosse in grado di confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, una
provincia intera, quaranta milioni di persone –, cosa che alla fine riuscirà a
fare con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia fosse impedito di
diffondersi per le vie – gli aerei, le navi – dell’esistenza mondiale.
Un dettaglio
rivelatore di ciò che definisco la doppia articolazione di un’epidemia: oggi,
Sars 2 è arginata a Wuhan, ma vi sono numerosi casi a Shangai, dovuti
prevalentemente a persone, cinesi in generale, provenienti dall’estero. La Cina
è, pertanto, un luogo in cui si osserva l’annodamento, per una ragione arcaica,
e poi moderna, tra un crocevia natura-società su mercati maltenuti, di forma
antica, causa della comparsa dell’infezione, e una diffusione planetaria di
questo punto d’origine, trasportata, essa, dal mercato mondiale capitalista e
dai suoi spostamenti, tanto rapidi quanto incessanti.
Dopo di che, si
entra nella tappa in cui gli Stati cercano, localmente, di arginare questa
diffusione. Notiamo, per inciso, che questa determinazione rimane
fondamentalmente locale, mentre l’epidemia, essa, è trasversale. Nonostante
l’esistenza di alcune autorità transnazionali, è evidente che sono gli Stati
borghesi locali a essere sulla breccia.
Siamo qui di fronte a una delle
contraddizioni principali del mondo contemporaneo: l’economia, compreso il
processo di produzione di massa di manifattura, rappresenta un mercato globale.
Sappiamo che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mobilita
manodopera e risorse, anche minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma
d’altra parte, i poteri politici rimangono essenzialmente nazionali. E la
rivalità degli imperialismi, vecchi (Europa e USA) e nuovi (Cina, Giappone...),
proibisce qualsiasi processo di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è
anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica è
flagrante. Perfino i paesi europei non riescono ad adeguare per tempo le loro
politiche nei confronti del virus.
In preda a
questa contraddizione, gli stessi Stati nazionali cercano di affrontare la
situazione epidemica rispettando il più possibile i meccanismi del Capitale,
anche se la natura del rischio li obbliga a modificare lo stile e gli atti del
potere.
È noto da tempo
che in caso di guerra tra i Paesi, lo Stato deve imporre notevoli vincoli, non
solo ovviamente alle masse popolari, ma anche ai borghesi stessi, per salvare
il capitalismo locale. Delle industrie possono venir quasi nazionalizzate a
vantaggio di una sfrenata produzione di armi che, sul momento, non produce
alcun valore aggiunto monetizzabile. Molti borghesi vengono mobilitati come
ufficiali ed esposti alla morte. Gli scienziati cercano notte e giorno di
inventare nuove armi. Molti intellettuali e artisti sono tenuti ad alimentare
la propaganda nazionale, etc.
Di fronte a un’epidemia, questo tipo di
riflesso statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice,
le dichiarazioni di Macron o Philippe sullo Stato che improvvisamente torna a
essere “provvidenza”, sulla spesa per sostenere le persone senza lavoro, o i
lavoratori autonomi i cui negozi vengono chiusi, impegnando cento o duecento
miliardi di denaro dello Stato, l’annuncio stesso delle “nazionalizzazioni”:
tutto questo non è né sorprendente, né paradossale. Ne consegue che la metafora
di Macron, “siamo in guerra”, è corretta: guerra o epidemia, lo Stato è
costretto, a volte spingendosi oltre il normale gioco della sua natura di
classe, a mettere in atto pratiche al contempo più autoritarie e più globali
nel loro intento, per evitare una catastrofe strategica.
Questa è una conseguenza perfettamente
logica della situazione, il cui scopo è quello di arginare l’epidemia – vincere
la guerra, per usare la metafora di Macron – nel modo più sicuro possibile, pur
rimanendo all’interno dell’ordine sociale stabilito. Non è affatto una
commedia, è una necessità imposta dal diffondersi di un processo mortale che
incrocia la natura (da qui il ruolo eminente degli scienziati in questa
materia) e l’ordine sociale (da qui l’intervento autoritario, e non può essere
altrimenti, dello Stato).
Che in questo sforzo appaiano grandi
carenze è inevitabile. Così la mancanza di maschere protettive o
l’impreparazione rispetto all’entità del ricovero in ospedale. Ma chi può
davvero vantarsi di aver “previsto” questo genere di cose? Per alcuni aspetti,
lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è vero. Si può addirittura
dire che, avendo indebolito per decenni il sistema sanitario nazionale, anzi
tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell'interesse generale, esso
abbia piuttosto agito come se nulla di simile a una pandemia devastante potesse
colpire il nostro Paese. Cosa di cui è pienamente colpevole non solo nella sua
versione Macron, ma in quella di tutti coloro che lo hanno preceduto per almeno
trent’anni.
La lezione di tutto questo è chiara:
l’attuale epidemia non avrà, in quanto tale, in quanto epidemia, conseguenze
politiche rilevanti in un paese come la Francia. Anche supponendo che la nostra
borghesia pensi, di fronte al sorgere di lamentele informi e di slogan
incoerenti ma diffusi, che sia giunto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò
non rappresenterà assolutamente un cambiamento degno di nota. I candidati
“politicamente corretti” sono già dietro le quinte, così come i fautori delle
forme più ammuffite di un “nazionalismo” obsoleto e ripugnante.
Quanto a noi, che desideriamo un
cambiamento reale nei dati politici di questo Paese, dobbiamo approfittare
dell’intermezzo epidemico, e persino del – necessario – confinamento, per
lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici
nuovi e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo dopo
quella, brillante, della sua invenzione e quella interessante, ma infine
sconfitta, della sua sperimentazione statale.
Bisognerà altresì passare per una
critica serrata dell’idea per cui dei fenomeni come un’epidemia aprano di per
se stessi ad alcunché di politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione
generale di dati scientifici sull’epidemia, solamente delle nuove
affermazioni e convinzioni su ospedali e sanità pubblica, scuole e istruzione
egualitaria, assistenza agli anziani e altre questioni simili manterranno la
loro forza politica. Sono le sole che potranno eventualmente essere
collegate a un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla
situazione attuale.
Per inciso, si
evidenzierà coraggiosamente, pubblicamente, che i cosiddetti “social network” –
oltre a ingrassare i più grandi miliardari del momento – dimostrano ancora una
volta di essere prima di tutto un luogo dove si diffondono sfacciate paralisi
mentali, voci indiscriminate, la scoperta di “novità” antidiluviane, quando non
un oscurantismo fascistizzante.
Diamo credito,
anche e soprattutto mentre siamo confinati, solo alle verità controllabili della scienza e alle prospettive fondate
di una nuova politica, delle sue sperimentazioni localizzate e del suo
obiettivo strategico.
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A leggere una serie di articoli che
raccontano cosa avrebbero scoperto, nel silenzio accademico non confortato da
nessuna attività di divulgazione che portasse quelle ricerche all’attenzione
dell’opinione pubblica (in compenso, negli ultimi anni, almeno in Italia, si
sono formati drappelli di adepti della cura Di Bella, di Stamina e dei No Vax),
virologi e ricercatori nel corso del tempo, c’è da dire che l’epidemia in corso
era stata prevista o comunque poteva essere considerata prevedibile. Per cui la
comunità scientifica qualcosa aveva fatto negli anni scorsi per preparare una
eventuale controffensiva se non altro sanitaria anche a livello mondiale vista
l’interconnessione prodotta dalla globalizzazione economica di questi anni.
Queste ricerche, cinesi e nord-americane,
sembrano accomunate da una ipotesi secondo la quale sarebbero i pipistrelli gli
animali da cui i virus detti coronavirus
sarebbero, per così dire, espatriati nel corso degli anni per finire
negli organismi, prima di altri animali (leggi, maiali) e poi in quelli
dell’uomo. Il passaggio da pipistrello a maiale e poi ad uomo fu grosso modo
spiegato in un rapporto cinese apparso su NATURE
“in cui i ricercatori, oltre a segnalare al
loro paese il focolaio rilevante di apparizione di nuovi virus ed enfatizzare
l’alta possibilità di una loro trasmissione agli esseri umani, facevano notare come la crescita dei
macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli”.
Qui ci
troviamo di fronte ad un classico fenomeno che spesso si è ripetuto nella
storia: la ricerca scientifica indica, come causa dell’apparizione di nuovi
virus, un certo modo di praticare l’allevamento di bestiame, indica, cioè, in
una causa di natura economica l’origine di un fenomeno altamente letale per gli
animali e per l’uomo. Dunque, di fronte alla domanda: da dove vengono questi
virus che si susseguono così rapidamente da diversi anni, la risposta è
altrettanto chiara. Dal modo di produrre carne per soddisfare una domanda di
alimentazione che non è più locale, ma, nell’epoca della globalizzazione,
mondiale. Quindi un fabbisogno di immense quantità di prodotto in tempi sempre
più rapidi; e dove si produce tutto questo? In Cina, la ‘fabbrica del mondo’ da
ormai 20 anni. Il paradosso è che scienziati cinesi accusino altri cinesi, in
questo caso produttori in cerca di profitti, di fare affari alimentando, di
fatto, non tanto la popolazione mondiale con i loro maiali, uccelli e
quant’altro, quanto la diffusione pandemica, globale, di organismi patogeni in
grado di mettere in ginocchio, fra l’altro, quelle stesse economie.
Un
circolo vizioso di fronte al quale i poteri politici ed economici, alleati fra
loro, fanno finta di niente. E dove il potere politico è particolarmente
irruento, può anche accadere che cerchi di tappare la bocca proprio a chi sta
per svelare il rischio impellente al mondo. Il caso del medico cinese, messo
agli arresti per aver comunicato lo
scoppio di un’epidemia già a dicembre, poi liberato e morto proprio in seguito
alla diffusione del virus, dimostra come sia possibile che un conflitto fra
poteri possa comportare esiti così devastanti.
Se la
scienza, una volta tanto libera e disinteressata come dovrebbe sempre essere, individua e indica obiettivamente le cause di
un fenomeno nel sancta sanctorum della religione odierna, cioè dell’economia,
può accadere che, in nome di interessi legati al denaro e al profitto, quelle
indicazioni vengano screditate, disattese, sottovalutate, quando non bloccate
con le maniere forti (sullo sfondo i casi canonici di Giordano Bruno e di Galileo).
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