domenica 11 maggio 2014

MASS MEDIA INTERNET COSMOPOLITISMO. INTERVISTA CON E. ZUCKERMAN. F. CHIUSI, Il web è da rifare. Parla Ethan Zuckerman 'C'è troppo ottimismo ingenuo sulla Rete', L'ESPRESSO, 6 maggio 2014

Iperconnesso significa cosmopolita? Non necessariamente, scrive Ethan Zuckerman in “Rewire. Cosmopoliti digitali nell’era della globalità” (Egea, pp. 256 ): poter essere connessi a tutto il globo e a tutte le visioni del mondo non significa che ci interessi farlo davvero, e che lo facciamo. Di certo, argomenta il direttore del Center for Civic Media del Mit di Boston, non sarà la tecnologia da sola a renderci cittadini del mondo. 



Diventarlo costa fatica, spiega in questa intervista a “l’Espresso” in occasione del suo arrivo in Italia per il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. «Siamo ossessionati dagli algoritmi», dice, «e non pensiamo abbastanza alle persone» e a come usano davvero la Rete, al netto dei proclami.Zuckerman, dovremmo vivere in un mondo cosmopolita perché sempre connesso. Invece, ad esempio, siamo all’alba di elezioni europee all’insegna della paura di una crescita decisa dei nazionalismi. Come spiega questo paradosso? «A ogni nuova tecnologia c’è chi predice che ne deriveranno pace e cosmopolitanismo. Basta ricordare la retorica sulla radio, a partire da quella di Guglielmo Marconi. Diceva che avrebbe reso la guerra impossibile, perché l’avrebbe resa assurda. La sua teoria era che una volta che avessimo potuto sentire la voce di popolazioni di altri paesi non saremmo mai andati in guerra contro di loro. Lo stesso è stato ipotizzato per l’aereo. Prima che diventasse uno strumento di guerra, si pensava che potendo le persone viaggiare in luoghi lontani, e i diplomatici incontrarsi faccia a faccia, il risultato di quella nuova tecnologia sarebbe stato la pace. Lo stesso per il telegrafo, il telefono, la televisione. C’è sempre questo salto immaginativo, e poi l’impatto con la realtà: la radio, nei fatti, ha portato distrazione più che incontro. E si può sostenere lo stesso si stia verificando con Internet».
Qual è l’argomentazione dettagliata nel suo libro, in proposito? «È che dobbiamo liberarci dell’ottimismo ingenuo, che in sostanza dice: siamo tutti connessi, quindi andrà tutto bene, vivremo in un futuro cosmopolita. Ciò di cui c’è invece bisogno è un ottimismo informato. Significa sostenere che possiamo usare Internet per affrontare questo tipo di questioni, ma non accadrà automaticamente, senza sforzo da parte nostra. Il cosmopolita digitale si chiede: quali sono i modi per concretizzare gli effetti positivi della tecnologia?».Lei scrive che il paradosso sta nell’essere iperconnessi e allo stesso tempo avere visioni del mondo più ristrette. Esistono studi che mostrano un legame tra la diffusione delle tecnologie digitali e il rinforzarsi di posizioni nazionaliste, anche in termini elettorali? «Non ne sono a conoscenza, probabilmente perché il ruolo delle tecnologie in quel tipo di studi sarebbe decisamente di secondo piano: da scienziato sociale posso dirle che il nazionalismo ha molto più a che fare con le ristrettezze economiche. Tuttavia ho recentemente lavorato con alcuni colleghi sull’hate speech mentre ero in Birmania, che si sta connettendo alla Rete solo ora e ha terribili problemi di tensioni etniche. Molti sono preoccupati per ciò che significa Facebook per le violenze tra islamici e buddisti, perché è un contesto dove si pensa di parlare a pochi intimi e non in pubblico, e di conseguenza i toni sono molto più estremi. Le ricerche svolte sulle elezioni del 2013 in Kenya confermano, mentre su Twitter è più chiara la percezione di essere in pubblico, e dunque ci si modera. Ecco, questo potrebbe fornire una prova che il problema non è Internet ma come lo usiamo».

Ovvero? «Che se lo usiamo in modo da avere conversazioni private con un gruppo di persone di cui ci fidiamo, potremmo effettivamente finire per avere opinioni più estreme. E del resto, è così che funziona tra i neonazi e gli ultranazionalisti. Se invece lo usiamo in modo da rendere quelle conversazioni visibili, potendole trovare, confrontare ed esporre a refutazione allora forse è possibile farne uno strumento per controbilanciare gli estremismi».Il che ci porta alle sue riflessioni sull’importanza dell’architettura stessa dei social network per il cosmopolitismo. Nel libro argomenta in favore della creazione di piattaforme per la “serendipità”, ossia per la scoperta casuale. Come le immagina? «Ci ha lavorato uno dei miei studenti, per la sua tesi. È molto interessante, si chiama “Terra Incognita”. Quel che fa è osservare quali notizie leggiamo sul Web, e aiutarci a comprendere a quali parti del mondo stiamo prestando attenzione. Per scoprire per esempio che leggiamo molto sull’Unione Europea, diversi siti tecnologici statunitensi, ma poco o nulla sull’Asia dell’est. Così, aprendo una nuova pagina sul browser, invece di una pagina bianca il software può mostrarci una città dell’est asiatico, e qualche buon link al riguardo. La speranza è catturare l’attenzione del lettore».Ma una simile piattaforma ha senso dal punto di vista economico? Il modello di business dominante, attualmente, si basa al contrario sulla iperpersonalizzazione dei contenuti di cui fruiamo. Serve a definire e inquadrare le nostre preferenze, e venderci prodotti tarati esattamente su di esse. La serendipity è un fattore di disturbo, in questo senso: rende meno precisa l’immagine che le aziende pubblicitarie hanno di noi, perché ci suggerisce - montalianamente - ciò che non siamo e non vogliamo.

«Vero, non ha senso dal punto di vista economico. Di certo ne ha meno che dare alle persone esattamente ciò che vogliono. Se sono un pubblicitario e so che sei un fan della Serie A è molto meglio suggerirti notizie sul calcio che cercare di convincerti a conoscere il Muay Thai, l’arte marziale tailandese. Ma se ho una responsabilità civile oltre che fiscale, che è tra i compiti dell’informazione, renderci dei buoni cittadini include anche darci una buona visione di ciò che accade nel mondo. Farci considerare noi stessi non solo come statunitensi o italiani, ma anche come nordamericani, europei, cittadini dello stesso pianeta».Basterà ribadire il ruolo civico del giornalismo? «Non c’è solo quello. Credo che l’avvento della rete sociale possa comportare la volontà da parte di alcuni di spendere del denaro per ottenere la serendipità. Un piccolo esempio: io pago per la app Instapaper e la sua funzione di ricerca dei contenuti salvati dagli amici e dagli altri utenti. Credo che sarà possibile avere modelli di redditività basati sulla serendipità».La rete di per se stessa è una infrastruttura globale. Ma le rivelazioni di Edward Snowden hanno portato a proposte per “balcanizzare” Internet, ossia dividerla in tante isole tra loro sconnesse. La sorveglianza di massa complica le prospettive del cosmopolitismo digitale? «Il modello di business di Internet, al momento, è la sorveglianza. Google lo dice chiaramente; Facebook è molto meno trasparente. È possibile, anche se improbabile, che la risposta sarà la costruzione di un altro modello di business, basato sui contenuti a pagamento in cambio di una privacy reale».
Così da possedere davvero i nostri dati. «Sarebbe magnifico se accadesse. Possiamo immaginare Facebook dire: pensiamo di poter ricavare 20 dollari dalla vendita dei tuoi dati; dacceli e non li venderemo. Non credo accadrà, a meno di forti pressioni governative, e non riesco a immaginare che un governo le faccia. La mia preoccupazione è che potremmo vedere il verificarsi della balcanizzazione, e se ciò significasse niente più brasiliani su Facebook e Twitter perché sono sostituiti da servizi locali sarebbe tragico. E del resto è quanto accaduto in Cina: se molti di noi sono così sprovveduti sulla Cina è perché le conversazioni avvengono su Weibo e WeChat, e buona parte di noi non vi è iscritta. Non è solo una barriera linguistica, ma anche di piattaforma. Temo che nel tentativo di riavere indietro la nostra privacy potremmo finire per spezzettare luoghi pubblici di cui abbiamo bisogno ora più che mai».


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