domenica 17 maggio 2015

CRITICA DELLE NUOVE TECNOLOGIE. SOCIAL NETWORK E MASS MEDIA. ILLETTERATI, I diktat del web. Recensione al saggio di M. Ferraris, Mobilitazione totale, IL MANIFESTO, 15 maggio 2015

Si parla di armi nel nuovo libro di Mau­ri­zio Fer­ra­ris, Mobi­li­ta­zione totale(Laterza, pp.109, euro 14,00). Anzi, più cor­ret­ta­mente, di ARMI, dove i carat­teri maiu­scoli stanno ad indi­care che non si tratta tanto di pistole, con­trae­rei o droni, ma di un acro­nimo che sta per Appa­rec­chi di Regi­stra­zione e Mobi­li­ta­zione dell’Intenzionalità, ossia, per scio­gliere il plesso ter­mi­no­lo­gico piut­to­sto inquie­tante, il web: quell’apparato che deter­mina le nostre esi­stenze più di quanto ne siamo in genere con­sa­pe­voli.


Un appa­rato che è fatto di vin­coli (ci sen­tiamo in colpa se non con­trol­liamo le mail), oppor­tu­nità (comu­ni­chiamo in modo infi­nito e pos­siamo veri­fi­care seduta stante un’informazione), chia­mate (alle ARMI), nuove forme di socia­liz­za­zione. L’acronimo non è scelto, ovvia­mente, a caso. Le ARMI sono, in effetti, qual­cosa il cui aspetto è real­mente inquie­tante, sono un asso­luto che si impone in ter­mini deci­sa­mente radi­cali, un potere che ci mobi­lita e ci fa entrare in qual­che modo in guerra, innan­zi­tutto nei con­fronti di noi stessi.
Un voca­bo­la­rio di guerra
Le ARMI sono, a un tempo, strut­tura coer­ci­tiva e stru­mento di libe­ra­zione: potere deter­mi­nante nei con­fronti delle esi­stenze – per cui ci si trova a orga­niz­zare il pro­prio tempo vitale sulla base di agende che sono coe­renti con il sistema della rete, si apprende e si com­menta ciò che Goo­gle, Face­book o Twit­ter ci chie­dono di appren­dere e com­men­tare – e insieme pos­si­bi­lità di eman­ci­pa­zione – forza in grado di abbat­tere muri prima nem­meno scal­fi­bili, di rag­giun­gere cono­scenze prima pro­tette da densi e opa­chi fil­tri sociali, facendo sen­tire la pro­pria voce (anzi la pro­pria scrit­tura, per­ché la voce sem­bra ormai scom­parsa) là dove prima non ne arri­vava nem­meno l’eco.
Ma Fer­ra­ris insi­ste soprat­tutto, con­tro la reto­rica della con­di­vi­sione totale e coe­ren­te­mente con alcuni suoi assunti teo­rici, sull’aspetto sub­do­la­mente costrit­tivo e per­for­ma­tivo delle ARMI: «ciò a cui stiamo assi­stendo … è il dispie­garsi su scala mon­diale di un potere il cui ante­nato più pros­simo è appunto l’alleanza tra buro­cra­zia e potere mili­tare che si mani­fe­sta nelle espe­rienze sto­ri­che della mobi­li­ta­zione totale». In que­sto senso se c’è un voca­bo­la­rio in grado di pene­trare e ren­dere ragione delle dina­mi­che di fun­zio­na­mento del web, della sua straor­di­na­ria per­va­si­vità e della sua capa­cità di modi­fi­care e strut­tu­rare nel pro­fondo le vite di coloro che spesso si illu­dono di domi­narne il senso, que­sto è appunto il voca­bo­la­rio della mili­ta­riz­za­zione e della guerra. Il Web è un appa­rato che mobi­lita, che deter­mina le prio­rità, che pla­sma alla radice le tem­po­ra­lità esi­sten­ziali, che destrut­tura e ristrut­tura i con­cetti clas­sici di lavoro, di azione, di pro­du­zione, di mer­cato. Den­tro il sistema delle ARMI, infatti, la distin­zione tra tempo di lavoro e tempo di riposo diventa illu­so­ria, così come inde­fi­ni­bile è per molti versi il con­fine tra atti­vità pri­vata e atti­vità pub­blica, e dun­que, in ter­mini ancora più gene­rali, tra libertà e ingiun­zione.
Né apo­ca­lit­tica denun­cia del nuovo e invi­si­bile potere costi­tuito dalla Rete, né inte­grata lode nei con­fronti dei nuovi oriz­zonti da essa dischiusi, il lavoro di Fer­ra­ris non è un’indagine lata­mente socio­lo­gica, e non è un pam­phlet di cri­tica del costume. È un discorso schiet­ta­mente filo­so­fico che si situa, espli­ci­ta­mente, su un livello antro­po­lo­gico, come un un discorso sulla natura umana. La radice delle ARMI non è infatti, secondo Fer­ra­ris, il Capi­tale, non è un’agenzia di mul­ti­na­zio­nali che guida gli indi­vi­dui verso com­por­ta­menti fina­liz­zati a un inte­resse spe­ci­fico; non è nem­meno la CIA o la Natio­nal Secu­rity Agency (cosa che la visione di Citi­zen­four, il docu­men­ta­rio di Laura Poi­tras su Edward Sno­w­den potrebbe anche far pen­sare) o una qual­che Spec­tre di altro tipo: non è appan­nag­gio di Apple né di Micro­soft. E non per­ché que­sti non siano reali poteri, ma per­ché, sem­pli­ce­mente, fer­marsi a que­sto livello equi­var­rebbe alla rinun­cia di una spie­ga­zione radi­cale del feno­meno. La fonte ger­mi­nale delle ARMI, la forza da cui sca­tu­ri­scono è, dice Fer­ra­ris, la natura umana, la pecu­liare ten­denza degli umani a sop­pe­rire alle debo­lezze e alle fra­gi­lità della pro­pria natura con pro­tesi tec­ni­che. La radice delle ARMI è la natura ori­gi­na­ria­mente tec­nica dell’umano; ridurla a stru­mento ela­bo­rato dal potere di taluni per il domi­nio degli altri signi­fica non com­pren­derne la radi­ca­lità. Anzi, pro­prio nella loro duplice natura di stru­mento di vin­colo e oppres­sione, e allo stesso tempo, di ribel­lione ed eman­ci­pa­zione, le ARMI mostrano di essere una delle moda­lità di emer­sione della natura dell’umano.
Oriz­zonti antro­po­lo­gici
Per que­sto il discorso sulle ARMI non può che essere un’antropologia. E l’antropologia che emerge in que­sto lavoro di Fer­ra­ris è fon­da­men­tal­mente pes­si­mi­stica. Il punto è cru­ciale per­ché getta una luce niente affatto banale su quel (nuovo) rea­li­smo filo­so­fico di cui molto si è discusso in que­sti anni, a volte con stizza e non di rado con accenti iste­rici. In un certo senso, in que­sta antro­po­lo­gia sem­bra di poter scor­gere una delle moti­va­zioni pro­fonde che spin­gono verso quella opzione onto­lo­gica e meta­fi­sica. Nel sot­to­li­neare e nell’insistere sulla neces­sità di pen­sare l’indipendenza del reale dalle menti e, con­se­guen­te­mente, la dipen­denza delle menti dal reale, il rea­li­smo di Fer­ra­ris si fa in que­ste pagine, rea­li­smo esi­sten­ziale.
Nell’antropologia che viene pro­po­sta in que­sta ana­lisi della rete come luogo den­tro il quale le nostre esi­stenze si tro­vano get­tate a vivere, l’esistenza si rivela in effetti ade­guata solo in quanto acco­glie la sua dipen­denza dal reale. La con­vin­zione che Fer­ra­ris cerca di difen­dere qui è dun­que que­sta: che l’esistenza non sia tanto for­ma­trice di mondo (come voleva Hei­deg­ger, che distin­gueva così il modo d’essere dell’uomo dal modo d’essere della pie­tra – priva di mondo – e dall’animale – povero di mondo) ma sia sem­mai dipen­dente dal mondo. Più radi­cal­mente ancora: è il mondo, con il suo cor­re­lato di lin­guaggi, tra­di­zioni, leggi e sto­rie, a essere for­ma­tore di esi­stenze. Le vite degli umani rice­vono il loro senso dal mondo e da tutte quelle stra­ti­fi­ca­zioni di senso che vi si sono for­mate, fuori da qual­siasi dina­mica volon­ta­ri­stica e inten­zio­nale: dalla gram­ma­tica delle abi­tu­dini al sistema di norme sociali che costi­tui­scono il gigan­te­sco incon­scio den­tro il quale già da sem­pre siamo e già da sem­pre, fin dal nostro primo respiro, ci muoviamo.
In que­sto senso il rea­li­smo di Fer­ra­ris, e con esso la sua idea di esi­stenza, la sua stessa idea di filo­so­fia e di pra­tica cul­tu­rale, per quanto spesso gio­cata in ter­mini di leg­ge­rezza, di iro­nia e di humour, è molto più radi­cal­mente pes­si­mi­sta (in un senso che direi quasi leo­par­diano) di tanto pen­siero nega­tivo, di tanta reto­rica del tra­gico, di tanta mesti­zia della fini­tu­dine e della colpa, che, die­tro l’apparente mode­stia, direbbe Hegel, nasconde non di rado la più altez­zosa super­bia: quella di sen­tirsi in potere di dire all’uomo, alle cose e al mondo nella sua com­ples­sità, come l’uomo, il mondo e le cose deb­bano essere per essere ciò che sono.
Ovvia­mente, l’idea che l’esistenza sia innan­zi­tutto dipen­denza, prima che auto­de­ter­mi­na­zione, è la più pro­ble­ma­tica e spi­nosa di tutta la fac­cenda. Una delle accuse che sono state rivolte al nuovo rea­li­smo è infatti quella di non riu­scire a pen­sare l’istanza eman­ci­pa­tiva, di non riu­scire a dare senso a un biso­gno di tra­sfor­ma­zione del reale a par­tire da istanze di giu­sti­zia: a par­tire, ad esem­pio, da un qual­che senso di inac­cet­ta­bi­lità delle cir­co­stanze date. Se infatti si vuole tra­sfor­mare il reale è neces­sa­rio pen­sare a una qual­che pos­si­bi­lità costrut­tiva nei con­fronti della realtà, è neces­sa­rio potersi muo­vere nei suoi con­fronti den­tro un rap­porto che non sia di sola dipen­denza; è neces­sa­rio, cioè, rico­no­scere un ele­mento di ori­gi­na­ria auto­de­ter­mi­na­zione da parte dell’umano affin­chè sia capace di instau­rare una dina­mica eman­ci­pa­tiva e tra­sfor­ma­tiva rispetto al mondo.
I diritti della realtà
In effetti, risponde Fer­ra­ris, è pos­si­bile eman­ci­pa­zione solo là dove si rico­no­scono alla realtà i suoi diritti, dove si pen­sano le dif­fe­renze tra diversi tipi di realtà, dove è chiaro rispetto a quali realtà è in nostro potere agire e rispetto a quali, invece, pre­ten­dere di essere costrut­tivi è solo un’operazione ideo­lo­gica. Si coglie qui tutta la fatica di coniu­gare il pes­si­mi­smo antro­po­lo­gico con la pos­si­bi­lità di pen­sare un’azione in grado di ren­dere il mondo migliore rispetto a come è.
In que­sto senso, se c’è un limite in que­sto lavoro al solito bril­lante, rigo­roso e que­sta volta più di altre segnato, e forse esi­sten­zial­mente attra­ver­sato, da una intrin­seca e pro­dut­tiva pro­ble­ma­ti­cità, è quello per cui un certo otti­mi­smo onto­lo­gico non è sem­pre all’altezza del pes­si­mi­smo antro­po­lo­gico radi­cale che anima tutto il lavoro. Per difen­dere la ragioni della realtà (cosa che a mio parere Fer­ra­ris fa benis­simo a fare, con­tro tutte le cari­ca­ture ideo­lo­gi­che e costrut­ti­vi­sti­che e con­tro tutti i vel­lei­ta­ri­smi sog­get­ti­vi­stici) que­sto libro tende, a volte, a leg­gere la realtà sto­rica e sociale con cate­go­rie non altret­tanto raf­fi­nate di quelle usate per inda­gare non solo quella mani­fe­sta­zione spe­ci­fica del pre­sente che sono le ARMI, ma anche i modi con cui le nostre esi­stenze con­crete si fanno da esse plasmare.
Natura di una cul­tura
Dire ad esem­pio, come si dice con insi­stenza nelle pagine finali del libro, che non è mai esi­stita un’epoca con tanta cul­tura, pro­prio gra­zie alle pos­si­bi­lità offerte dalla rete e alle sue con­se­guenti pos­si­bi­lità eman­ci­pa­tive, è cer­ta­mente dire una cosa vera, per­sino banal­mente vera (e Fer­ra­ris soster­rebbe che è sem­pre meglio una cosa banal­mente vera che una pro­fon­da­mente falsa), ma non ci dice in realtà molto della forma che ha que­sta cul­tura, del senso che essa incarna, della sua pos­si­bi­lità di essere dav­vero e radi­cal­mente deco­strut­tiva. Forse, non basta deco­struire il costrut­ti­vi­smo sog­get­ti­vi­stico: per ren­dere ragione della realtà, per guar­darla in fac­cia con occhio sin­cero, biso­gna anche deco­struire i rea­li­smi che la imprigionano.

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