sabato 27 febbraio 2016

FILOSOFIA. DERRIDA E LA PITTURA. J. COIGNARD, L'arte dell'autoritratto secondo Derrida, L'ESPRESSO, 24 febbraio 2016

Questa intervista è apparsa nella rivista "Beaux Arts Magazine" nel 1990 in occasione della mo­stra «Mémoires d’aveugle, l’autoportrait et autres ruines (Memorie di cieco, l’autoritratto e altre rovine)» presentata nella Sala Napoleone del Museo del Louvre, dal 26 ottobre 1990 al 21 gennaio 1991. La pubblichiamo per concessione dell'editore Jaca Book, che la pubblica nel volume di Jacques Derrida "Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004)", a cura di Ginette Michaud, Joana Masó, Javier Bassas e - per l'edizione italiana - Alfonso Cariolato







"Se non lo stesso disegnatore, è il disegno a essere cieco". Questo tema paradossale, per non dire provocatorio, è stato da lei preso in considerazione per la mostra di cui il Museo del Louvre le ha chiesto di essere il curatore. In che cosa consiste tale «cecità» del disegno?
«Non si tratta di presentare direttamente il disegnatore come un cieco, ma, come indica il titolo della mostra, di interessarsi a ciò che ha potuto portare il disegnatore a interessarsi ai ciechi. Vale a dire alla vista, e questo va da sé, ma anche alle mani. È una mostra sull’occhio esposto alla ferita, all’infermità, a tutti i tipi di minacce, ma è anche una mostra di mani, nella misura in cui il cieco è qualcuno che si orienta, che va a tentoni mettendo le mani avanti. Vi si possono vedere, dunque, molte mani – quelle dello stesso cieco, ma anche quelle del Cristo che guarisce i ciechi toccandoli.

Interessandosi all’occhio e alla mano, il disegnatore è già nella situazione della riflessione speculare. Coglie se stesso come un possibile cieco, qualcuno che cammina con la mano – se si può dire così –, che lavora con la mano. Da questo punto di vista, «memorie di cieco» significa, nella nostra cultura, tutto quello che hanno rappresentato i grandi ciechi della Bibbia e dell’antichità greca. Si potranno vedere, dunque, un certo numero di figure di ciechi leggendari. Tale interesse del disegnatore per lo sguardo conduce alla questione dell’autoritratto, vale a dire del disegnatore che cerca di sorprendersi mentre disegna.

In mostra si vedono dei bellissimi autoritratti di Fantin-Latour o di Chardin, unitamente alla questione teorica di sapere che cos’è un autoritratto, se un autoritratto sia possibile e se, nell’esperienza dell’autoritratto, il disegnatore non si accechi, data l’incapacità in cui si trova di sorprendere il proprio sguardo, e anche il fatto strutturale per il quale un autoritratto mai s’identifica mediante una semplice lettura interna dell’opera. Non basta guardare un autoritratto per sapere che si tratta di un autoritratto. È necessaria un’indicazione esterna al disegno per permetterci di identificarlo come tale».



La direzione dello sguardo, la posizione del volto ci danno tuttavia degli indizi che lasciano supporre la presenza dello specchio.
«È sempre un’ipotesi. È quella che chiamo l’«ipotesi della vista» – tutto ciò che, nel disegno e nella nostra esperienza del disegno, sospende il vedere immediato e sempre ci obbliga a passare attraverso il discorso o la memoria. Si parla di autoritratto, si nomina l’autoritratto, non si vede mai un autoritratto in quanto tale. E, in ciò che si nomina «autoritratto» – è il caso di Fantin-Latour o Chardin –, non si sa se il firmatario si sta guardando in uno specchio, se si sta guardando mentre si guarda in uno specchio, se si sta guardando mentre vede qualcos’altro, se si sta guardando mentre disegna o non disegna, mentre disegna se stesso o sta disegnando dell’altro.

Tutto questo è lasciato al campo delle ipotesi. È una zona di cecità per lo spettatore. Costui, come l’autore dell’autoritratto, è in una sorta di cecità essenziale nella misura in cui tale cecità è qualcosa come la condizione di una certa visibilità. Nell’autoritratto, il disegnatore assegna allo spettatore il posto dello specchio. Acceca se stesso, maschera il suo specchio consegnandosi allo sguardo dell’altro e installando l’altro al posto dello specchio. È questa struttura, assai sconcertante, dell’autoritratto che cerco di dimostrare. Ma la mostra non mostra soltanto il falso vetro dello specchio, mostra anche il vetro ottico, la lastra di vetro e la vetrina. È un po’ un’esposizione di vetro».

Nell’introduzione al catalogo lei concede qualche frammento di autobiografia.
«Tutta questa mostra è attraversata da quello che si potrebbe chiamare un romanzo familiare. Nella Bibbia le storie di ciechi sono sempre storie di genealogia padre/figlio, padre/nipote, ecc. Lei ricorderà la storia di Giacobbe che si sostituisce a suo fratello Esaù al fine di ricevere la benedizione del padre cieco. Il testo è due volte un autoritratto impossibile – io dico, infatti, che l’autoritratto è in un certo modo impossibile. È la cronaca della stessa mostra, in cui racconto come tutto ciò sia accaduto».

Poco tempo fa lei è stato vittima di una paralisi facciale che aveva gravemente colpito il suo occhio sinistro. Il tema dell’occhio, dello sguardo era allora diventato per lei un’ossessione?
«In effetti il tema della mostra l’ho scelto subito dopo la mia guarigione. Ma ha giocato anche l’interesse che nutro da molto tempo nei confronti della metafora ottica nella storia della filosofia – l’eidos di Platone, l’idea è un contorno visibile. È in un’altra modalità che il racconto è autobiografico. Racconto il mio rapporto di menomato rispetto al disegno. Mio fratello maggiore disegnava, e disegna, sempre molto bene. Ero geloso di lui e cercavo, senza riuscirci, di imitarlo. C’è in me un’inibizione nei confronti del disegno e forse anche della vista, della percezione. In un certo qual modo, mi presento come un cieco. È l’autoritratto di un cieco che si fa guidare, andando a tentoni, dagli esperti, i conservatori, nei fondi del Louvre».

Lei dice che eseguendo il proprio autoritratto, il disegnatore si acceca. Ma tale cecità non è il proprio della creazione artistica?
«Questa cecità non è semplicemente opposta o opponibile alla visione. Essa abita nel cuore della lucidità, della vista. Si può affrontare secondo diverse angolature. Pur seguendo un modello, nel momento in cui disegna l’artista avanza nella notte. Il solco del disegno avanza nell’invisibilità. D’altra parte, il tratto (ed è per questo che ciò vale più per il disegno che per la pittura) è esso stesso invisibile.

Infatti, lo spessore di colore che si vede non è il tratto propriamente detto. Il tratto è ciò che separa, che differenzia; è l’intervallo e, in quanto tale, non è visibile. Esso eccede l’opposizione, tradizionale in filosofia, tra il sensibile e l’intelligibile. L’esperienza del disegno è la prova, per antonomasia, di tale invisibilità contrariamente a ciò che spesso si dice – nella misura in cui il disegnatore viene presentato frequentemente come colui che vede».

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