venerdì 27 marzo 2020

EPIDEMIE PANDEMIE E RIFLESSIONI PSICO-SOCIO-ECONOMICHE. E. CURRO, Coronavirus, Albertini: "Troppa promiscuità sugli aerei e turismo insensato. Anche nelle aziende va cambiato modello", REPUBBLICA.IT, 27 marzo 2020

Alberto Albertini, 53 anni, bresciano, ex industriale di Italpresse, azienda di famiglia produttrice di macchine per il settore automobilistico, oggi manager d'azienda e docente a contratto all'Università Cattolica di Brescia, giornalista, direttore artistico del festival Rinascimento Culturale, ha esordito con il romanzo "La classe avversa", il racconto del disfacimento del paradigma capitalistico familiare sul quale è stata fondata l'Italia industriale del dopoguerra.

https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2020/03/Alberto-Albertini-La-classe-avversa-6c61ad84-a535-404a-bfba-5e4985f8d2b9.html

Alberto Albertini è nato nel 1966 a Brescia, dove vive. Laureato in Filologia Moderna, lavora da 34 anni nell’industria, oggi come responsabile dell’innovazione e dello scouting tecnologico di un’azienda leader mondiale nel settore Pharma. Copywriter, giornalista, consulente di marketing e comunicazione, docente a contratto presso la facoltà di Scienze Linguistiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, tra i fondatori della rivista Stile Arte, collabora con la Scuola Holden e Il Giornale di Brescia, ed è l’ideatore e il direttore artistico del festival Rinascimento Culturale. Con l’editore l’Obliquo ha pubblicato un saggio sulla scrittura di Giuseppe Pontiggia. La classe avversa è il suo primo romanzo, segnalato dal Comitato di Lettura del Premio Calvino.


Albertini, lei ha una spiegazione inedita sulla genesi della pandemia in Lombardia?
"Più che sulla genesi, su quale sia stato uno tra i veicoli principali di un contagio che nessun'altra regione italiana ha registrato nelle stesse proporzioni: gli aeroporti. Alla fine dello scorso anno i tre aeroporti lombardi, Malpensa, Bergamo e Linate, hanno festeggiato il record di 48 milioni di passeggeri, quasi l'intera popolazione del nostro Paese. Oggi quella parola, "festeggiato", suona lugubre".


Qual è la correlazione col coronavirus?
"La presenza negli scali di così tante persone, in quella che il gergo della pandemia definisce "promiscuità". Imprenditori, ingegneri, montatori, operai che andavano in Cina, magari anche più di una volta al mese, mescolati con i viaggiatori in sovrannumero, protagonisti di una mobilità a dir poco eccessiva".

La pandemia è un po' figlia della cultura lombarda del lavoro?
"Non solo. Da un lato c'è la Lombardia, con i suoi aeroporti, le sue aziende che esportano almeno il 70%, in Germania e in Cina soprattutto, dove hanno filiali, fornitori e molti clienti. Sono Paesi che visitano senza sosta, dei quali accolgono gli ospiti stranieri negli alberghi. La mia regione è stata un po' la "rosa sentinella" dell'Italia, quella che in agricoltura si mette alla testa di un filare nei vitigni, la prima ad essere colpita dai parassiti".

E dall'altro lato?
"C'è il turismo insensato. La mobilità perversa. Abbiamo raggiunto il limite di un comportamento antropologico. Io, che mi muovo solo per lavoro, ero sempre più sorpreso dal delirio dei viaggi contemporanei, su aerei che chiamo "carri bestiame", a litigare per ogni centimetro vitale, in mezzo a comitive di anziani che si ripromettevano di visitare "almeno quattro capitali europee quest'anno". Tanti Remo e Augusta del film "Le vacanze Intelligenti", quello con Alberto Sordi. Vedevo viaggi senza narrazione né trasformazione".

Vuole dire senza una reale finalità o utilità?
"Esatto. Anni fa, io stesso mi ero vantato di una "gita" a Londra in giornata, da Bergamo, per una mostra di Lucian Freud e un caffè alla Tate Modern. Un viaggio costato pochi euro. A me. E al pianeta terra? Capriccio, vanità. Hybris, direbbero gli antichi Greci: il peccato più nefasto, contro gli Dei, la natura. Infatti: ci ha puniti un pipistrello al quale avevamo sottratto spazio. Dracula siamo noi uomini".

E l'industria non c'entra?
"Come no. Quest'esperienza dimostra che dobbiamo cambiare stile di vita e modello di sviluppo. Ho scritto un romanzo per cercare di spiegare che un certo capitalismo non è più percorribile. Bisogna tornare alla "comunità" di Adriano Olivetti, a pensare alle aziende e al mondo come facevano i nostri nonni, memori di tante lezioni della storia: un ecosistema condiviso di risorse e persone".

E' davvero possibile?
"Sì. Basta rendimenti e fatturati "a due cifre percentuale", espressione che riempie la bocca degli investitori, ma depreda la terra dei suoi principi vitali. Torniamo alle rese reali, conseguenza di sacrificio e lavoro. Una tonnellata di olive (e bisogna immaginarle tutte stese, insieme alla fatica per coltivarle e raccoglierle), frutta in media 100 kg di olio. Al quale dobbiamo tornare a dare il vero valore, non quello che fa il mercato e svilisce il lavoro".

Non è una visione troppo romantica?
"Tutt'altro. Lo dico con cognizione di causa. Dalla prospettiva del padrone, quale sono stato. Da 34 anni lavoro nell'industria: prima nell'azienda di famiglia, che non ha retto il passaggio generazionale ed è stata ceduta a un private equity straniero. Nessuno sta parlando di decrescita. Invece potrebbe essere l'eredità di questa pandemia".


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