mercoledì 11 settembre 2019

L'INDUSTRIA DELLA FELICITA'. Contro la felicità. Intervista di David Broder a Edgar Cabanas e Eva Illouz, VOCI DALL'ESTERO, 29 agosto 2019

La felicità suona come una bella cosa. Non per nulla c’è un sacco di gente nel mondo che è pronta a vendercela. C’è un’industria con un giro di 12 miliardi di dollari all’anno che produce libri di auto-aiuto, conferenze, materiale audiovisivo, tutta roba che ci spiega quali sono i piccoli cambiamenti che tutti noi possiamo fare per raggiungere questa elusiva esistenza felice: dal visualizzare i nostri successi futuri al perdere peso o riordinare la nostra stanza.


Fino dalla fine degli anni ’90 questa industria è sostenuta da un bastione di scientificità, ovvero dalla “psicologia positiva”, promossa dall’ex presidente della American Psychological Association, Martin Seligman. La sua idea di “ottimismo appreso”, assieme a concetti come la “mindfulness”, è diventata parte delle idee che il buon senso ci suggerisce per migliorare la nostra esistenza.
Alcuni di questi discorsi sembrano voler creare un “culto”, e assomigliano piuttosto a invocazioni a digerire una realtà della quale siamo scontenti. Viene suggerito che i nostri problemi siano tutti nelle nostre teste, così come il sentiero per trasformarci in persone migliori. Non sorprende che tutto questo venga usato nei posti di lavoro per farci restare belli sorridenti mentre facciamo quello che ci dicono di fare.
Eva Illouz e Edgar Cabanas sono gli autori del recente libro “Manufacturing Happy Citizens” [letteralmente “Fabbricare cittadini felici”, NdT], che indaga su come le nuove discipline della “economia della felicità” e della “psicologia positiva” stiano servendo come nuovi meccanismi di controllo sociale. David Broder di Jacobin li ha intervistati per chiedere loro lumi su questo culto della “felicità”, su che tipo di cittadini stiamo diventando, e sui meno felici effetti del nuovo individualismo.
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DB: Un tema chiave del libro è l’auto-disciplina individuale che è intrinseca al culto della “felicità”. Vale a dire l’idea che l’unico modo per migliorare la nostra vita sia quella di produrre una versione migliorata di noi stessi. Dal punto di vista storico si tratta di un’idea nuova?
EC/EI: È solo vino vecchio in una botte nuova. Il nuovo culto della felicità è poco più del vecchio culto dell’individuo che si è costruito da sé [“self-made individual”, NdT] mascherato da scienza positiva con l’aggiunta di pretese di universalismo e neutralità. È un’idea che proviene da un’antica tradizione, profondamente convinta che la felicità e la sofferenza, la ricchezza e la povertà, la salute e la malattia, siano caratteristiche individuali, e che la chiave del successo risieda nel potere degli individui di risollevarsi, crescere nonostante le avversità e sviluppare il loro potenziale interiore.
Questa idea è stata diffusa da potenti istituzioni conservatrici, dalla cultura imprenditoriale e dalla letteratura sull’auto-aiuto durante il ventesimo secolo, e a partire dagli anni ’60 anche dai pensatori neo-liberali, specialmente negli Stati Uniti. Il campo della psicologia positiva è uno dei più recenti rappresentanti di questa tradizione individualistica.
Nonostante ciò, la comparsa di questo settore vent’anni fa apparve come quella di un vero innovatore, perché per la prima volta tutte queste assunzioni sembravano acquisire una legittimità scientifica. Questa è forse l’unica vera novità. Ma questo implica anche una differenza cruciale, non solo perché queste e simili idee sono prepotentemente entrate nell’ambito accademico – e dunque sono diventate materia di indagine scientifica – ma anche perché la ricerca della felicità si è trasformata da motto politico-ideologico quasi esclusivamente nord-americano a presunta questione “scientifica” di rilevanza mondiale.
Non di meno, la base scientifica che sta dietro alla psicologia positiva è stata messa seriamente in discussione. Numerose e importanti critiche sono state mosse alle fondamentali assunzioni teoriche in questo ambito, tra cui la decontestualizzazione e le pretese etnocentriche, la ipersemplificazione teorica, le tautologie e le contraddizioni, i limiti metodologici, i seri problemi di replicabilità dei risultati, le eccessive generalizzazioni e perfino l’efficacia terapeutica e lo status stesso di scientificità. Diventa quindi più che evidente che la psicologia positiva non può avere prosperato su basi esclusivamente scientifiche. Questa è una delle ragioni per le quali nel nostro libro forniamo le spiegazioni sociologiche ed economiche alla base dell’ampio successo di questo settore e delle sue idee.

DB: Voi descrivete la nascita di strumenti come il Rapporto mondiale sulla felicità dell’ONU e la Iniziativa per il miglioramento della vita dell’OCSE, che cercano di fornire indici quantitativi della felicità umana in vari ambiti. Queste iniziative potrebbero essere percepite come un modo di ampliare l’uso degli indicatori usati per determinare le priorità politiche, al di là degli indicatori strettamente economici quali il PIL. In che senso questi strumenti sono “ideologici”? Il problema risiede negli specifici indicatori su cui essi sono basati o sull’idea stessa di indici obiettivi e universali della felicità?
EC/EI: Entrambe le cose. Primo, le affermazioni degli “scienziati della felicità”, secondo cui la felicità sarebbe un bene auto-evidente in se stesso, così come gli obiettivi fondamentali che ciascuna società dovrebbe perseguire, sono assunti per principio più che dimostrati, sono assunzioni ideologiche dell’utilitarismo più che dati scientifici. Non c’è modo di dimostrare queste affermazioni: bisogna semplicemente prenderle per buone. Bisogna poi prendere per buono anche il fatto che la felicità sia una questione soggettiva e psicologica, indipendente da altri indicatori socioeconomici. Questo è un modo molto individualista di concettualizzare la felicità, e rappresenta precisamente il quadro teorico all’interno del quale la felicità viene “misurata”.
Non sorprende che gli esperti della felicità trovino spesso che, a dispetto di altri fattori politici e socioeconomici, l’individualismo è la variabile che è più fortemente associata alla felicità. Ma che cos’è la felicità? Non viene mai definita. A quanto pare la felicità è quella cosa che viene misurata dai questionari sulla felicità, e le domande poste da questi questionari riguardano solo atteggiamenti, sentimenti e percezioni, ma non condizioni sociali o economiche.
Per quanto riguarda i metodi, gli scienziati della felicità si basano soprattutto su misure auto-riportate di felicità, vale a dire chiedono direttamente alle persone quanto felici si sentono. Queste misure auto-riportate presentano dei problemi. Per esempio, non è chiaro se le misure della felicità siano realmente confrontabili tra individui diversi, tra paesi diversi, o perfino tra un individuo e se stesso in momenti diversi. Come facciamo a dire se un punteggio di 7 su 10 dato da qualcuno al questionario della felicità valga quanto un punteggio di 7 su 10 dato da un individuo diverso? Come facciamo a dire se un punteggio di 7 dato da un irlandese vale di più o di meno di un punteggio di 6 o 8 dato da un cambogiano o da un cinese? Un individuo che risponde con un punteggio di 5 è più felice di uno che risponde con un punteggio di 3? Ma di quanto? Qual è il significato di un punteggio di felicità di 10 su 10? Un altro problema è che questo metodo limita seriamente la varietà di risposte realmente informative che le persone possono dare rispetto alla propria felicità. Questo è importante, perché le domande a risposta chiusa rischiano non solo di orientare le risposte verso ciò che il ricercatore si aspetta di trovare, ma trascurano anche informazioni che sarebbero importanti nel momento in cui si cerca di applicare questi indici di felicità alle decisioni politiche.
Gli indicatori della felicità sono ideologici anche nel modo in cui vengono usati. Come dimostriamo nel libro, questi indicatori sono spesso serviti come copertura per nascondere difetti imporanti e strutturali del sistema economico e politico. Vale a dire, sono serviti spesso per mettere da parte e sviare l’attenzione da indicatori socioeconomici obiettivi e complessi sul benessere, quali la distribuzione del reddito, le disuguaglianze materiali, la segregazione sociale, le iniquità di genere, la salute della democrazia, la corruzione e la trasparenza, le opportunità reali e percepite, il sostegno sociale o il tasso di disoccupazione. Illustriamo questo punto con i casi esemplari di Regno Unito, Cile, India, Israele ed Emirati Arabi Uniti. In quest’ultimo caso la dice lunga il fatto che un paese caratterizzato da povertà diffusa, continue violazioni dei diritti umani, elevati tassi di malnutrizione, mortalità infantile e suicidi abbia adottato una “misura della felicità” come iniziativa principale per valutare l’impatto delle politiche nazionali. Forse lo hanno fatto perché gli Emirati Arabi Uniti vanno molto meglio negli indicatori di felicità che in qualsiasi altro dei fattori socioeconomici sopra menzionati, secondo il Rapporto mondiale sulla felicità dell’ONU, e appare tra i venti paesi più felici del mondo. Se la felicità fosse concettualizzata e misurata in modo diverso, ci troveremmo con risultati differenti.
Questi indicatori sono stati usati anche per regolare delicate questioni politiche ed economiche in un modo che si sostiene essere non-ideologico. La disuguaglianza è uno degli esempi più recenti e più chiari. Alcuni sostenitori della felicità affermano che la disuguaglianza di reddito sia più benefica per la felicità delle persone di quanto si sia pensato finora. Si sostiene che la disuguaglianza non sia accompagnata da una diminuzione delle opportunità, ma da un “fattore speranza”, in base al quale i poveri percepirebbero il successo dei ricchi come un presagio di opportunità future. Questo a sua volta dovrebbe risvegliare le speranze e la felicità, qui riferita alla maggiore motivazione che i poveri troverebbero in vista di una possibile prosperità. In che termini questo può essere visto come qualcosa di diverso da una serie di assunzioni ideologiche? A quanto dicono, le loro affermazioni sarebbero sostenute dai dati. Tuttavia, come Stevenson e Wolfers hanno mostrato rispetto alle relazioni tra felicità e reddito, lo stesso insieme di dati si presta a molte diverse interpretazioni e può portare anche a conclusioni del tutto opposte.
In definitiva, il problema principale degli indici di felicità non è che essi siano ideologici – a dire il vero, qualsiasi indice volto a misurare il progresso è ideologico, a partire dal concetto stesso di progresso. Il problema principale è che questi indici della felicità tentano di presentarsi come criteri obiettivi e neutrali, spogliati da qualsiasi contenuto morale, politico o ideologico. Come mostriamo nel nostro libro, questa presunta neutralità va rifiutata.

DB: Il libro discute l’ascesa della psicologia positiva alla fine degli anni ’90 su spinta dell’allora presidente dell’APA Martin Seligman. Si tratta di un progetto che descrivete in termini di un’epifania, una rivelazione quasi religiosa, come fosse una “rinascita”. I suoi sviluppi sono a loro volta legati all’avanzata dei libri e delle varie idee di “auto-aiuto” per la realizzazione del potenziale individuale. Cosa c’è di comune tra la psicologia positiva e l’industria dell’auto-aiuto da un lato, e i culti e l’evangelismo religioso dall’altro? Cosa dobbiamo pensare della sua pretesa “scientifica” di estendere la psicologia oltre il terreno della malattia mentale?
EC/EI: Sebbene gli psicologi positivi abbiano ripetutamente fatto sforzi per minimizzare il peso dell’etnocentrismo e delle radici spirituali, la verità è che le loro connessioni istituzionali e le loro affermazioni rivelano profonde assunzioni spirituali e religiose.
Non c’è forse istituzione che più della John Templeton Foundation – fondata nel 1978 dall’anziano presbitero, investitore finanziario e filantropo Sir John Templeton – abbia attivamente sostenuto l’unione di scienza e religione. In questo lo stesso Templeton ha investito centinaia di milioni di dollari. Il coinvolgimento finanziario di Templeton nella fondazione e nella diffusione della psicologia positiva è stato cruciale. La sola fondazione ha visto l’investimento di decine di milioni di dollari nei programmi di ricerca di psicologia positiva per lo studio della salute positiva, dell’istruzione positiva, della resilienza, della mindfulness, delle neuroscienze positive, della trascendenza, della spiritualità, della speranza, del perdono, del potere della volontà e della perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi, per citarne alcuni. Lo stesso Martin Seligman ha ripetutamente riconosciuto il ruolo cruciale della Templeton Foundation nel successo della psicologia positiva. Questo comprende l’istituzione del Centro per la psicologia positiva in Pennsylvania, la creazione di una rete istituzionale globale di riviste scientifiche e pubblicazioni, programmi di dottorato e corsi di laurea specializzati in corsi sulla psicologia positiva, simposi e laboratori, nonché generose borse di studio e premi per ricercatori sia giovani che senior sotto il nome di Templeton Prize for Positive Psychology, considerato il più ricco riconoscimento monetario al mondo assegnato in ambito psicologico.
Da questo punto di vista, per esempio, una delle principali linee di ricerca, coordinate da Seligman e sviluppate da George Vaillant, ha due obiettivi fondamentali. Primo, combinare l’integrazione dei vari risultati provenienti dall’antropologia culturale, dalle neuroscienze e dalla biologia evoluzionistica con lo studio delle biografie di individui che riflettono profonde componenti spirituali. Secondo, indagare il ruolo della spiritualità nella vita di successo. Molti altri psicologi positivi hanno difeso attivamente l’importanza della relazione tra spiritualità, salute e felicità.
Per esempio, nel suo libro “The How of Happiness: A New Approach to Getting the Life You Want” (“Il come della felicità: un nuovo approccio per ottenere la vita che vuoi”, ndt) Sonja Lyubomirsky afferma che le persone religiose sono più felici, più sane e recuperano prima dai traumi rispetto alle persone non religiose. Lyubomirsky trascura l’evidenza che mostra che la maggiore felicità delle persone religiose è mediata dal mutuo sostegno, dal senso di comunità e dalle cure istituzionali, e difende invece la spiritualità e la religione come una questione strettamente individuale, affermando che semplicemente attraverso la fede religiosa le persone possono aumentare la propria salute e la propria felicità. A questo proposito non sorprende che esercizi come contare le benedizioni, scrivere lettere di perdono, esprimere gratitudine o praticare regolarmente la meditazione siano tra i più frequenti rimedi che la psicologia positiva offre ai problemi della gente, presentati come chiavi psicologiche per una vita più piena e di successo. Questi sono solo alcuni esempi, ma ce ne sarebbero molti altri. Simili affermazioni vengono fatte anche dalla letteratura sull’auto-aiuto.

DB: Voi citate Margaret Thatcher come esempio del fatto che il neo-liberalismo non è solo un progetto economico, ma un progetto che usa l’economia per rimodellare i pensieri e i sentimenti delle persone. In effetti l’idea di “auto-aiuto” sembra rappresentare un’ideologia potentemente individualizzante, che scarica sull’individuo stesso tutta la responsabilità delle sue scelte e delle sue possibilità nella vita. Se siete infelici non è colpa della società, è solo colpa vostra. Quali connessioni ci sono tra la “economia della felicità”, la psicologia positiva e l’industria dell’auto-aiuto da un lato, e le forze politiche organizzate, quali ad esempio i think tank neo-liberali, dall’altro?
EC/EI: Ci sono due connessioni principali. La prima è politica e fa riferimento al fatto che molti psicologi positivi ed economisti della felicità, tra cui ovviamente le figure leader, non sono semplici ricercatori, ma occupano importanti posizioni di potere e di influenza. Non si tratta solo dell’ambito accademico, ma anche dell’influenza economica e delle istituzioni sociali globali. Alcuni vengono chiamati come consiglieri in materia economica o di istruzione. Molti altri vengono frequentemente ingaggiati da grandi aziende e alcuni sono perfino a capo di iniziative di alto profilo nell’esercito statunitense.
La seconda connessione è di tipo ideologico. Consideriamo ad esempio l’ambito dell’istruzione. Gli “educatori positivi” lavorano su due precetti principali: primo, che promuovere le “abilità psicologiche della felicità” nei giovani non è solo un obiettivo desiderabile per se stesso, ma anche un mezzo importante per la prevenzione della psicopatologia, una strada verso un migliore apprendimento e un maggiore successo accademico; secondo, che i fattori psicologici sono fondamentali per il successo scolastico, più di quanto lo siano i fattori sociologici o contestuali. Negli anni tra il 2008 e il 2018 la “istruzione positiva” si è progressivamente stabilita come priorità in ambito scolastico in molti paesi del mondo. Sono emerse un numero crescente di associazioni private e pubbliche, think tank, consulenti e reti globali volte a persuadere i decisori politici a modificare le modalità educative di modo che i professionisti vengono incoraggiati, ovunque nel mondo, a educare il carattere al benessere psicologico. Questo, per esempio, è il caso dell’International Positive Education Network creato nel 2014.
Queste iniziative hanno bisogno di sostegno scientifico, e il ruolo degli psicologi positivi e degli economisti della felicità da questo punto di vista è fondamentale. Questi ultimi hanno sostenuto che l’istruzione positiva implichi un cambiamento rivoluzionario nel modo in cui gli studenti dovrebbero essere istruiti ed educati, mettendo in luce le ragioni di un’istruzione rivolta alla felicità non solo al fine di migliorare l’istruzione, ma anche l’economia. Affermano che ri-orientare le istituzioni scolastiche verso l’istruzione positiva, cambiando gli atteggiamenti di insegnanti, studenti e genitori offrirebbe alternative più economiche per la soluzione dei problemi scolastici. Gli psicologi positivi sostengono che la felicità dovrebbe essere insegnata nelle istituzioni scolastiche come antidoto alla depressione e come veicolo per aumentare la soddisfazione nella vita e come aiuto per il pensiero creativo.
A dire la verità, non c’è evidenza scientifica a sostegno delle affermazioni secondo le quali l’istruzione positiva funzionerebbe nel senso di migliorare gli standard, con risultati scolastici migliori e un migliore apprendimento da parte degli studenti. Al contrario, numerose rassegne critiche, articoli e meta-analisi mettono in luce le gravi limitazioni e i problemi dell’istruzione positiva in termini sia teorici che metodologici, riferendosi alla mancata replicabilità dei risultati e di studi comparativi, all’insufficiente evidenza empirica, a risultati scientifici deboli o che mostrano addirittura esiti controproducenti. Quindi, una volta ancora, sembra che il successo di queste idee sia più legato a ragioni ideologiche che alla qualità della ricerca.

DB: Voi riportate la formula della felicità postulata da Seligman, secondo la quale i fattori genetici contribuiscono per il 50 per cento a determinare la nostra felicità, quelli cognitivi, emotivi, e le nostre scelte per il 40 per cento, e i fattori esterni quali l’istruzione e le risorse materiali solo per il 10 per cento. Questo sembra ovviamente negare l’importanza delle condizioni sociali nel determinare la nostra felicità. Ma cosa ci dite delle basi ideologiche di questa formula, che attribuisce così tanta importanza non solo alle nostre scelte soggettive, ma anche alle basi genetiche?
EC/EI: Il tempo ha mostrato che questa cosiddetta formula non ha alcuna validità scientifica. Perfino gli psicologi positivi l’hanno ritrattata.
Da un lato, però, legare la felicità alle basi genetiche individuali ha funzionato bene, non solo per passare sugli studi sulla felicità una verniciata di “scienza dura”, ma anche per differenziare ciò che l’ambito può offrire da ciò che altri scrittori dell’auto-aiuto ed esperti della felicità (consulenti, motivatori) possono offrire.
Dall’altro lato, legare la felicità alle basi genetiche era un altro modo per sottolineare l’idea principale di fondo, quella secondo cui i fattori non-individuali giocano un ruolo complessivamente insignificante nel benessere delle persone (appena il 10 percento). Insomma, minimizzare – se non negare completamente – il ruolo delle circostanze oggettive nel determinare la felicità delle persone è stato uno dei marchi di fabbrica di questa disciplina fin dalle origini.
Tuttavia, se ciò che dicono gli psicologi positivi fosse vero, ne dovrebbe seguire direttamente una conclusione: perché dare la colpa alle strutture sociali, alle istituzioni o alle misere condizioni di vita quando le persone hanno sentimenti di depressione, stress o ansia per il proprio futuro? Perché riconoscere che condizioni di vita privilegiate fanno sì che le persone si sentano e vivano bene? Non si tratta forse di un altro modo per giustificare l’assunzione meritocratica secondo la quale, dopotutto, ognuno ha quello che si merita? In fondo, se i fattori non-individuali sono praticamente esclusi dalla formula, che altro resta se non il merito, lo sforzo, la tenacia, a spiegare perché le persone sono felici o infelici?

DB: Voi parlate di “capitale psicologico” e dell’imperativo di mantenere un ottimismo costante come base per il progresso di ciascuno come “imprenditore di se stesso”. Ma se queste sono forze disciplinanti, volte a modellare i cittadini neo-liberali che vedono se stessi solo come individui sul mercato, ci servono allora forme alternative di ottimismo collettivo – come la fiducia, portata avanti storicamente dal movimento socialista, nel fatto che possiamo realmente scegliere il percorso della felicità, però non su base individuale? O dobbiamo fare una critica più generale alla felicità stessa come obiettivo?
EC/EI: Uno dei punti principali che sviluppiamo nel libro è la relazione tra la felicità, la gestione aziendale, l’imprenditorialità e il lavoro. Sviluppiamo l’argomento secondo il quale la felicità è diventata una strategia utile a giustificare le gerarchie organizzative implicite di controllo e di sottomissione alla cultura aziendale.
Laddove i posti di lavoro promettono maggiore responsabilizzazione ed emancipazione dal controllo aziendale, un’occhiata più attenta alle realtà organizzative mostra che la promozione della “felicità nel lavoro” è stata particolarmente efficace proprio a ottenere l’opposto. La felicità nel lavoro è tornata comoda, in realtà, per spingere il peso della responsabilità più in basso nella gerarchia, rendendo i semplici impiegati responsabili dei propri successi e dei fallimenti, ma anche di quelli della loro azienda. La felicità nel lavoro si è dimostrata conveniente per chiedere ai lavoratori più impegni e più prestazioni, spesso in cambio di ricompense comparativamente inferiori. È servita per togliere l’accento dalle condizioni oggettive del lavoro – incluso il salario – nel momento in cui i lavoratori valutavano la propria soddisfazione. È servita per incoraggiare gli impiegati ad agire autonomamente nel momento in cui vengono costretti a conformarsi alle aspettative aziendali, a identificarsi nei valori dell’azienda e a dimostrare acquiescenza e conformismo alle norme aziendali.
Cosa più importante, la felicità nel lavoro si è dimostrata utile a rendere più tollerabili o perfino accettabili ai lavoratori le contraddizioni e l’auto-sfruttamento che si attuano nel lavoro. Dai lavoratori oggi non ci si aspetta più soltanto che si adattino flessibilmente e con i propri mezzi a richieste in continuo cambiamento e alle necessità dell’azienda, che facciano fronte personalmente alle circostanze avverse, alle inevitabili sconfitte e a carichi di lavoro crescenti, che adottino ruoli più attivi, più creativi e auto-diretti nelle proprie mansioni. Ci si aspetta anche che amino quello che fanno e che lo vedano non come una necessità, ma come una fonte di piacere e di auto-realizzazione. Ad ogni modo, se i lavoratori non sembrano avere beneficiato granché da tutta questa promozione della felicità nel lavoro, ne hanno certamente beneficiato le aziende.
Se dobbiamo proprio dire la verità, quello che fa felici le aziende non è lo stesso che fa felici i lavoratori. Questo non significa che le aziende non debbano preoccuparsi dei propri dipendenti. Ma sarebbe ingenuo pensare che i meccanismi di controllo siano scomparsi dalla sfera organizzativa. Sono solo stati internalizzati.
Detto questo, e considerando l’insieme, se alla fine scoprissimo che la felicità è quella cosa che le aziende, gli alfieri neo-liberali e l’enorme industria della felicità trovano così utile ai propri scopi, allora la risposta alla domanda sarebbe che la ricerca della felicità ci chiede troppo in cambio, e che probabilmente prima o poi si ritorcerà contro i più vulnerabili. Se invece scoprissimo che la felicità non è questo – e che le aziende, gli alfieri neo-liberali e l’industria della felicità si sono solo appropriati di una parola a proprio vantaggio – allora non dobbiamo abbandonare la felicità, ma ripensarla in una prospettiva più sociale e culturale.
Certo, abbiamo bisogno di speranza e di obiettivi che meritino di essere raggiunti. Ma ne abbiamo bisogno senza quell’ottimismo tirannico, sordo, conformista e quasi religioso che ci propinano assieme alla felicità. Abbiamo bisogno di un tipo di felicità basata sull’analisi critica, la giustizia sociale e l’azione collettiva, non di una felicità paternalistica che decide per noi quello di cui abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di una felicità che non si ritorca contro i più vulnerabili. Abbiamo bisogno di una felicità che non consista in un’ossessione verso la nostra interiorità e il sé, perché l’interiorità non è dove vogliamo costruire e trascorrere la nostra vita, e non è certo il posto dove riusciremo a ottenere dei cambiamenti sociali significativi.

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