mercoledì 1 luglio 2020

TEORIA DELLE CLASSI SOCIALI OGGI. D. MORO, Le classi sociali in Europa e in Italia, SINISTRAINRETE, 29 giugno 2020

La teoria delle classi sociali nel marxismo
L’analisi delle classi sociali è pochissimo trattata. Ciò non può stupire da parte dell’economia e della sociologia mainstream, perché l’interesse a indagare la composizione di classe è considerato poco utile e soprattutto non funzionale. Il pensiero dominante tende, quindi, a rimuovere le classi sociali o a considerare la suddivisione della popolazione in classi solamente in base al livello di reddito o allo status. Sebbene il reddito percepito sia importante ai fini di una analisi delle classi sociali, una analisi delle stesse non può partire da quello, bensì dalla posizione occupata nei rapporti di produzione del capitalismo. Ciò che, invece, stupisce maggiormente è la scarsa considerazione di una analisi della composizione di classe fra la sinistra radicale. In questo caso, il limite è dovuto al frequente concentrarsi sull’immediato, che si traduce in politicismo e tatticismo elettoralista.


L’analisi della composizione di classe è, invece, necessaria se vogliamo operare in senso strategico, cioè per modificare sulla lunga distanza i rapporti di forza fra le classi e se si vuole radicarsi politicamente negli strati della popolazione che sono più interessati al cambiamento sociale.
L’analisi della composizione di classe fa parte di quel processo analitico di discesa dal modello astratto – rappresentato dal modo di produzione – alla formazione economico-sociale, che rappresenta la concretizzazione storica e spaziale dei rapporti di produzione capitalistici.
Il capitale di Marx prende in considerazione le due classi sociali essenziali dal punto di vista del funzionamento del capitale, i capitalisti, ossia i possessori di denaro, e i lavoratori salariati, ossia i possessori di forza lavoro. Nello scambio tra denaro, divenuto capitale nel momento in cui lo si investe, e forza lavoro si produce il plusvalore, cioè quel valore nuovo determinato dal lavoro non pagato al  lavoratore e su cui si basa l’accumulazione capitalistica.
Molti, a causa del processo di delocalizzazione della produzione manifatturiera, della terziarizzazione, dell’introduzione delle moderne tecnologie dell’automazione e dell’ICT, hanno voluto vedere la riduzione della quantità e conseguentemente dell’importanza politica della classe lavoratrice intesa in senso marxiano nei Paesi a capitalismo avanzato, quelli del centro dell’economia-mondo. A questo proposito vanno fatte tre precisazioni, riprendendo Marx. In primo luogo, bisogna dire che il lavoro produttivo di plusvalore non si esaurisce nel classico lavoro operaio di fabbrica, né si concretizza necessariamente in una merce materiale, ma può concretizzarsi anche in merci immateriali. Lo stesso Marx, quando parla di lavoro produttivo di plusvalore, prende come esempio non il classico operaio di fabbrica, bensì il maestro di scuola[1]. Se il maestro lavora in una scuola privata egli produce plusvalore per il capitalista proprietario della scuola. In sostanza, il lavoratore per essere produttivo di plusvalore deve produrre una merce, non importa se materiale o immateriale, ed essere dipendente da un capitalista. In questo senso il maestro di una scuola pubblica[2] o un maestro che impartisce lezioni privatamente non sono produttivi di alcun plusvalore, il primo perché non produce una merce venduta sul mercato per il profitto e il secondo perché non scambia lavoro contro capitale ma contro il reddito che egli riceve direttamente dal suo studente-cliente.
In secondo luogo, lo stesso Marx afferma che lo sviluppo del capitalismo, da una parte, tende a produrre con il minor impiego possibile di forza lavoro e, dall’altra parte, ad impiegare il maggior numero possibile di forze di lavoro nel suo complesso.
In sostanza, diminuiscono i lavoratori produttivi impiegati dal singolo capitale ma aumentano i lavoratori produttivi impiegati complessivamente dal capitale. Infatti, come rilevava già lo stesso Marx, lo sviluppo della grande industria comporta lo sviluppo di nuovi settori dell’economia, oggi ad esempio l’ICT, la logistica, i trasporti, il turismo e il terziario in genere. I lavoratori di questi settori sono produttivi di plusvalore se aggiungono valore, cioè se incorporano il proprio lavoro nelle merci prodotte sotto il comando di un capitalista. I lavoratori addetti a rifare le stanze di un albergo o gli addetti alla cucina di un ristorante sono in questo senso produttivi di plusvalore come l’operaio di una fabbrica di auto o di scarpe. Lo stesso discorso si applica al trasporto di merci, alle quali viene aggiunto valore attraverso il trasporto da un luogo all’altro. Ma è produttivo anche l’autista di un autobus se questo lavora per una ditta privata il cui scopo è quello di produrre profitto o il lavoratore che produce un software per un capitalista che poi lo venderà ad un altro capitalista per far funzionare il suo impianto.
Quello che è importante, quindi, non è la materialità o meno della merce ma il rapporto di scambio, lavoro salariato contro capitale, allo scopo di realizzare un nuovo valore, un plusvalore. Dunque la figura dell’operaio produttivo va ben oltre la classica immagine della tuta blu di fabbrica, che pure, come vedremo, non solo non è scomparsa ma occupa sempre un posto importante nella composizione di classe.
In terzo luogo, Marx ci ricorda che, con l’aumento della produttività del lavoro salariato, aumentano anche quelle figure del lavoro salariato che, pur lavorando per un capitalista, non entrano direttamente nel processo di produzione della merce e non aggiungono valore alla merce modificandola intrinsecamente in qualche modo. Ad esempio, gli impiegati alla contabilità, al controllo di gestione, alle vendite, al marketing, alla pubblicità, ecc. non sono lavoratori immediatamente produttivi di plusvalore, pur essendo necessari al capitalista e al funzionamento della impresa e del capitale nel suo complesso. Si tratta di settori sempre più importanti. Pensiamo, ad esempio, ai lavoratori delle catene della grande distribuzione. Quindi, nei Paesi a capitalismo maturo riscontriamo un aumento dei settori in cui operano lavoratori produttivi di plusvalore e un aumento dei lavoratori non immediatamente produttivi di plusvalore, ma che ne permettono la realizzazione, attraverso la vendita o altre funzioni di supporto. Questi ultimi sono sfruttati nella misura in cui il capitalista tiene bassi i loro salari per risparmiare quote del plusvalore estratto dai lavoratori produttivi.
Altra questione centrale nell’analisi della composizione di classe è quella delle classi intermedie tra le due principali, lavoro salariato e capitalisti. Contrariamente a quanti hanno voluto vedere la visione marxiana della società limitata a sole due classi, Marx stesso sostiene che il processo di accumulazione capitalistico è caratterizzato dal “costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante classe lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti”[3]. Marx in questo caso fa riferimento alla burocrazia statale, alle forze armate e ai professionisti.
In altri testi, come nelle Lotte di Classe in Francia, Marx parla della classe intermedia dei contadini e della necessità da parte della classe operaia di stabilire una alleanza con essa.
La questione delle classi medie è spesso trattata in modo scorretto. Infatti, le classi intermedie sono state spesso intese sociologicamente come ceto medio, basandosi sulla variabile del reddito, e inserendovi strati della classe operaia e degli impiegati esecutivi. Pertanto, l’impoverimento crescente che si registra negli ultimi anni in queste ultime categorie ha fatto parlare di fine del ceto medio. Al contrario, come vedremo più avanti, il processo di modificazione, che il capitalismo attraversa durante la crisi, porta allo sviluppo di nuovi settori di classe media anche se, allo stesso tempo, travolge quelli vecchi, riducendone il numero.
L’analisi di Marx sulle classi intermedie, e in particolare sui contadini, sarà ripresa da Lenin, che la pone, tra altre questioni, alla base della strategia rivoluzionaria dell’Ottobre mediante l’inglobamento delle rivendicazioni contadine nel programma rivoluzionario bolscevico. Successivamente all’Ottobre, Lenin ricorda, in particolare ai rivoluzionari occidentali, che la questione del ceto medio o delle classi intermedie e quella della stratificazione del lavoro salariato sono centrali, per l’impostazione di una corretta strategia politica da parte del partito.
Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato <<puro>> non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra proletario e semiproletario (colui che si procura di che vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza lavoro), tra il semi proletario e il piccolo contadino), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno al proletariato stesso non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per la religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità […] per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere.”[4]
Un discorso a parte va fatto a proposito dei manager. Già Marx aveva osservato che, con lo sviluppo del capitalismo e della grande industria, il “capitalista operante” tende a lasciare il ruolo di direzione del processo di produzione del plusvalore a figure ad hoc, i manager, divenendo semplice “capitalista monetario”. I manager svolgono in forma delegata, quindi, il ruolo del capitalista contrapponendosi al lavoratore salariato. La categoria dei manager è abbastanza variegata. Alcuni di essi, soprattutto quelli in posizione apicale, come gli amministratori delegati e quelli che siedono nel Consiglio d’amministrazione, derivano il loro reddito non solo dallo stipendio ma direttamente dal capitale, essendo pagati con azioni dell’azienda stessa (stock option). Altri, sempre con incarichi operativi, fanno parte delle famiglie proprietarie dell’impresa o del gruppo.

Le modificazioni del lavoro dipendente e indipendente dopo la crisi del 2008
Le statistiche ufficiali non seguono le classificazioni marxiste e i dati che traiamo dagli istituti di statistica devono essere intesi come proxy, che ci permettano di avvicinarci alla realtà effettiva. I dati che riportiamo qui di seguito descrivono la situazione dei lavoratori dipendenti e indipendenti. Numerose sono le differenze qualitative all’interno delle due categorie, visto che nella prima ci sono figure manageriali e figure meramente esecutive e manuali e nella seconda troviamo sia imprenditori, sia lavoratori autonomi “puri”, sia “false partita Iva” o dependent contractor, come preferiamo chiamarli. I dati si riferiscono al periodo che è successivo alla penultima crisi, scoppiata nel 2008, e immediatamente precedente all’ultima crisi, quella del covid-19, che non mancherà di incidere ulteriormente sulla composizione delle classi.
Riteniamo, però, che mentre alcune tendenze evidenziate nel periodo tra 2008 e 2019 si ridimensioneranno, altre tendenze con la nuova crisi si accentueranno, dal momento che il capitale cercherà di utilizzare la crisi come occasione per portare a termine la sua ristrutturazione.
Nella Ue a 27, tra 2008 e 2019, i lavoratori dipendenti crescono da poco più di 160 milioni a 169,4 milioni (+5,9%)[5]. Al contrario i lavoratori indipendenti calano da 21,5 milioni a 21 milioni (-2,4%)[6]. La flessione è dovuta in gran parte ai lavoratori indipendenti con dipendenti (datori di lavoro) che passano da 9,2 a 8,5 milioni (-7,5%), mentre i lavoratori indipendenti senza dipendenti (autonomi) calano in misura più modesta, passando da quasi 19,9 milioni ai quasi 19,5 milioni (-2,1%).
Tra i Paesi maggiori della Ue (Germania, Francia, Italia e Spagna) l’aumento maggiore dei lavoratori dipendenti si registra nella Germania, che passa dai 34 ai 38,2 milioni (+12,4%), seguita dall’Italia, che passa dai 17,2 ai 18 milioni (+4,8%), dalla Francia (+2,9%), e dalla Spagna, l’unica a registrare un decremento (-1,1%). Per quanto riguarda gli indipendenti, troviamo una situazione differenziata. La Francia è l’unico paese che li aumenta e in modo considerevole, passando da 2,5 a 3,2 milioni (+24%) anche se in valore assoluto rimane al di sotto dell’Italia, che scende da 5,3 milioni a 4,9 milioni (-9,1%). La Germania cala del -5,7% e la Spagna registra il maggior decremento con -10,8%. Tra gli indipendenti con dipendenti (datori di lavoro) tutti i Paesi segnalano cali consistenti. I maggiori sono registrati dalla Spagna (-18,3%), e dall’Italia che scende da quasi 1,6 a meno di 1,4 milioni (-13,5%). La Francia cala del 3,9% e la Germania del 2,5%. Tra gli indipendenti “puri” (i lavoratori autonomi) la Francia cresce notevolmente (+49,6%), mentre tutte  le altre aree registrano un decremento. Il maggiore decremento si registra in Germania (-8,4%), seguita dall’Italia che passa da 3,8 a 3,6 milioni (-7,3%) e dalla Spagna (-6,8%).
Un altro aspetto di particolare interesse è rappresentato dalla composizione di dipendenti e indipendenti per settore di attività. Nella Ue a 27, per quanto riguarda i dipendenti, decrementi a due cifre sono registrati nel settore minerario e nelle costruzioni, mentre la manifattura, pur calando da 32,2 a 30,5 milioni (-5,3%), rimane il settore più importante (18% sul totale dei dipendenti), seguito dal commercio (13,5% sul totale). I settori che crescono maggiormente sono quelli del terziario, in particolare quello avanzato, il turismo (alloggio e ristorazione), le attività professionali e scientifiche, l’ICT, le attività amministrative e di supporto e la salute e assistenza sociale. Bisogna, inoltre, considerare che la diminuzione della manifattura dipende anche dall’esternalizzazione di alcune funzioni, il che spiega la crescita sostenuta delle attività professionali e scientifiche e di quelle amministrative e di supporto alle imprese.
Per quanto riguarda i singoli Paesi, è interessante osservare che nella manifattura la Germania rimane quasi stabile (-0,4%), con una quota sul totale dei lavoratori dipendenti del 20,2%, e l’Italia presenta una limitata contrazione (-1,8%), passando da 3,9 a 3,8 milioni e detenendo una quota sul totale dei dipendenti (21,4%), che è maggiore degli altri paesi considerati e superiore alla media europea. Sempre nella manifattura, la Spagna e la Francia registrano un decremento a due cifre, rispettivamente -13,7% e -14,8%, con quote sul totale rispettivamente del 13,6% e del 12,6%.  Sia in Italia che in Germania la manifattura è il settore con più dipendenti, mentre in Francia è seconda dopo il settore della salute e dell’assistenza sociale (14,8%), e in Spagna è seconda dopo le costruzioni (14,2%). Andando più nel dettaglio, per quanto riguarda l’Italia, dopo la manifattura, i dipendenti si concentrano nel commercio (11,6%), nella salute e assistenza sociale (8,9%), nell’educazione (8,3%) e nella pubblica amministrazione e difesa (6,9%). È da segnalare che i dipendenti italiani nell’ICT sono sensibilmente inferiori a quelli degli altri Paesi e rappresentano una quota più piccola sul totale (2,7%) anche se crescono del +18,6%, meno della Francia, ma più della Germania e della Spagna. Nelle attività professionali e scientifiche si riscontra una crescita molto più bassa di quella degli altri Paesi (+1,9%) cui fa riscontro anche la quota sul totale più bassa (3,5%).
Per quanto riguarda la composizione per settori dei lavoratori indipendenti, vediamo che la categoria degli indipendenti con dipendenti (datori di lavoro) nella Ue si concentrano nel commercio (20,7% sul totale), nelle costruzioni (13,0%), nella manifattura (10,6%), nell’alloggio e ristorazione (10,6%),  e nella attività professionali e scientifiche (10,2%). I maggiori decrementi si registrano nel minerario (-40,7%), nella manifattura (-24,8%), nelle costruzioni (-18,3%) e nel commercio (-16,3%). I maggiori incrementi si registrano nel settore finanziario e assicurativo (32,7%) e nelle attività amministrative e di supporto (22%). Fra gli indipendenti senza dipendenti (lavoratori autonomi) la quota maggiore è quella del commercio (13,8%), delle attività professionali e scientifiche (13,7%) e dalle costruzioni (10,8%). Le contrazioni maggiori si registrano nel commercio (-15,3%) e nella manifattura (-11,3%).
Per quanto riguarda i singoli Paesi, fra i datori di lavoro prevalgono il commercio in Germania (15,6% sul totale), in Francia (18,8%) e in Spagna (23,4%). Fra gli autonomi prevalgono le attività professionali e scientifiche in Germania (16,4%), il commercio in Spagna (22%), dove è di gran lunga il settore con più addetti, e l’agricoltura in Francia (13,2%). Come abbiamo visto in precedenza, la Francia è l’unico Paese con un forte incremento di autonomi, che risulta dovuto in gran parte alle attività professionali e scientifiche (+113%) e alle costruzioni (+53%).
Per quanto riguarda l’Italia, anche nel nostro Paese fra i datori di lavoro prevale il commercio (22,7%), seguito dall’alloggio e ristorazione (14,8%) e dalle costruzioni (10,4%). A subire i maggiori decrementi sono le costruzioni (-40,6%), il trasporto e il magazzinaggio (-23,0%) e le attività professionali e scientifiche (-21,3%). Registrano invece gli incrementi maggiori l’agricoltura (+20,6%), l’alloggio e la ristorazione (+17,7%) e le attività amministrative e di supporto alle imprese (+13,5%). Fra gli autonomi prevalgono il commercio (21,4% degli addetti sul totale), seguito dalle attività professionali e scientifiche (21%) e le costruzioni (9,6%). I maggiori decrementi, tra i settori numericamente più importanti, sono registrati dal trasporto e magazzinaggio (-26,4%) e dalle costruzioni (-21,5%). Viceversa gli incrementi maggiori, sempre fra i settori numericamente più importanti, sono registrati dalla salute e assistenza sociale (+37,1%) e dalle attività professionali e scientifiche (+15,6%).

I dependent contractor
L’Italia presenta un numero di indipendenti maggiore di quello degli altri stati europei, collocandosi al terzo posto, dopo Grecia e Romania, soprattutto per l’elevata presenza degli indipendenti senza dipendenti, invece gli indipendenti con dipendenti mostrano una distribuzione più equilibrata fra i vari Paesi europei.
L’aggregato statistico del lavoro indipendenti comprende un’ampia gamma di figure: imprenditori, lavoratori in proprio, professionisti, ecc. Negli ultimi anni la statistica ufficiale si è resa conto che la distinzione tra dipendenti e indipendenti non sempre risponde alla realtà. Infatti, l’International Labour Organization (ILO) ha approvato una nuova classificazione dello status dell’occupazione che rivede i confini tra lavoro dipendente e indipendente individuando la nuova figura del dependent contractor.
dependent contractor sono “dipendenti mascherati”, formalmente autonomi ma di fatto vincolati da rapporti di subordinazione con un’altra unità economica (cliente o committente) che ne limita l’accesso al mercato (il prezzo è fissato dal cliente o da terze parti) e l’autonomia organizzativa. Nei primi tre trimestri del 2019 l’Istat ha calcolato che su 3,93 milioni di indipendenti senza dipendenti i dependent contractor sono 452mila, pari all’11,5% del totale[7].
Fra le varie tipologie di indipendenti, i dependent contractor hanno la maggiore quota di donne e di giovani fra i 15 e i 34 anni. La monocommittenza costituisce una caratteristica essenziale dei dependent contractor. Inoltre, essi sono soggetti a più vincoli organizzativi, quali il lavorare presso il cliente/committente o il dover rispettare dei vincoli nell’orario di lavoro. Le professioni non sono quelle tipiche del lavoro indipendente, ma configurano piuttosto una domanda di lavoro che mira a esternalizzare funzioni marginali o collaterali della produzione, scaricando su questi lavoratori una parte del rischio d’impresa. Tra le professioni più diffuse ci sono: gli agenti o rappresentanti di commercio, le professioni sanitarie o riabilitative e quelle infermieristiche, gli istruttori di discipline sportive, gli autisti di taxi o conduttori di automobili e furgoni, gli addetti all’informazione nei call center, i tecnici della gestione finanziaria, ecc.

Gli imprenditori in Italia
Le statistiche Eurostat non distinguono gli imprenditori veri e propri all’interno degli indipendenti con dipendenti. Eppure si tratta di una categoria importante, addirittura decisiva nella nostra analisi della composizione di classe, dal momento che gli imprenditori, insieme ai lavoratori salariati occupati nell’accumulazione del capitale, rappresentano le due classi principali della formazione economico-sociale.
Per ottenere i dati relativi agli imprenditori dobbiamo ricorrere a un’altra fonte, l’Istat, che, all’interno degli indipendenti con dipendenti distingue tra imprenditori, professionisti con dipendenti e lavoratori in proprio con dipendenti. Gli imprenditori tra 2008 e 2019 passano da 283mila a 272mila (-3,6%), rappresentando una quota degli occupati di appena l’1,2%. I professionisti con dipendenti passano da 210mila a 203mila (-3,4%), e, infine i lavoratori in proprio con dipendenti passano da 1.104 a  919mila (-16,8%)[8].

I dipendenti per tipologia di professione
In Italia i lavoratori dipendenti rappresentano di gran lunga la maggior parte degli occupati. Essi sono passati, tra 2008 e 2019, dai 17,2 milioni a quasi 18,1 milioni, ossia dal 74,5% al 77,1% del totale. I datori di lavoro calano dal 6,9% al 6,1%, mentre i lavoratori in proprio calano dal 16,8% al 15,7% e i collaboratori familiari scendono dall’1,7% all’1,2%[9]. totale occupati.
Nella massa dei dipendenti, quindi, è importante andare a fare una analisi più dettagliata per tipologia professionale, anche perché vi si trovano settori molto diversi, dirigenti, quadri e subordinati e lavoratori ad alta, media e bassa professionalità. Per fare questa analisi ci serviamo della classificazione dell’ILO Isco-08, recepita nelle indagini Eurostat[10], che prevede dieci tipologie professionali, basate su quattro livelli di competenze, dal più basso (1) che prevede una istruzione elementare e lo svolgimento di attività semplici e di routine fisiche o manuali, fino al più alto (4) che prevede un titolo di laurea o di dottorato e richiede competenze adatte alla risoluzione di problemi e a prendere decisioni, basate su un bagaglio teorico ampio in un campo specifico.
Tab.1 – Classificazione in base alle professioni dei lavoratori dipendenti in Italia (anni 2008 e 2019)
Classificazione delle professioni  (Isco-08)20082019 variaz. 2008/2019 su tot. 2008su tot. 2019
 in migliaiain %
Professioni tecniche   3.835   3.166-17,522,317,5
Professioni qualificate nel commercio e nei servizi   2.213   3.13241,512,917,4
Professioni esecutive nel lavoro d’ufficio   2.520   2.6575,514,614,7
Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione   1.542   2.50662,59,013,9
Professioni non qualificate   1.907   2.36924,211,113,1
Artigiani e operai specializzati   2.674   2.160-19,215,512,0
Conduttori di impianti, operai di macchinari e conducenti di veicoli   1.756   1.460-16,810,28,1
Forze armate      243      235-3,21,41,3
Alta dirigenza      374      210-43,82,21,2
Agricoltori      145      1482,40,80,8
Totale  17.209  18.0434,8100,0100,0
Fonte: Eurostat     

Tra 2008 e 2019 si assiste a una importante trasformazione della composizione del lavoro dipendente, dovuto alla sempre maggiore introduzione delle innovazioni scientifiche e tecnologiche nel processo produttivo industriale, specie manifatturiero, e allo sviluppo del terziario avanzato, come abbiamo visto in precedenza con la crescita, ad esempio, del settore delle attività amministrative e servizi di supporto alle imprese e di quelle legate alla sanità privata.
Infatti, la crescita maggiore è riscontrata dalle professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione, i professionals (livello 4 di competenze) (+62,5%). In pratica aumentano quadri e tecnici ad alta specializzazione rispetto alle figure classiche della classe operaia, che pure, insieme, raggiungono il 20% del totale. Forti contrazioni si registrano nelle professioni operaie; gli artigiani e operai specializzati sono la categoria che registra la maggiore flessione (-19,2%), seguita da quella dei conduttori di impianti, operai di macchinari fissi o mobili e conducenti di veicoli (-16,8%) (livello di competenze 2). Tuttavia, si deve anche riscontrare il forte aumento delle professioni del commercio e dei servizi (+41,5%) (livello di competenze 2) e delle professioni non qualificate (+24,2%) (livello di competenze 1), a testimonianza delle permanenza e anzi dell’allargamento di attività più esecutive, manuali e routinarie, pur a fronte delle trasformazioni tecnologiche in atto, cui si aggiunge l’aumento, sebbene più modesto, delle professioni esecutive nel lavoro d’ufficio (+5,5) (Tab.1).
La situazione italiana ricalca quella della Ue a 27 e di Francia e Germania, anche se in maniera meno marcata (Tab.2). Anche se la categoria delle professioni intellettuali e scientifiche registra in Italia una crescita più sostenuta (62,5%), rispetto a Ue a 27 (45,2%), Francia (40%) e Germania (40,2%), rappresenta una quota più piccola del lavoro dipendente con il 13,9% sul totale, contro il 19%, il 18,2% e il 16% rispettivamente di Ue a 27, Francia e Germania. Nel contempo le professioni non qualificate, che in Italia aumentano consistentemente, nelle altre aree geografiche diminuiscono, nella Ue a 27 (-1,5%) e in Francia (-1,3%), o aumentano, ma molto meno che in Italia, in Germania (+3,7%).
Tav. 2 – Classificazione in base alle professioni dei lavoratori dipendenti nella Ue a 27 (anni 2008 e 2019)
Classificazione delle occupazioni (Isco08)20082019 variaz. 2008/2019 su tot. 2008su tot. 2019
 in migliaiain %
Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione   22.193   32.21945,213,919,0
Professioni tecniche   28.757   29.6233,018,017,5
Professioni qualificate nel commercio e nei servizi   22.702   28.15624,014,216,6
Artigiani e operai specializzati   23.368   19.426-16,914,611,5
Professioni esecutive nel lavoro d’ufficio   19.378   18.264-5,812,110,8
Professioni non qualificate   17.212   16.953-1,510,810,0
Conduttori di impianti, operai di macchinari e conducenti di veicoli   16.063   14.499-9,710,08,6
Alta dirigenza     6.820     7.0843,94,34,2
Lavoratori qualificati in agricoltura     1.681     1.613-4,01,11,0
Forze armate     1.282     1.251-2,50,80,7
Totale  160.065  169.4565,9100,0100,0
Fonte: Eurostat     
 
Conclusioni
La crisi del 2008 e le trasformazioni tecnologiche dell’ICT e dell’automazione hanno portato ad alcune importanti modificazioni nella composizione di classe della società e in particolare di quella delle classi subalterne. Nella Ue a 27 e in Italia si assiste a un aumento del lavoro dipendente, mentre diminuiscono gli indipendenti, specialmente quelli con dipendenti.
Le classi medie sono interessate da un duplice mutamento. La ristrutturazione delle attività produttive, seguita alla crisi, ha portato alla diminuzione delle classi medie tradizionali. Infatti, a diminuire sono soprattutto gli indipendenti con dipendenti (datori di lavoro). Si tratta di artigiani, micro-imprese e piccole e medie imprese operanti nei settori tradizionali, come il commercio, la manifattura e le costruzioni, che hanno subito maggiormente la crisi e di cui la Lega esprime le istanze. Infatti, solo tra 2012 e 2019 le micro-imprese (fino a 9 addetti) diminuiscono di 111mila unità (-3,1%), su un totale di oltre 3,5 milioni di imprese[11].
La vera novità è che le innovazioni tecnologiche e la terziarizzazione del sistema produttivo producono nuove classi intermedie, che sono costituite da un pezzo del lavoro dipendente, in particolare dalle professioni intellettuali scientifiche e ad alta specializzazione, che poi sono quelle che, come abbiamo visto, presentano gli incrementi maggiori tra i dipendenti.
Questo segmento può essere identificato, almeno in  parte, con quello che si chiama il “ceto medio riflessivo” ed è la base sociale di massa di partiti come il Pd. Bisogna, però, chiarire che tra i professionals ci sono settori molto differenti tra di loro, per reddito, status e soprattutto capacità di svolgere ruoli direttivi ed effettivamente ad alta specializzazione. Al loro interno, per esempio, fra le professioni dedicate all’istruzione troviamo non solo professori universitari ma anche maestri di scuola elementare e, tra le professioni mediche, troviamo primari e infermieri professionali. Questo spiega, almeno in parte, l’aumento in percentuale così forte registrato dal settore dei professionals.
A questo punto ci possiamo porre la domanda più importante: chi sono e dove sono collocati i referenti sociali di organizzazioni politiche che intendano rappresentare istanze anticapitalistiche? La risposta deve essere articolata, perché la composizione delle classi subalterne e dei lavoratori salariati si è molto stratificata. Ad ogni modo, nel complesso le mansioni operaie si sono estese ben oltre la fabbrica e la manifattura e quelle impiegatizie (compresi i tecnici) sono aumentate. L’Istat, infatti, ci dice che le professioni operaie sono cresciute, tra 2008 e 2019 da 8 a 8,5 milioni di unità (+6,6%) e quelle impiegatizie sono passate da 7,23 milioni a 7,75 milioni di unità (+7,2%).
Quindi, entrando nella attuale stratificazione della classe lavoratrice, i referenti di classe possono essere individuati, in primo luogo, nella classe operaia tradizionale della manifattura, che, sebbene diminuita, continua a rappresentare il settore di attività con il numero più alto di dipendenti.
A questa si aggiungono i tecnici, che, sebbene siano diminuiti tra 2008 e 2019, rappresentano la categoria più numerosa, e soprattutto gli impiegati esecutivi e i lavoratori del commercio e dei servizi, entrambe categorie che sono cresciute, specialmente la seconda. Inoltre, c’è il settore dei lavoratori non qualificati, come ad esempio quelli delle pulizie, che, in Italia, come abbiamo visto, registra un aumento considerevole. Inoltre, non bisogna dimenticare le “false partite Iva” o, come le definisce l’Istat, i dependent contractor, di fatto non appartenenti ad alcun titolo alle classe medie ma facenti parte della classe salariata, i quali vivono una condizione particolarmente difficile.
Un discorso a parte meritano le vere classi intermedie, che come ricorda Marx, oscillano politicamente tra la classe operaia e i capitalisti. Spesso, come dimostra la storia del fascismo, questi settori hanno rappresentato la base di massa per la reazione, anche a causa di errori commessi dalle forze della classe lavoratrice.
Il compito di una organizzazione di classe è quello di non regalare questi settori alle forze di destra, sviluppando posizioni politiche e programmatiche rivolte verso i settori inferiori del lavoro indipendente, in particolare i lavoratori autonomi senza dipendenti. Ricordiamo che l’Italia è al terzo posto nella Ue a 27 come peso di questa categoria, che ha sempre rappresentato una valvola di sfogo alla disoccupazione.
La crisi attuale del covid-19 accentuerà alcune delle tendenze descritte sopra. L’interruzione forzata delle attività, da una parte, metterà in ginocchio molti lavoratori autonomi, e molte micro e piccole imprese, aumentando l’emorragia da questi settori già registrata nell’ultimo decennio. A essere colpiti saranno quei settori del terziario, come il turismo, che avevano registrato una crescita sostenuta nell’ultimo decennio. Dall’altra parte, la crisi del covid-19 ha stimolato e stimolerà ancora di più l’introduzione di muove tecnologie e di modalità innovative di lavoro, come lo smart working, che invece favoriranno la crescita, all’interno del lavoro dipendente, del settore dei professionals.

Note
[1] K. Marx, Il capitale, Newton Compton Editori, Roma 1996, pag. 372-373.
[2] La retribuzione dei lavoratori pubblici, come in questo caso del maestro di scuola pubblica, rientra nel risparmio del plusvalore complessivo. Meno vengono pagati questi lavoratori meno costa la riproduzione e la “conservazione” (vedi i costi della sanità) della forza-lavoro allo Stato e indirettamente ai capitalisti.
[3] K. Marx, Storia delle teorie economiche II, Giulio Einaudi editore, Milano 1977, p. 634.
[4] Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p.115.
[5] Eurostat. Employees by sex, age and economic activity (from 2008 onwards, NACE Rev. 2) – 1 000 [lfsa_eegan2].
[6] Eurostat. Self-employment by sex, age and economic activity (from 2008 onwards, NACE Rev. 2) – 1 000 [lfsa_esgan2]
[7] Istat, Il mercato del lavoro nel 2019. Una lettura integrata.
[8] I.Stat, Lavoro e retribuzioni, Occupazione, Occupati, Profilo professionale.
[9] Nostre elaborazioni su dati Ilo.
[10] Eurostat, Employees by sex, age and occupation (1 000) [lfsa_eegais]
[11] Annual enterprise statistics by size class for special aggregates of activities (NACE Rev. 2) [sbs_sc_sca_r2]. Non sono incluse le attività finanziarie e assicurative.

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