domenica 19 settembre 2021

SOCIOLOGIA DELLA POLITICA. M. MAGATTI, È pericoloso fare politica cavalcando la paura, CORRIERE.IT, 18 settembre 2021

 Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, l’evidenza ci dice che, anche nelle società avanzate, le emozioni contano tanto quanto (e in alcuni casi più) degli argomenti razionali. In particolare, la paura rimane una chiave preziosa per comprendere le dinamiche della vita sociale contemporanea.


La cosa non dovrebbe sorprendere: in una società presa nella spirale di una trasformazione continua e accelerata e (di conseguenza) esposta a forti shock (per esempio il terrorismo, la crisi finanziaria, il Covid, etc.), ci ritroviamo spesso in situazioni che non conosciamo e che, rimettendo in discussione le nostre certezze, presentano un tratto minaccioso. La sedimentazione del cambiamento ha i suoi tempi che non possono essere compressi più di tanto.

Come vediamo con le resistenze ai nuovi vaccini usati per combattere il Covid, la paura costituisce un effetto collaterale non trascurabile dell’innovazione. Anche perché, nella realtà dei fatti, anche i sistemi più avanzati hanno mostrato di essere ben più vulnerabili di quanto di solito non si voglia ammettere.

La lezione di questi anni è che i discorsi razionali su progresso, innovazione, scienza, crescita tendono a sottovalutare i lati oscuri che questi stessi processi producono e che tendono poi a scaricarsi — o almeno a essere percepiti in modo più acuto — su una quota minoritaria (ma non trascurabile) della popolazione. Si tratta di un problema strutturale che non solo condiziona la dinamica democratica, ma rischia anche di pregiudicare il raggiungimento di obiettivi di interesse generale (come vediamo oggi con la campagna vaccinale).

Proprio il persistere della paura spiega la discrasia che continuamente si manifesta tra il piano della conoscenza, che tende alla «certezza» scientifica e alla universalità della dimostrazione, e il piano della democrazia, che vive di opinioni ed emozioni. Gli effetti sono ben evidenti.

Oggi in Italia si è vaccinato più del 70% della popolazione e il ministro Speranza afferma che sia possibile arrivare all’80% a fine settembre. Da tanti punti di vista un successo senza precedenti. D’altro canto, il 20% di italiani non vaccinati sono 10 milioni di persone di cui molti in età a rischio. Così, noi oggi prendiamo atto di un problema per certi versi nuovo: in democrazia decide la maggioranza e la minoranza si deve adeguare. Ma ci sono situazioni (come quella della campagna vaccinale) in cui il rapporto tra maggioranza e minoranza diventa più complicato. Ponendo questioni oggettivamente delicate, come quella dell’obbligo vaccinale.

Come tutte le emozioni, la paura — che nasce dalla percezione di una minaccia — è volubile e contraddittoria. Cosi, la protesta di queste settimane contro il green pass rivendica più libertà, denunciando il pericolo di una intromissione nella vita personale da parte dell’autorità pubblica. Tutto il contrario di quello che invece si chiede a proposito della questione immigrazione, dove si vuole uno Stato più interventista e attivo.

Anche se opposti, questi due atteggiamenti sono accomunati dalla difficoltà di adattamento di una parte della popolazione ai cambiamenti associati al nostro modello di sviluppo. Il punto che continuamente si sottovaluta riguarda le difficoltà di ordine pratico e cognitivo che vivere in una società avanzata comporta. Più che la tradizione, oggi è l’innovazione la fonte della fatica, dell’ansia, della paura. Mentre l’insofferenza verso i migranti esprime il disagio di chi si sente esposto a fenomeni globali senza una protezione adeguata, la contestazione del green pass è il sintomo del malessere che nasce dalla quantità di regole, standard, procedure, protocolli che progressivamente vengono introdotti per raggiungere obiettivi di interesse generale: siano essi la salute pubblica, la sostenibilità ambientale, la lotta alle infiltrazioni mafiose. Una tendenza (destinata solo a peggiorare) che concretamente si traduce in un carico di vincoli che pesano sulla vita delle persone e delle organizzazioni, producendo un forte senso di soffocamento. Di fatto, il governo di sistemi complessi tende a tradursi in un inasprimento regolamentativo che finisce per intrappolare la libertà.

Qui nasce la questione dell’uso politico delle paure presenti nella nostra società. È noto che le spinte populiste — che nel corso degli anni hanno cambiato la natura dei partiti di destra — si alimentano di questi stati d’animo diffusi. D’altro canto, rappresentare questa parte di società non solo è legittimo, ma doveroso. Peggio sarebbe abbandonare a loro stessi questi gruppi, col rischio della loro radicalizzazione. E tuttavia, per questi partiti rimane da capire come fare per rendere politicamente sensata e produttiva la protesta, senza limitarsi a sfruttarla ai fini elettorali. Tanto più quando si decide di assumere una responsabilità di governo.

La storia insegna che pensare di governare cavalcando la paura porta a disastri. Il problema è scavare dietro lo smarrimento di molti, riconducendolo alle tensioni e alle contraddizioni associate al nostro modello di sviluppo per arrivare così a soluzioni concrete, cioè efficaci e proprio per questo impegnative ed esigenti. L’alternativa, come si è visto in diversi Paesi nei mesi dell’emergenza Covid, è prendere in giro i cittadini e indebolire la democrazia, col rischio di scatenare una rabbia sociale fuori controllo.

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