Una lettura della storia del capitalismo che guarda ai tempi lunghi, una lettura del sistema mondiale come intreccio tra economia e potere degli stati: è questo lo sguardo che Beverly Silver, professoressa di sociologia all’università Johns Hopkins, dove dirige l’Arrighi Center for Global Studies ha portato in Italia, ospite per un mese dell’Istituto Ciampi della Scuola Normale Superiore a Firenze. Uno sguardo che aiuta a leggere la contemporaneità e quanto accade dentro e attorno alla prima potenza mondiale.
Prima di parlare di storia e di come a suo modo di vedere siamo arrivati qui, parliamo dell’oggi. «Una trasformazione del potere globale degli Stati Uniti è quella che definirei il passaggio da un regime di "legittima protezione" degli alleati nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale a una sorta di "racket della protezione" tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. Vale per la Nato e per l’Europa con la quale l’atteggiamento sulla spesa militare è stato protezione in cambio di spesa in armi statunitensi, così come per i dazi dove il primo passo è la minaccia, non il tentativo di persuadere.
Oggi guardiamo a Trump e ai suoi metodi – quelli di un immobiliarista di New York – che arrivano a forme sfacciate di pressione nei rapporti di forza con gli alleati occidentali. Si tratta, come abbiamo visto anche con l’Iran, di una modalità che non cerca l’egemonia (fatta di coercizione e di consenso, di forza e soft power) ma impone in maniera muscolare la propria volontà. Ma si era cominciato in forme meno clamorose ed esplicite ben prima.
Né Biden, né i suoi predecessori avevano saputo rinunciare all’idea degli Stati Uniti come leader mondiale, anche quando le crepe nella leadership Usa sono diventate evidenti: in assenza di un progetto egemonico sia interno che internazionale capace di costruire consenso, si finisce con esercitare la coercizione».
Nel suo lavoro parla di un ordine mondiale in crisi, segnalando che non è qualcosa di recente. Partiamo dal sistema internazionale del secondo dopoguerra.
L’ordine mondiale del secondo dopoguerra è una risposta ai movimenti di massa che hanno messo in discussione il capitalismo nella prima metà del XX secolo. Sono decenni in cui crescono i movimenti sindacali nei paesi avanzati, i movimenti di liberazione nazionale nel mondo coloniale e i movimenti socialisti ovunque.
Dopo le guerre, il fascismo, la Grande depressione, c'è la sensazione di una sfida ampia e profonda al capitalismo così come si era costituito a partire dall’800 e si tenta di fornire una soluzione riformista alle spinte rivoluzionarie. Fu un modo per salvare il capitalismo, dargli una base sociale più solida, dopo che aveva perso legittimità. Il tentativo era quello di ristabilire una sorta di blocco egemonico basato sul consenso.
C’è un circolo virtuoso tra crescita economica, espansione dell'occupazione, aumento dei salari e dei consumi. Nel Terzo Mondo si chiude l'era del colonialismo formale e nascono decine di stati indipendenti. Questa soluzione riformista fungeva anche da strumento per la competizione ideologica tra gli Stati Uniti l’Urss.
Il problema è che le classi a cui era stata fatta la promessa di standard di vita crescenti la presero sul serio, le ondate di scioperi e mobilitazioni (come l’autunno caldo del 1969) erano la richiesta di mantenerla. Ma quel modello egemonico non poteva essere realizzato perché ciò che prometteva era destinato a creare una crisi per i profitti, per l’aumento del costo del lavoro e del prelievo fiscale necessario a finanziare tutele sociali e welfare.
Gli anni ’70 sono uno spartiacque?
È stato un decennio di transizione in cui non era chiaro che direzione avrebbe preso il capitalismo. La risposta viene con l’elezione di Thatcher e Reagan quando è diventato chiaro che il patto sociale del dopoguerra veniva abbandonato. All’epoca fu sconvolgente: nel 1981, Reagan licenziò 11mila controllori di volo perché avevano proclamato uno sciopero. Fu il segnale che era diventato lecito reprimere i sindacati. Dal 1980 il patto del dopoguerra non vale più – non avviene tutto in una volta, ma la strada è segnata.
Come si è passati dall’espansione produttiva del dopoguerra a una nuova fase?
La risposta alla compressione dei profitti degli anni Settanta è la finanziarizzazione. Si tratta del punto di svolta principale, perché l’accumulazione di capitale negli USA e nei paesi del “centro” del sistema mondiale avviene lasciando fuori il lavoro. La crisi del 2008 segnala che la finanziarizzazione si è spinta troppo oltre, eppure la finanza continua a dominare l’economia.
Ma aumentano le disuguaglianze, salta il blocco sociale che teneva tutto assieme. Per effetto di queste trasformazioni cresce l’estrema destra, che nel tempo ha stabilito relazioni internazionali ed elaborato programmi radicali come il Project 2025 della Heritage Foundation, il programma che Trump sta sostanzialmente mettendo in pratica. Sono decenni che negli USA c’è una destra che non accetta il cambiamento ma non ha da offrire un nuovo patto e quindi tende a proporre soluzioni autoritarie di cui stiamo vedendo esempi come il tentativo di accumulare più poteri da parte del potere esecutivo o i raid anti immigrati condotti da agenti mascherati durante i quali non si rispettano le norme o, ancora, come la ventilata ipotesi di abolizione dell’habeas corpus.
I miliardari che hanno sostenuto Trump pensano ad andare su Marte o costruiscono bunker, non immaginano soluzioni alla crisi di sistema. Dal canto loro, i liberal hanno il problema che il loro vecchio modello sta andando in pezzi e non sanno che direzione prendere, perché una via d’uscita che conservi le cose come stanno non c’è.
Quali sono le conseguenze del potere della finanza?
Dopo la crisi dell’egemonia Usa negli anni ’70, l’espansione finanziaria ha reso Wall Street il centro della finanza globale, i capitali arrivano da tutto il mondo per comprare azioni, ma anche titoli del Tesoro che finanziano il deficit. Gli Usa continuano ad aver bisogno di questo afflusso di risorse finanziarie.
Il debito Usa è stato declassato da Moody’s ed è destinato ad aumentare in maniera esponenziale a causa del rinnovo del taglio delle tasse. Rifinanziarlo diventa più difficile: la Cina si è alleggerita molto, come pure il Giappone. La ricerca da parte di Trump di un rapporto privilegiato con Arabia Saudita, Emirati e Qatar ha a che fare con questo bisogno di risorse che finanzino il debito.
Qual è l’obiettivo dell’introduzione dei dazi sul commercio da parte di Trump?
La sensazione è che non ci sia nessun piano. Trump ha parlato dei dazi come uno strumento per reindustrializzare l’America. Ma se davvero i dazi fossero legati a un progetto di reindustrializzazione le risorse si userebbero per settori specifici.
Probabilmente, invece, si userà quanto incassato per contenere l’esplosione del deficit generata dai tagli fiscali in discussione al Congresso o per pagare sussidi ai settori danneggiati dai conflitti sul commercio; nel primo mandato di Trump gli agricoltori danneggiati dalla perdita dell'accesso al mercato cinese vennero compensati così.
L’ordine internazionale va verso un’egemonia cinese?
Quando abbiamo pubblicato Caos e governo del mondo, l'idea era: come possiamo evitare il caos che si profila all’orizzonte? Sarebbe stato necessario che l'occidente si adattasse a una distribuzione più equa del potere e della ricchezza a livello mondiale, e che alcuni gruppi o forze nei nuovi centri di espansione materiale – a cominciare dalla Cina –, immaginassero soluzioni capaci di affrontare problemi epocali.
La strada che il mondo ha preso è però quella di un lungo periodo di caos sistemico: un sistema internazionale senza egemonia segnato da instabilità e incertezza. La Cina ha una storia diversa dagli Stati Uniti; nei secoli, lo sviluppo economico cinese è stato attento al risparmio di risorse e all’assorbimento di manodopera, all’opposto del modello Usa di spreco di risorse naturali, alta intensità di capitale e risparmio di lavoro. L’ultimo esempio ci viene da Deep Seek, l’intelligenza artificiale cinese è stata realizzata con una quantità di risorse infinitesimale rispetto a quelle utilizzate per sistemi analoghi USA.
Sul piano internazionale la Cina ha una proiezione crescente: a volte realizza progetti infrastrutturali che contribuiscono allo sviluppo economico, altre volta realizza politiche “estrattive” che somigliano a quelle delle potenze coloniali. Dove sta l’equilibrio tra queste spinte contrastanti? Mi pare comunque che in Cina ci si ponga il problema di cercare soluzioni di lungo termine.
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