domenica 2 marzo 2014

SCUOLA E CANCELLAZIONE DELLA FILOSOFIA. ILLETTERATI, Essere giusti con la filosofia, IL MANIFESTO, 1 marzo 2014

ell’ultimo romanzo di John Max­well Coe­tzee, L’infanzia di Gesù (Einaudi 2013) la parola ‘filo­so­fia’ è una di quelle che ricorre più spesso. Quando Simón, il facente fun­zione di padre per David, il bam­bino di cui si narra, si trova in ospe­dale a causa di un inci­dente sul lavoro, al porto, Euge­nio, un com­pa­gno di lavoro, pen­sando di far­gli cosa gra­dita – per­ché Simón è una per­sona seria, dice Euge­nio – gli porta i testi del suo corso di filo­so­fia. Simón guarda il libro e, come temeva, vede che parla di tavoli e sedie. È un libro di quel tipo di filo­so­fia lì: quel tipo di filo­so­fia, cioè, che muo­vendo dall’infinita varietà e diver­sità di tavoli e sedie che ci sono nel mondo si chiede quale sia l’unità di fondo di quella mol­te­pli­cità, «che cosa fac­cia di tutti i tavoli tavoli e di tutte le sedie sedie». Ma que­sto genere di filo­so­fia a Simón non inte­ressa. «Che tipo di filo­so­fia ti pia­ce­rebbe?» gli chiede allora, stu­pito, Euge­nio. E Simón risponde: «Il genere che ti scuote. Che ti cam­bia la vita».



Da Coe­tzee al qui e ora

Ho pen­sato a Coe­tzee in que­sti giorni di appelli di filo­sofi per la filo­so­fia e a sua difesa. E cer­cherò di dire per­ché, leg­gen­doli, ho pen­sato alle parole di Simón. Che cosa dicono que­gli appelli? Vi si richiama l’attenzione su un peri­colo che riguarda la filo­so­fia, si denun­cia cioè il ten­ta­tivo di un pro­cesso di mar­gi­na­liz­za­zione della filo­so­fia all’interno dei diversi tipi di per­corsi for­ma­tivi nella scuola secon­da­ria (attra­verso un taglio delle ore e il pro­getto, per ora solo spe­ri­men­tale, di ridurre nei licei da tre a due gli anni in cui essa è inse­gnata) e nell’università (soprat­tutto all’interno dei corsi di lau­rea non filo­so­fici, dove se mai si è costretti a inse­rire una disci­plina filo­so­fica, si cerca quanto più pos­si­bile una filo­so­fia spe­ciale, una filo­so­fia della, piut­to­sto che la filo­so­fia in quanto tale).
A me pare, in primo luogo, evi­dente che que­gli appelli sono dav­vero capaci di dire qual­cosa solo se non mirano a una difesa disci­pli­nare e cor­po­ra­tiva, solo se rie­scono ad arti­co­larsi come un discorso carat­te­riz­zato da una sua spe­ci­fica ed espli­cita dimen­sione poli­tica che coin­volge l’idea stessa di scuola, l’idea stessa di uni­ver­sità, in gene­rale l’idea stessa di for­ma­zione. Se c’è infatti un ele­mento capace di tenere insieme le diverse riforme che hanno coin­volto e non di rado scon­volto negli ultimi vent’anni il mondo della scuola e dell’università, que­sta è l’idea che la for­ma­zione trova il suo senso e dun­que la sua giu­sti­fi­ca­zione nell’acquisizione di com­pe­tenze spe­ci­fi­che in rela­zione a un saper fare, a una pro­dut­ti­vità e una appli­ca­bi­lità; acqui­si­zione che assume il ruolo di fon­da­mento (mi ver­rebbe da dire meta­fi­sico) di qual­siasi forma del sapere. La parola ‘com­pe­tenza’ è pro­ba­bil­mente, e non a caso, la parola che ha carat­te­riz­zato più dif­fu­sa­mente e per­va­si­va­mente la cul­tura didat­to­lo­gica e peda­go­gica sog­gia­cente ai più diversi docu­menti e tabel­lari mini­ste­riali che hanno let­te­ral­mente invaso, in que­sti anni di cona­tus refor­mandi, la vita pro­fes­sio­nale (e non solo) di chiun­que si occupi di for­ma­zione. Sia chiaro, niente di male, di per sé, nell’idea di com­pe­tenza, nell’idea che la scuola e l’università si dedi­chino a for­nire le com­pe­tenze di cui un gio­vane ha biso­gno per muo­versi poi nel mondo del lavoro. Anzi, è evi­dente che que­sto è un dovere della scuola e dell’università.
Il male, se così si vuol dire, sta piut­to­sto nello sci­vo­la­mento, sot­tile e deva­stante, in primo luogo in dire­zione di una iden­ti­fi­ca­zione dell’idea di com­pe­tenza con l’idea di com­pe­tenza pro­fes­sio­nale, di com­pe­tenza in vista dell’accrescimento dell’effi­ca­cia e dell’effi­cienza – ecco le altre due parole chiave di una reto­rica sua­dente, per­sua­siva ed ideo­lo­gica dove effet­ti­va­mente tutto si tiene – in secondo luogo nella tra­sfor­ma­zione della com­pe­tenza, del servire-a, in vero e pro­prio fon­da­mento, in ciò che, sola­mente, è in grado di for­nire senso e giu­sti­fi­ca­zione a un sapere.
Com­pe­tenza, effi­ca­cia, effi­cienza (ma potremmo con­net­tere a que­sti molti altri ter­mini che com­pon­gono un vero e pro­prio voca­bo­la­rio di que­sto modello politico-culturale) sono tutte parole con­nesse al fun­zio­na­mento, all’idea del sapere come sapere fare girare la mac­china, sapere come miglio­rarla per ren­derla sem­pre più veloce, più capace, più attiva, più performante.
È den­tro que­sto qua­dro che assume un suo spe­ci­fico signi­fi­cato la mar­gi­na­liz­za­zione della filo­so­fia. Den­tro que­sta reto­rica, infatti, qual­siasi sapere e qual­siasi discorso di cui non sia chiaro e imme­dia­ta­mente evi­dente in che senso esso con­corre alla fun­zio­na­lità del sistema, in che senso le com­pe­tenze che esso pro­duce non risul­tino pla­sti­ca­mente tra­du­ci­bili e spen­di­bili in ter­mini di effi­ca­cia ed effi­cienza, tende a per­dere punti rispetto alla pro­pria neces­sità e ad assu­mere un valore sem­pre più orna­men­tale e deco­ra­tivo, utile, se pro­prio si vuole, al pac­ka­ging comu­ni­ca­tivo e al tempo libero e non certo al con­creto pro­cesso di svi­luppo di una società. Una sorta di ele­gante fioc­chetto con cui accom­pa­gnare l’essenziale che ci dà effet­ti­va­mente da man­giare. In que­sto senso, sem­bra dif­fi­cile pre­ten­dere una qual­che neces­sità se non addi­rit­tura cen­tra­lità della filo­so­fia una volta che si sia fatto pro­prio un modello cul­tu­rale e poli­tico o che (e que­sto mi sem­bra il caso più fre­quente) lo si sia caval­cato nella spoc­chiosa con­vin­zione di poterlo poi astu­ta­mente pie­gare ai pro­pri intel­li­gen­tis­simi interessi.
Da que­sto punto di vista ritengo che tutti i sacro­santi appelli per la filo­so­fia e in sua difesa se vogliono dav­vero ciò che dicono deb­bano neces­sa­ria­mente muo­vere verso un discorso più ampio e com­plesso che coin­volge dav­vero, e radi­cal­mente, l’idea di scuola, l’idea di uni­ver­sità, l’idea di for­ma­zione. Un discorso che coin­volga non solo il mondo delle huma­ni­ties (non è rara l’impressione che danno tal­volta que­sti appelli di essere, un po’ come gli appelli del wwf, delle richie­ste di difesa della spe­cie), ma anche quello delle scienze cosid­dette esatte, altret­tanto coin­volte da que­sto pro­cesso di fun­zio­na­liz­za­zione del sapere e sicu­ra­mente dispo­ni­bili a una rifles­sione sul senso dei saperi e soprat­tutto sul senso che esse svol­gono all’interno dei pro­cessi for­ma­tivi. Dispo­ni­bili, certo, a patto che la filo­so­fia non si ponga nei loro con­fronti, come sovente accade, altez­zo­sa­mente come discorso in grado di offrire lo sfondo di signi­fi­cato a par­tire dal quale sola­mente esse assu­me­reb­bero il loro spe­ci­fico senso.
E qui vengo all’altra que­stione che mi è stata sol­le­ci­tata dalla let­tura degli appelli di que­sti giorni e mi con­sente di tor­nare al letto di ospe­dale dove si trova rico­ve­rato il povero Simón, nel romanzo di Coe­tzee. Quando si parla della neces­sità della filo­so­fia e soprat­tutto quando si parla del suo ruolo fon­da­men­tale nella for­ma­zione, di quale filo­so­fia si sta par­lando? Della filo­so­fia dei tavoli e delle sedie, per dirla con lo scrit­tore suda­fri­cano, o della filo­so­fia come eser­ci­zio spi­ri­tuale e modo di vivere, per dirla con Pierre Hadot? La que­stione è assai meno pere­grina di quanto si possa pen­sare e ritengo che anzi oggi, dopo tanti discorsi sulla divi­sione e sul dia­logo fra filo­so­fia ana­li­tica e filo­so­fia con­ti­nen­tale, una seria e vor­rei dire spie­tata inter­ro­ga­zione della filo­so­fia su se stessa sia dav­vero neces­sa­ria. È com­pli­cato, infatti, da una parte dichia­rare la neces­sità e l’inaggirabilità for­ma­tiva della filo­so­fia ad esem­pio in ter­mini civili (mi pare que­sto il punto, a mio parere debole, su cui insi­stono gli appelli) e con­tem­po­ra­nea­mente pen­sare e dire che il tipo di filo­so­fia pra­ti­cato da alcuni, magari dal col­lega della stanza accanto, dal col­lega di un altro set­tore scien­ti­fico disci­pli­nare, non ha in realtà nes­suna intrin­seca neces­sità, è un modo ina­de­guato di pen­sare la filo­so­fia o addi­rit­tura è un modo dan­noso che con­duce a una radi­cale distor­sione di ciò che la filo­so­fia è. Fin­chè non si prende di petto tale que­stione, non per giun­gere a un ire­nico com­pro­messo, ma per evi­den­ziare in che senso i diversi approcci alla filo­so­fia, anche scon­tran­dosi fra loro, con­cor­rano però tutti alla costru­zione del discorso filo­so­fico è dif­fi­cile pen­sare seria­mente a una giu­sti­fi­ca­zione della neces­sità della filo­so­fia all’interno dei per­corsi for­ma­tivi, siano essi sco­la­stici o universitari.

Sotto il segno di Gentile

Qual è la filo­so­fia di cui si vuole mostrare la neces­sità, ad esem­pio, all’interno della scuola? L’insegnamento della filo­so­fia nella scuola ita­liana è ancora, volente o nolente, con­sa­pe­vol­mente o meno, segnato dall’approccio filo­so­fico (e poli­tico) di Gio­vanni Gen­tile. Il fatto che la filo­so­fia debba essere inse­gnata solo nei Licei, che nei licei clas­sici e scien­ti­fici l’insegnante di filo­so­fia sia anche l’insegnante di sto­ria (cosa che stu­pi­sce sem­pre i nostri col­le­ghi stra­nieri) e che sostan­zial­mente l’insegnamento della filo­so­fia sia pra­ti­cato nella forma della sto­ria della filo­so­fia è del tutto coe­rente con l’impianto gen­ti­liano, con l’idea eli­ta­ria della scuola che carat­te­rizza il pen­siero di Gen­tile, con l’identificazione, che segna in modo così pro­fondo il suo sistema, fra filo­so­fia e sto­ria della filo­so­fia e, più in gene­rale, fra filo­so­fia e sto­ria. Forse nel momento in cui giu­sta­mente si chiede di non mar­gi­na­liz­zare la filo­so­fia nei per­corsi for­ma­tivi, var­rebbe la pena ripen­sare radi­cal­mente l’architettura gene­rale den­tro la quale si arti­cola il suo inse­gna­mento. Un’architettura niente affatto neu­tra e inin­fluente rispetto alla pos­si­bi­lità di pen­sare, appunto, la neces­sità di un sapere quale quello filo­so­fico all’interno dei cur­ri­cula sco­la­stici o in corsi di lau­rea non filo­so­fici. E dico que­sto non pen­sando, in nome di un pate­tico nuo­vi­smo o di una spesso tron­fia reto­rica della moder­niz­za­zione, di far fuori la sto­ria della filo­so­fia a favore di una filo­so­fia intesa come puro eser­ci­zio di pro­ble­ma­tiz­za­zione, sepa­rato dalla neces­sità di un rife­ri­mento ai testi e agli autori, come avviene ad esem­pio nella scuola francese.

Reto­ri­che da decostruire

Penso a una filo­so­fia in grado di mostrarsi, anche e soprat­tutto attra­verso la sua sto­ria, come cri­tica delle diverse forme di pre­sup­po­si­zione assunte come scon­tate, come capa­cità di met­tere in que­stione tutte quelle parole che spesso il discorso pub­blico assume come non neces­si­tanti di discus­sione alcuna, come pos­si­bi­lità, attra­verso l’argomentazione, di deco­struire le pra­ti­che discor­sive che si fon­dano sull’autorità della per­sua­sione e, dun­que, del potere.
Non penso, insomma, quando penso alla scuola, né a una filo­so­fia dei tavoli e delle sedie, né a una filo­so­fia «che ti cambi la vita». Penso sem­mai a una filo­so­fia che sia in grado di mostrare in che senso anche l’interrogazione intorno ai tavoli e alle sedie non riguarda solo i tavoli e le sedie, ma coin­volge più radi­cal­mente il nostro rap­porto con gli altri, con il mondo e con l’esistenza; insomma, il nostro rap­porto con la vita. Al punto anche, caro Simón, da poterla cambiare.

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