lunedì 12 gennaio 2015

MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA. GIORNALISMO E MENZOGNA. DIALOGO FRA P. MIELI E U. ECO, Se il giornale diventa macchina del fango, CORRIERE DELLA SERA, 12 gennaio 2015

N umero zero (Bompiani) è il settimo romanzo e 43° libro per Umberto Eco, il maggiore semiologo italiano che ha avuto un grande successo anche nella narrativa: la sua prova d’esordio, Il nome della rosa (1980), tradotta in 47 Paesi, ha venduto circa trenta milioni di copie nel mondo.


La sorpresa della nuova opera di Eco è che è dedicata al mondo dell’informazione: da un esperto di mass media ti aspetti un saggio, non un romanzo. Un romanzo in forma di giallo che riprende alcuni dei temi che l’autore ha affrontato in altri libri: dal problema della verità alle teorie del complotto, queste ultime sviluppate soprattutto nel Pendolo di Foucault e nel Cimitero di Praga .
Numero zero si svolge nel 1992, nei tre mesi che vanno dall’arresto di Mario Chiesa, che segnò l’inizio di Tangentopoli, al giugno di quell’anno. Protagonisti del libro sono i redattori assunti da un cinico direttore, Simei, per confezionare i numeri zero di un giornale, che ha come testata «Domani» e non uscirà mai, concepito da un editore con cognome brianzolo, l’ambizioso Vimercate, come strumento ricattatorio per entrare nel cosiddetto salotto buono del potere economico. Voce narrante è il «dottor» Colonna, in realtà mai laureatosi, ingaggiato come ghost writer da Simei per tenere un diario di quell’esperienza, un libro che si intitolerà «Domani: ieri» che dovrebbe essere un bestseller.
Discutiamo di Numero zero con l’autore e con Paolo Mieli, presidente della Rcs Libri, storico e giornalista: formatosi al settimanale «L’Espresso», è stato direttore della «Stampa» dal ‘90 al ‘92 e per due volte direttore del «Corriere della Sera», dal ‘92 al ‘97 e dal 2004 al 2009. 
Perché la scelta di ambientare il romanzo nel 1992? 
Eco - Ho scelto il 1992 perché considero quell’anno un punto di displuvio nella storia della società italiana. Dovendo poi raccontare di giornalisti obbligati a fare previsioni sul futuro mi è tornata utile quella data perché conosciamo i fatti successivi. Inoltre quello è il momento giusto per l’entrata in campo di un soggetto nuovo, non un politico, ma un piccolo editore, Vimercate, che finanzia dei numeri zero di un quotidiano con evidenti scopi ricattatori. Li fa stampare perché qualcuno gli dica di smetterla e gli offra qualcosa in cambio. 
Il direttore Simei nello spiegare ai redattori la filosofia del nuovo giornale afferma che «ormai il destino di un quotidiano è di assomigliare a un settimanale». Quando comincia questa trasformazione? 
Mieli - La settimanalizzazione dei quotidiani comincia prima del 1992, per la necessità di rispondere allo sviluppo dell’informazione televisiva. Ho avuto la mia formazione professionale all’«Espresso», dove ho lavorato per quasi vent’anni, e sono stato protagonista della trasformazione di cui narra Umberto Eco: fino agli anni Settanta i quotidiani erano abbastanza ingessati, poi ci si accorse che i lettori trovavano sui quotidiani le notizie che avevano visto la sera prima in televisione. Così tutta una generazione di giornalisti, la mia, venne coinvolta nell’operazione descritta in Numero zero : impiegare le ore fra le quattro del pomeriggio e le undici di sera per rispondere alla domanda: che cosa possiamo offrire di più rispetto a quel che è stato già detto in televisione?
Eco - Achille Campanile, uno dei geni italiani del secolo scorso, per descrivere la situazione in cui si trovavano i giornali dopo l’avvento della tv, aveva coniato la battuta: «Una lettera cui segue telegramma». Invece, come si sa, al telegramma segue lettera.
Mieli - Nella scelta di Eco di ambientare nel 1992 il nuovo romanzo c’è qualcosa di più: quella data segna l’inizio di una degenerazione che non riguarda soltanto le piccole testate nate talvolta a scopo ricattatorio, ma coinvolge tutto il giornalismo. Numero zero è sì un libro divertente, ma esploderà come una bomba nelle redazioni, perché racconta una verità difficile da digerire. Il giornalismo cialtrone è sempre esistito ma prima c’era una barriera di divisione dal giornalismo serio che con le tecniche di settimanalizzazione si è infranta, e che nel 1992 è andata definitivamente a pezzi. Dopo il 1992, è sempre stato più difficile distinguere tra la serie A e il giornalismo più scadente. In quel periodo io mi trovavo in posizioni di responsabilità e perciò mi considero tra gli «imputati» del libro di Eco. 
Un altro degli assunti del direttore Simei è che «i giornali mentono, la scienza mente, la storia mente». La verità, insomma, come meta irraggiungibile nel giornalismo. 
Eco - Mi sono spesso occupato del tema della verità, ma quel che vuol dire Simei è che il giornale si propone come una macchina del fango, un veicolo di divulgazione di notizie sulle vite private allo scopo di delegittimare l’avversario.
Negli Stati Uniti quando John Fitzgerald Kennedy era in vita non venne mai scritto che andava a letto con Marilyn Monroe, Richard Nixon fu accusato su basi politiche, non per fatti privati. È con Bill Clinton che avviene la svolta, quando il presidente è accusato di comportamenti privati avuti nel chiuso del suo studio alla Casa Bianca.
Per quanto riguarda l’Italia in Numero zero mi sono ispirato al caso di quel magistrato, Raimondo Mesiano, giudice del Lodo Mondadori, che nel 2009 fu messo alla gogna solo perché fumava e portava calzini turchesi. È il classico esempio di macchina del fango: parlare di un particolare senza alcun rilievo per screditare un avversario. 



Quand’è che il giornalismo, o almeno parte di esso, ha preso questa piega negativa, è degenerato così? 
Mieli - Considero la rivoluzione giudiziaria del 1992 una delle tappe importanti del Secondo dopoguerra, meritevole di una considerazione positiva, ma è da quell’anno che si accentua la degenerazione dell’informazione. In un’epoca precedente i giornalisti avevano una visione deontologica diversa: conducevano delle inchieste autonome, che andavano di pari passo con quelle dei magistrati. Talvolta le ispiravano. Era un po’ il modello Watergate proseguito di recente, sempre al «Washington Post», con le rivelazioni delle torture a Bagram e Guantanamo. Il giornalismo italiano in parte si era ispirato a quel modello, per esempio con gli articoli di Camilla Cederna e Gianluigi Melega che portarono alle dimissioni del presidente Giovanni Leone, anche se anni dopo si scoprì che di tutta quell’inchiesta era rimasta una montagna di pettegolezzi e pochi dati di fatto, al punto che l’«Espresso» e il Partito radicale dovettero chiedere scusa.
Ma insomma si affermava il modello di giornalisti che lavoravano in autonomia dando talvolta il «la» all’azione dei magistrati. In quegli stessi anni i cronisti meno dotati trovarono comodo, dopo una iniziale fase conflittuale, appoggiarsi totalmente ai risultati delle inchieste giudiziarie. Questo modello divenne legge universale nel 1992 e fino ad oggi, in 23 anni, ha provocato molti danni. In questo periodo ci sono state eccezioni di rilievo, come i lavori di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, di Milena Gabanelli, di Claudio Gatti e pochi altri. Ma sono eccezioni in un panorama che ha visto la pubblicazione acritica dei verbali o addirittura delle intercettazioni telefoniche. Quel che rimane in questo profluvio di parole è talvolta un particolare insignificante ai fini dell’inchiesta.
Vorrei a questo punto fare una provocazione e chiedere a Eco se ricorda in quale inchiesta venne fuori da un’intercettazione che Silvio Berlusconi aveva definito Angela Merkel «una culona inchiavabile», ciò che gli fece un danno evidente.
Eco - No, non lo ricordo.
Mieli - Poco male. Eccezion fatta per Marco Travaglio, non lo ricorda nessuno o quasi. Era un classico de relato , una cosa riferita da qualcun altro. Ho voluto fare questo esempio per dire che quel che assume rilievo alla fine è qualcosa di totalmente estraneo all’oggetto dell’inchiesta. Così, del lavoro giornalistico resta quasi solo il fango.
Tutto ciò ha investito come un’onda soprattutto il giornalismo italiano, mentre altrove i piani sono ben separati. 
In una riunione di redazione di «Numero zero» si discute dell’oggettività delle notizie e dei fatti separati dalle opinioni. Una favola, secondo uno dei protagonisti . 
Eco - È una vecchia polemica che ho avuto in forma molto garbata negli anni Sessanta con l’«anglosassone» Piero Ottone, il quale sosteneva che era possibile e doveroso separare i fatti dalle opinioni. Come a un certo punto racconto anche nel libro, basta mettere assieme in una pagina quattro episodi apparentemente legati, che per esempio riguardano genericamente i giovani, per costruire una quinta notizia: un allarme sulla pedofilia o sulla violenza...
Un’altra tecnica di falsa obiettività è quella di virgolettare opinioni diverse lasciando al lettore la libertà di scelta. Chiaro che la preferenza cadrà sull’opinione più attendibile, quindi anche le opinioni diverse possono essere pilotate. E questo meccanismo, assieme ad altri trucchi per ingannare il lettore, lo spiega bene il direttore Simei. Ho creato un dottor Jekyll del giornalismo, ma è chiaro che così come non tutti gli scienziati sono dei Jekyll, non tutti i direttori somigliano a Simei. 



Ci sono pagine in «Numero zero» molto ironiche, per esempio quando un giornalista parla dei telefonini come di una moda passeggera. Ed esercizi di stile da non perdere. 
Mieli - Sono d’accordo. E anche da editore di Eco, vorrei chiedergli di affiancare a questo romanzo un’antologia delle sciocchezze dette da noi giornalisti, perché nessuno possa dire «non c’ero», Numero zero non mi riguarda. Ma quello che lei chiama la parte ironica introduce un tema molto pesante, quello della smentita. Dimmi come smentisci e capirò quale giornale stai facendo. Eco in una delle pagine più esilaranti ci propone la lettera di un lettore con un nome di fantasia, Preciso Smentuccia, accusato di celebrare le Idi di Marzo e in qualche modo di essere coinvolto nell’omicidio di Giulio Cesare. In realtà il signor Smentuccia ha l’unica colpa di essere nato il 15 marzo 1944 e di festeggiare normalmente il suo compleanno... Eco descrive perfettamente la tecnica di generare un caos mentale, attraverso la replica del redattore alla smentita del malcapitato, per cui alla fine chi ha scritto una sciocchezza non verrà condannato da nessuno. 
Altrettanto feroce è il brano sui luoghi comuni del giornalismo: le frasi fatte che ogni giornalista dovrebbe evitare come la peste: la stanza dei bottoni, uscire fuori dal tunnel, la frittata è fatta... 
Eco - ... e soprattutto trovarsi nell’occhio del ciclone, che come si sa è il punto di maggiore tranquillità in un tifone. 
Accanto alle discussioni di redazione, nel romanzo di Eco corre un piano parallelo in cui uno dei giornalisti, Braggadocio, ci introduce al tema del complotto, altro luogo topico del giornalismo italiano. 
Eco - Braggadocio, che in inglese vuol dire anche sbruffone e come tutti gli altri protagonisti del mio romanzo porta il nome di un carattere tipografico, è convinto che Mussolini non sia stato fucilato a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945, ma sia stato portato in salvo in Argentina e lì sia rimasto in attesa del momento propizio per tornare in Italia. E a questa ipotesi lega tutte le tragedie italiane del secondo dopoguerra, dalla bomba di Piazza Fontana alla strage di Brescia, dall’attentato di Peteano all’Italicus, in un concatenarsi di eventi che non esclude l’improvvisa morte di Papa Luciani... 
Mai ci saremmo aspettati da Umberto Eco una ricostruzione precisa delle ultime ore di vita di Mussolini... 
Eco - In qualche misura vi ero destinato, perché sono stato amico del comandante «Pedro», nome di battaglia del partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, che arrestò Mussolini a Dongo. E Walter Audisio, il «colonnello Valerio», che uccise il Duce e Claretta Petacci, era di Alessandria e abitava vicino a casa mia.
Mieli - Dopo aver letto Il cimitero di Praga che parla dei falsi protocolli dei savi anziani di Sion, in verità mi aspettavo da Eco un libro sulla degenerazione del complottismo, che nella versione italiana è tenuto insieme da idee bislacche e luoghi comuni.
Eco - Le teorie di Braggadocio sono bislacche, ma i fatti descritti sono reali. Il nostro è un Paese che ha visto succedere di tutto in questo dopoguerra senza attribuirgli una grande importanza. Altrove sarebbe scoppiata la rivoluzione.
Mieli - Si pensi però all’America degli anni Sessanta che ha visto l’uccisione del presidente John Kennedy, di suo fratello Bob, di Martin Luther King, di Malcolm X...
Eco - Sì, ma lì questi fatti hanno dato qualche scossone, c’è stata una reazione.
Mieli - In Italia la mancata identificazione dei colpevoli e il rimandare sempre a un superiore livello di responsabilità ha alimentato le teorie del complotto. È l’ora di tornare ai fatti, a indicare i nomi e cognomi dei responsabili e abbandonare le teorie che non trovano un riscontro fattuale. Possibile che tra tutti i Paesi occidentali in cui c’è stata l’organizzazione della Nato «stay-behind», solo in Italia abbia alimentato le fantasie dei complottomani?
Eco - Braggadocio è un mitomane, un complottista che fa risalire tutte le cose che sono accadute in Italia dal 1945 agli anni Novanta come se fossero effetto di un unico disegno. Ma se Braggadocio delira, allora è molto peggio, vuol dire che la società, senza un piano coordinato, spontaneamente, ha prodotto dei bubboni che non siamo stati in grado di controllare. La vera tragedia è che non c’è stato un piano cui ricondurre tutto, ma il corpo malato di una società.
Mieli - Sono convinto che bisogna tornare ai fatti e vivere una stagione in cui ci depuriamo delle fantasie. Mai nella storia un’idea complottistic a si è dimostrata veritiera. 

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