mercoledì 28 gennaio 2015

CASO ERRI DE LUCA FRA LETTERATURA, POLITICA E LIBERTA' DI ESPRESSIONE. M. IMARISIO, Erri De Luca: «Io, a processo per aver detto che la Tav va sabotata», CORRIERE DELLA SERA, 28 gennaio 2015

«Al massimo posso istigare alla lettura, nel migliore dei casi alla formazione di un sentimento. Perché sono uno scrittore. Con il suo lavoro Reinhold Messner istigava a scalare le montagne. Ma certo non è responsabile per le morti in alta quota». 

L’imputato Erri De Luca mercoledì si presenterà in un’aula di tribunale per rispondere dell’accusa di istigazione a delinquere. Disse quattro parole, la Tav va sabotata, in una intervista all’Huffington Post. È diventato uno scrittore alla sbarra su richiesta della procura di Torino, i sabotaggi come conseguenza diretta della «Parola contraria», titolo del suo pamphlet appena uscito per Feltrinelli. Quale che sia l’esito giudiziario, la vicenda rischia di assumere contorni surreali, in una stagione dove purtroppo si deve molto discutere della libertà di espressione, vedi alla voce Charlie Hebdo, e da ultimo, nel loro piccolo e in un contesto ben diverso, i 99 Posse che a Cremona vorrebbero incentivare l’uso dei bastoni
Non può esserci mai un nesso di causa ed effetto tra parole e azione?
«Vado a processo per questo. Per conoscere e vedere le persone che avrei istigato. Ma nella lista dei testimoni non ne compare neppure una». 
Lo scrittore è sempre libero di dire quel che vuole?
«Non mi disturba una condanna. Come scrittore ed essere umano misuro la libertà con me stesso, nel rapporto tra quello che dico e faccio». 
Non è autoindulgenza?
«Piuttosto una assunzione di responsabilità. Le mie parole sono quel che faccio. Se avessi voluto sabotare in senso materiale il cantiere della Tav sarei andato di persona, non ne dubiti. L’ho già fatto». 
Quando lavorava in Fiat?
«Esatto. I 35 giorni dell’occupazione di Mirafiori, nel 1980. Sabotare significa impedire una funzione, e noi bloccammo la produzione. Lo rivendico, così come rivendico le mie parole sulla Tav». 
Ma quello era l’Erri De Luca operaio, non lo scrittore letto da tanta gente.
«Oggi la mia libertà consiste nel dire cose di cui sono convinto e rispondere solo di quelle. Subisco un abuso di potere da parte di una accusa che vuole invece sabotare il mio diritto di parola, per altro sancito dalla Costituzione sulla quale giurano quegli stessi giudici». 
Lei è convinto che esista solo la sua verità sulla Tav?
«Sono dieci anni che sto con queste persone. Conosco la loro commovente fermezza civile contro un’opera micidiale. Sono come i pescatori di Lampedusa, rei confessi del sabotaggio della norma che impedisce di salvare la gente in mare». 
La libertà di espressione non è soggetta a un principio di responsabilità?
«Altroché. Io lo esercito difendendo e onorando lo strumento che usiamo in questo momento, la parola». 
Se il limite non esiste quindi può passare anche l’invito a usare i bastoni dei 99 Posse?
«Quella frase è una evidente reazione a una aggressione fascista che ha ridotto in fin di vita un ragazzo di Cremona. Di questo si dovrebbe parlare». 
Non è anche istigazione a delinquere?
«Decidono i giudici». 
Si tira indietro? 
«Credo invece che si debba ragionare caso per caso, non esiste una normativa interna all’espressione di pensiero. Comunque quelle parole rientrano in un episodio circoscritto. La Polizia ha permesso che un giovane fosse pestato a sangue dai fascisti. Anche l’ordine pubblico dovrebbe essere citato in giudizio». 
La rabbia per quel che è successo autorizza sempre la reazione uguale e contraria?
«Anche la Marsigliese incita i cittadini a prendere le armi. Eppure non mi risulta che qualcuno si scandalizzi per l’inno nazionale francese». 
«Aux armes citoyens e ai bastoni i cremonesi? 
«Se dicessi che condivido la frase dei 99 Posse dovrei stare lì, come sto in Val di Susa, e magari avrei potuto andarci. Comprendo la loro rabbia e tornando al nostro discorso escludo anche che si tratti di una forma di istigazione». 
La violenza può ancora essere uno strumento politico?
«Sempre. Da una parte e dall’altra. Spaccare la testa di un militante è violenza criminale e politica, come l’assalto alla Polizia che non lo ha impedito, come la militarizzazione della Val di Susa. Esiste una violenza pubblica che scatena reazioni inevitabili». 
Non le sembra un concetto da anni Settanta?
«Certe cose cambiano solo di nome. Ma non mi faccia tornare indietro. Domani in aula non va il mio passato. Se fossi accusato di resistenza a pubblico ufficiale allora qualcuno potrebbe vedere una continuità con la militanza politica di un tempo. Invece gli eventuali precedenti di istigazione vanno cercati solo in quel che dico e scrivo. Non rispondo in tribunale della mia vita, ma della mia parola contraria». 
Lei dovrebbe pagare da bere, ai magistrati di Torino...
«Se la mia opinione è un reato, continuerò a commetterlo, come scrittore e come cittadino. I magistrati devono anche dimostrare la connessione tra le mie parole e l’azione di qualcuno. Auguri. Ma se davvero lo trovano, questo qualcuno, sarei curioso di conoscerlo. Come scrittore e come cittadino, ovviamente».
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