sabato 13 giugno 2015

ITALIA. SOCIOFOBIA E MARGINALITA' SOCIALE. GROSSETO. F. FERRI, Madre e figli chiusi in casa per trent’anni, IL TIRREno, 13 giugno 2015

GROSSETO. «Fuori è pericoloso. Fuori la gente è cattiva. Fuori correte dei rischi. Meglio che restiate in casa. Qui non vi succederà nulla». Se lo dice la mamma, i figli ci credono, si fidano. E in casa due fratelli, un maschio e una femmina oggi più che cinquantenni, ci sono rimasti oltre trent’anni. Senza osare mai mettere il naso fuori, senza far entrare nessuno. Hanno vissuto-non vissuto così, nel cuore del paese, invisibili al mondo, prigionieri di un muro di insicurezze che, nel pieno della loro giovinezza, con un mondo da scoprire e una vita di affetti, esperienze e relazioni tutta da costruire, si è alzato loro intorno e li ha imprigionati in casa. Finché il mondo non si è accorto della loro assenza e quel muro lo ha abbattuto.


È una storia a cui a stento si riesce a credere quella che si è consumata negli ultimi trentatré anni in un paesino della Maremma del sud. Nell’angolo più ricco e glamour della provincia, quello delle ville sul mare, degli yacht, delle magioni vip di campagna, c’è un sottosuolo dove un’intera famiglia è rimasta sepolta, come in quelle storie da format americani che mai ti aspetteresti dietro al portone accanto al tuo.
FIGLIA BELLISSIMA, FIGLIO FRESCO DI SERVIZIO DI LEVA
È la fine degli anni Settanta. La famiglia, composta da madre, marito, figlia e figlio, entrambi adolescenti, abita al primo piano di una palazzina sulla via centrale del paese (per riservatezza non si possono rendere noti la località né altri dettagli riconducibili all’identità delle persone coinvolte).
La figlia, ragazza bellissima e a detta di tutti molto intelligente, lavora in un negozio. Il fratello, mente lucidissima, sensibile, educato, è in età da militare. Non è chiaro cosa sia accaduto a questo punto, se un fatto specifico abbia spezzato quel filo di fiducia che lega una madre ai figli, o se quel filo si sia sfilacciato lentamente. La morte del padre forse può aver alimentato inconsce paure. C’è anche una parente che inculca nella donna timori irrazionali. «Tienili a casa, non sai chi possono incontrare», le dice. L’unica cosa certa è che, appena il maschio torna in congedo, da un giorno all’altro in paese i due ragazzi non si vedono più in giro. Scomparsi.
LA CASA DIVENTA UNA PRIGIONE
E così, come la “Mother” che in quegli anni cantano i Pink Floyd, la madre protagonista di questa storia comincia a costruire intorno ai figli una cortina di paure camuffata da scudo protettivo. La loro casa diventa il loro rifugio, la loro prigione. Certamente il loro unico mondo, un mondo rischiarato solo dalla luce delle lampadine, con gli avvolgibili chiusi, non un filo d’aria. Un mondo che tuttavia non è ancora abbastanza isolato dal “fuori”.
Familiari, amici, conoscenti, vicini: nessuno è ammesso a varcare la soglia di casa. I parenti che suonano al citofono per avere notizie sono lasciati sul pianerottolo. Le conversazioni avvengono attraverso il portone socchiuso o dalle scale condominiali. E non basta.
La casa, i mobili, i sanitari del bagno, gli infissi diventano anch’essi una minaccia. Sulla loro superficie appaiono microbi e batteri micidiali. Anche loro vanno protetti dalla “contaminazione” esterna. Nell’appartamento si comincia a ricoprire ogni superficie con carta e nastro adesivo. Tutto viene tappezzato nell’assurda convinzione che resti pulito, mentre intorno scorrono le settimane, i mesi, gli anni.
Lo spazio si restringe, fagocitato da giornali e riviste che si accumulano in un angolo, vecchi abiti in un altro, roba ovunque, sacchi della spazzatura che non vengono mai buttati. E sui sacchi si accumula la polvere, e sulla polvere l’umidità, gli odori di casa, e sull’umidità gli scarafaggi. Gli angoli non bastano più. Sacchetti pieni di ogni cianfrusaglia cominciano ad essere allineati lungo le pareti, poi uno sopra l’altro, uno davanti all’altro, strato su strato. Il pavimento scompare.

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LA MADRE E' L'UNICA A METTERE NASO FUORI
La vita però continua. Alle necessità della famiglia provvede la madre. È lei l’unica a metter piede fuori: esce, fa la spesa, paga le bollette, ritira la pensione, unica fonte di sostentamento per tutti e tre. Una parola con i vicini, i saluti al parroco, un po’ d’aria. E poi torna nella sua “tana”.
Ma come si possono passare trent’anni così? I danni per la mente si possono solo immaginare. Quelli per il fisico a un certo punto diventano spietatamente evidenti. Il ragazzo, dopo alcuni anni, si ammala di distrofia muscolare.
IL FIGLIO COLPITO DA UNA GRAVE MALATTIA
È questo il momento in cui pare aprirsi uno spiraglio. Per la prima volta estranei varcano la soglia di quell’appartamento. Sono l’assistente sociale, poi un vicino di casa – un tipo robusto – che alla bisogna aiuta a sollevare il ragazzo diventato ormai un uomo malato. Una volontaria della Croce rossa li implora di accettare il suo aiuto e fa quel che può. Il parroco manda regolarmente qualcuno a trovarli. All’inizio sono accettati, poi l'appartamento si blinda di nuovo. E il campanello suona a vuoto.
Nessuno varca più quella soglia. Eppure la storia dei “tumulati in casa” in paese la conoscono tutti e non tutti hanno fatto spallucce. I tre, però, rifiutano ogni contatto. Anche quando alla soglia degli ottant’anni la madre comincia a sentire gli acciacchi, e scendere e salire le scale del palazzo diventa un’impresa. Anche lei finisce per rinchiudersi in casa e ci rimarrà per gli ultimi cinque anni.
La spesa? Una telefonata al negozio sotto casa e viene consegnata a domicilio. Sottilette della tal marca, biscotti di quell’altra, cibo pronto surgelato ma solo del tal produttore, fettine. E rotoli su rotoli di Scottex. Prodotti chiesti da una voce e consegnati a una mano: né il negozio, né il fattorino hanno mai visto né il figlio, né la figlia.

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QUEL TUBO ROTTO...
Cosa ha finalmente spalancato quella porta dopo oltre trent’anni? Un banalissimo tubo rotto. Una perdita d’acqua che alla fine della scorsa estate ha infradiciato il muro dell’ingresso del palazzo. I condomini hanno dovuto chiudere l’acqua all’appartamento e hanno avvertito che non c’erano alternative: serviva un idraulico per far riparare il tubo.
Non è stato facile. «Se non ti vuoi far vedere, apri la porta, vai in camera e aspetta là che l’idraulico abbia dato un’occhiata», ha implorato una vicina rivolgendosi alla figlia. Ma non c’è stato bisogno. Alla fine la porta si è aperta: al posto della splendida ragazza di un tempo c’era una bellissima cinquantacinquenne. Che per la prima volta dopo trentatré anni guardava in faccia una persona estranea.
IL RACCONTO DELL'IDRAULICO: "COME IN UN GIRONE DANTESCO"
L’idraulico che per primo ha messo piede in casa ha raccontato di un girone dantesco. Un tanfo nauseabondo da non respirare, il pavimento appiccicoso ridotto a un filo di mattonelle tra montagne di sacchi. Ogni centimetro quadrato della casa foderato di carta Scottex ingiallita, sacchi ovunque, bambole di ogni foggia accatastate là, quintali di vecchi giornali buttati nei sacchetti di qua, buste con l’immondizia, scarafaggi che spuntano da ogni pertugio, roba su roba ammassata in ogni angolo. E manciate di sorpresine Kinder, musicassette, panni. In un sacco sono stati trovati 57.000 euro, i risparmi di una vita.
La casa è ormai impraticabile: lo sciacquone fuori uso sostituito da un secchio d’acqua; la vasca nera di sporco e calcare usata come ripostiglio; il lavandino spaccato e tenuto insieme con il nastro adesivo. E tra l’immondizia e lo sporco, il letto con il pover’uomo paralizzato a malapena raggiungibile tra montagne di sacchetti.
L’idraulico si rifiuta di fare il lavoro a causa delle condizioni (non) igieniche. Ne scoppia una discussione. La figlia minaccia di chiamare i carabinieri se non gli ripara il guasto. Ma l’idraulico è irremovibile. Che fare? Qualcuno chiama il parroco che trova un altro idraulico, ma quando i due si presentano, ciò che si para loro davanti è troppo. Entrambi sono presi da conati di vomito.
E DOPO 33 ANNI L'INTERVENTO DEL SINDACO
I trentatré anni finiscono così: una segnalazione al sindaco, l’emanazione di un’ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio e il ricovero in due differenti strutture: la figlia in una casa d’accoglienza, suo fratello e la madre in un ricovero in provincia. Gli addetti del Comune hanno disinfettato l’appartamento e rovesciato copioso insetticida fin sotto il portone, hanno installato gabbie per topi e aperto le finestre. Per la prima volta in casa è entrata aria fresca.
È passato quasi un anno. L’anziana madre e i due figli stanno meglio e la figlia poresto potrebbe tornare. Quanto alla casa, è ancora lì, intatta come il giorno in cui fu aperta. Solo in questi giorni i parenti hanno potuto metterci piede, per iniziare a sgomberare e a ripulire in vista del ritorno della donna.
In paese, intanto, chi passa di là alza lo sguardo alle finestre e continua a chiedersi come sia potuto succedere. Come è possibile passare una vita intera incarcerati nelle proprie paure? Perché i servizi sociali, gli unici che in questi anni sono potuti entrare in quella casa e vedere le condizioni di vita di questa famiglia, non sono intervenuti prima? L’assistente sociale ha fatto tutto il possibile?
Della vicenda restano questi interrogativi e un appartamento vuoto, che attende ancora di essere rimesso a posto per ospitare una famiglia che forse, con un aiuto vero, potrebbe riuscire a tornarci a vivere un’esistenza alla luce del sole.

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