giovedì 29 marzo 2018

FAMILISMO AMORALE. DOPO BANFIELD, FUBINI. F, FUBINI, Gli anni passano. La sfiducia degli italiani, no, SETTE. CORRIERE.IT, 29 marzo 2018

A metà degli anni 50 un uomo di poco più di trent’anni, cresciuto in una fattoria del Connecticut, decise di stabilirsi per un anno in un’altra località di campagna: Chiaromonte, provincia di Potenza. Il suo nome era Edward Banfield e, benché non parlasse una parola della lingua locale, poteva contare su una moglie italo-americana di nome Laura Fasano. 


Con lei, senza muoversi da Chiaromonte per mesi, Banfield inizia uno dei viaggi intellettuali che avrebbero definito la percezione dell’Italia nel mondo e del Mezzogiorno in Italia per tutto il dopoguerra. Il libro di Banfield sul suo anno a Chiaromonte esce nel 1958 negli Stati Uniti con il titolo: Le basi morali di una società arretrata. Il ragazzo cresciuto in una fattoria era avviato a diventare un celebre studioso di Scienze sociali ad Harvard. E sulla base della sua esperienza in Lucania descrive un paese (chiamato con lo pseudonimo di «Montegrano») paralizzato e impoverito da una profonda sfiducia: degli uni verso gli altri e di tutti verso le istituzioni comuni. Si salva da un sentimento così corrosivo solo la famiglia nucleare, quella più stretta, che bisogna dunque cercare di favorire anche a costo di danneggiare il prossimo e il resto della collettività. In una comunità del genere è dunque razionale cercare di raggirare o distruggere il prossimo perché questi – non appena potrà – farà lo stesso con te. Nasce così la celebre definizione del «familismo amorale»: accresci più che puoi il vantaggio materiale di breve termine della famiglia nucleare, dando per scontato che gli altri faranno lo stesso. Non importa se questa assenza di fiducia negli altri comporti l’evadere le tasse in uno Stato già indebitato, parcheggiare in doppia fila in una città già soffocata dal traffico oppure pagare la camorra per disfarsi dei rifiuti tossici in un campo dove giocheranno i figli d’altri.
Suona familiare nell’Italia del 2018? Suona obsoleto? Oppure questa strana malattia delle strutture mentali si è ormai estesa dalla Lucania, o dal Mezzogiorno degli Anni 50, fino a vaste aree del Paese e della testa di ciascuno di noi? Così scriveva Banfield allora: «Il fatto che i montegranesi siano prigionieri del loro ethos incentrato sulla famiglia, e che per questo non siano in grado di agire di concerto o per il bene comune, è un impedimento fondamentale al loro progresso economico o di altro tipo».

Il mio viaggio per l’Italia è partito da qua. Volevo capire cos’era rimasto, cos’era cambiato e cosa si era trasmesso a noi sessant’anni dopo. Va detto subito che oggi a Chiaromonte («Montegrano») non un solo vicolo è dedicato a Edward Banfield. Lui ha reso celebre questo piccolo, affascinante paese arroccato sull’Appennino; ma nel luogo che è teatro e protagonista del suo grande libro la memoria dell’autore è non grata. Non ho trovato affissa neanche una targa sulla casetta dietro la chiesa dove lui aveva abitato, forse perché l’ingiuria dell’analisi brucia ancora. Oltre sessant’anni dopo, però, non potevo limitarmi a un safari intellettuale. Dovevo mettermi in gioco, e l’ho fatto durante pochi giorni d’inverno in cui Chiaromonte era sepolta sotto mezzo metro di neve.Dovevo capire se nell’ethos dei «montegranesi» e di tutti noi italiani la fiducia e il senso civico che essa porta con sé, tre generazioni dopo, avevano guadagnato terreno contro la sfiducia e i comportamenti «amorali» che relegano il Meridione a uno sviluppo ritardato e l’Italia allo stato perenne di indefinibile anomalia europea. Su questi temi ho scritto un libro, La maestra e la camorrista (Mondadori) che in una serie di test mostra per esempio che, già a cinque anni di età, in media la fiducia nel prossimo di un bambino in un quartiere povero di Napoli è molto più bassa di quella di un coetaneo di una famiglia borghese di Milano. Ma a Chiaromonte ho fatto un esperimento diverso: in quel weekend di neve, ho preso possesso di un tavolino nel bar del centro e ho presentato agli abitanti esattamente le stesse domande che Banfield aveva posto all’epoca ai loro nonni, per misurarne la psicologia. Naturalmente, non ho avvertito che erano le stesse. I test di Banfield sono sempre ambigui, perché impongono a chi ascolta la scelta fra due affermazioni contrastanti: di solito una delle due mette il vantaggio materiale della famiglia nucleare al primo posto, privilegiandolo rispetto a comportamenti positivi per la collettività. Per esempio si chiede alla persona di scegliere fra le seguenti frasi: «Quell’uomo trascura il padre e la madre anziani, ma non ruba»; oppure «Quell’altro ha molta cura di suo padre e sua madre, ma è un ladro». Deve prevalere la virtù filiale o l’onestà sociale? La fiducia impersonale nel prossimo e nelle regole del vivere civile, oppure il legame familiare? E voi come rispondereste?
Gli abitanti di Montegrano nel 1954 su questa questione si erano divisi, finendo per formare una larga minoranza di consensi alla prima affermazione: meglio ladro, purché figlio fedele ai genitori. Anche i loro nipoti di Chiaromonte sessant’anni più tardi si sono divisi e hanno prodotto la stessa maggioranza risicata che dice: meglio onesti nella vita sociale, anche se figli un po’ degeneri nelle mura domestiche. L’idea che la virtù privata fosse da preferire al vizio pubblico era di poco minoritaria, allora come oggi. In generale però in questi lucani contemporanei, ormai emancipati dal bisogno materiale, la mentalità tipica del familismo amorale era indebolita. Per esempio al mio passaggio a Chiaromonte solo una minoranza (ma corposa) approvava l’idea di sposare un partner brutto e non amato, però ricco, per poter aiutare così la propria famiglia di origine; una maggioranza (ma tutt’altro che schiacciante) privilegiava invece un matrimonio d’amore con un coniuge indigente, anche a costo di lasciare la propria famiglia di origine in miseria. Nel 1954 ciò era inconcepibile: tutti preferivano il matrimonio con la moglie brutta ma ricca. Dunque, passi avanti. Forse non abbiamo più la testa appesantita dalla sfiducia tipica di una «società arretrata».
Però non mi bastava e allora ho inserito nel test una variante un po’ diversa: sono andato all’estremo opposto dell’Italia; sono andato, in particolare, fra gli allievi del Collegio Ghislieri di Pavia. Lo conoscete di fama, come minimo. Il Ghislieri è uno di quei pochissimi collegi universitari davvero di élite, dove si entra con una selezione meritocratica che lascia passare – in media – uno studente su mille. Culturalmente, il meglio dell’Italia di domani. È a questi ragazzi che ho posto le stesse domande – sempre senza spiegarle prima – e mi sono accorto che le risposte erano in sostanza molto simili a quelle dei “montegranesi” di oggi. Una minoranza corposa dei brillanti allievi del Ghislieri (arrivano a Pavia da tutt’Italia) approva ancora l’idea di sposare una moglie indesiderata pur di aiutare la propria famiglia di origine; una forte minoranza preferisce un figlio ladro che però si prende cura dei vecchi genitori. È a quel punto che ho introdotto ulteriori domande. La prima è una variante aggiornata di un test già fatto da Banfield: preferisci essere comproprietario di una grande azienda agricola, o padrone unico di un piccolo appezzamento? I «montegranesi» del 1954 avevano votato nettamente per la seconda opzione: meglio minuscoli ma senza dover cooperare con altri (fiducia, zero). E sia i loro discendenti di oggi che gli allievi del Ghislieri hanno risposto in maniera sostanzialmente uguale a quei montegranesi di sessant’anni fa. A quel punto ho fatto un passo in più: ho chiesto se sia da considerare migliore una persona che presta spesso volontariato alla Croce Rossa, ma ha poco tempo per i figli; oppure un’altra persona che si dedica molto ai figli, ma non fa vita di comunità. E quello che fa il volontario alla Croce Rossa ha straperso, sia nella Chiaromonte di oggi che nel Collegio Ghislieri. In questo la questione meridionale, emotivamente, è diventata la grande questione italiana. Non siamo più gli esseri sospettosi, gretti e diffidenti emersi dal Mezzogiorno dell’età pre-industriale. Ma per certi aspetti il Sud parla per l’Italia. E il cammino della fiducia collettiva resta più lungo di quanto non ammettiamo a noi stessi.

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