domenica 16 settembre 2012

SOCIOLOGIA E STRATIFICAZIONE SOCIALE. FEDERICO RAMPINI, La 'superclasse' che lucra anche sulla crisi, LA REPUBBLICA, 21 giugno 2008

Gli arresti a Wall Street non risolvono il problema di un sistema che ha creato un ristretto gruppo di straricchi a spese di tutti gli altri
I 1.100 capitalisti più ricchi del mondo controllano una ricchezza superiore a 2,5 miliardi di esseri umani


La maxiretata dei "banchieri dei mutui" effettuata dagli agenti dell'Fbi non è il capitolo finale del crac. Il sipario non si chiude con gli arresti di ieri. Il seguito della storia è ancora nascosto nelle pieghe dei bilanci delle banche. La pulizia delle perdite è stata tutt'altro che completa. Le voragini che devono ancora emergere possono infliggere colpi tremendi alla stabilità finanziaria, e nuove ondate di contagio da Wall Street verso il resto del mondo.

Mentre la magistratura Usa procedeva alle retate dei primi manager bancari per la crisi dei mutui selvaggi, il segretario al Tesoro Henry Paulson concludeva un summit bilaterale con il governo cinese ad Annapolis nel Maryland. In una vigorosa arringa Paulson ha spiegato perché la Repubblica Popolare deve liberalizzare al più presto i suoi mercati finanziari, adottando il modello della deregulation americana.

Nelle foto del summit si notano i sorrisi divertiti dei dirigenti cinesi mentre Paulson parla. Avevano appena visto sfilare sugli schermi tv i banchieri americani in manette. Una volta tornati a casa, è poco probabile che si affrettino a trapiantare a Pechino la ricetta che Paulson (ex chief executive della Goldman Sachs) continua a propagandare.

Gli arresti legati al crac dei mutui - una crisi emersa alla luce del sole meno di un anno fa - possono suscitare ammirazione: l'Fbi e i procuratori distrettuali americani hanno agito in tempi record e con severità. Le pene saranno dure, nessuno in America contesterà l'azione dei magistrati, e attraverso le class action i risparmiatori forse otterranno qualche compensazione. Ma nel resto del mondo il sentimento dominante oggi non è l'ammirazione per il blitz della giustizia, che comunque non ripara gli effetti del contagio globale di una crisi finanziaria made in Usa. Il modello angloamericano è in una vorticosa caduta di credibilità.             

     La Repubblica Popolare non offre certo un esempio migliore. I difetti dei mercati cinesi sono noti: banche opache, Borse ad alto rischio, risparmiatori poco tutelati, collusione fra capitalismo e potere politico. Oggi però lo stesso elenco può servire a descrivere i mercati americani. Nel mondo intero il sistema anglosassone soffre di un rigetto senza precedenti. E non solo presso regimi autoritari come la Cina. L'India ha preso una misura drastica vietando alla Borsa di Mumbai le contrattazioni sui futures di materie prime agricole: di fronte all'iperinflazione alimentare, il governo democratico di Manmohan Singh giudica inaccettabile lasciare in mano alla speculazione un mercato da cui dipende la sopravvivenza di centinaia di milioni di suoi concittadini.

Anche ai vertici dei paesi ricchi dell'Occidente si sentono giudizi di una severità inusuale. Il presidente della Repubblica federale tedesca Horst Koehler ha pronunciato una requisitoria pesante contro la logica di Wall Street: "La complessità dei prodotti finanziari, e la possibilità per gli speculatori di prendere posizioni cospicue rischiando pochissimi capitali propri, hanno generato un mostro". Koheler prima di accedere alla massima carica dello Stato tedesco non era un agitatore dei no-global bensì il direttore generale del Fondo monetario internazionale, una venerabile istituzione dove in genere i mercati finanziari non vengono definiti "un mostro".

Il crollo di fiducia nel modello americano si insinua nel cuore di Wall Street. John Paulson (stesso cognome ma nessuna parentela col segretario al Tesoro) è uno dei più importanti gestori di hedge fund e fu uno dei primi ad avvertire le avvisaglie del crac dei mutui. In un'intervista al Financial Times ha stimato che il vero buco tuttora nascosto nei bilanci delle banche è di 1.300 miliardi di dollari, contro 380 miliardi di perdite finora riconosciute ufficialmente. Ha aggiunto che "la crisi del mercato immobiliare non accenna neppure a stabilizzarsi, il contagio continuerà a estendersi ad altri settori". Le manette scattate ai polsi di tanti manager americani non bastano ad arginare la metastasi.

Sempre a Wall Street la direttrice della vigilanza della Sec (l'autorità di controllo dei mercati finanziari), Linda Chatman Thomson, mette il dito sulla piaga più grave: l'illegalità dilagante ai vertici dell'establishment. "Sono turbata e sgomenta", ha detto osservando la montagna di indagini su casi insider trading che si accumula sulla sua scrivania. "Questi non sono pesci piccoli, ma dirigenti che stanno in cima alla piramide gerarchica". Dalla Morgan Stanley alla Ubs svizzera, gli scandali si moltiplicano e Linda Thomson invoca la necessità di un "global law enforcement", un poliziotto mondiale.

Il suo suona come un grido di impotenza, venendo da quella istituzione che un tempo era considerata un guardiano invincibile. Sono passati appena sette anni dal crac Enron e quella lezione sembra non aver lasciato traccia. La caduta di legittimità mondiale del sistema americano ha qui la sua causa più profonda: proprio quei gruppi dirigenti capitalistici al centro di una grave "questione morale", sono anche i massimi beneficiari della globalizzazione.

David Rothkopf, del Carnegie Endowment, li ha definiti la Superclasse, ovvero la nuova élite del potere sovranazionale. Rothkopf descrive una vera e propria mutazione della classe dirigente: "La metamorfosi della finanza internazionale è stata una delle tendenze portanti di quest'epoca. In un quarto di secolo i flussi di capitali sono diventati immensi, istantanei, e controllati da una nuova razza di trader che rappresentano un manipolo di colossi finanziari concentrati in pochissimi paesi. Le loro remunerazioni personali hanno polverizzato ogni precedente storico: il manager più pagato di uno hedge fund nel 2007 ha intascato da solo tre miliardi di dollari. La concentrazione di potere è cresciuta a dismisura. Le 50 maggiori istituzioni finanziarie controllano 50.000 miliardi di dollari di attivi, un terzo dei capitali mondiali. Il potere di ricatto di queste élite è tale che da una parte esse pretendono che i nuovi strumenti finanziari globali si autoregolino; d'altra parte quando è arrivata la crisi questi campioni del liberismo hanno convinto i governi a curare le loro ferite, mentre le famiglie dei lavoratori si vedevano pignorare le case. Queste élite guadagnano miliardi comunque, sia che i mercati vadano su o che vadano giù. Gli amministratori delegati delle multinazionali trent'anni fa guadagnavano mediamente 35 volte più dei loro dipendenti; oggi guadagnano 350 volte di più. I 1.100 capitalisti più ricchi del mondo controllano una ricchezza superiore a 2,5 miliardi di esseri umani".

Se il consenso politico verso la globalizzazione perde colpi nel mondo intero, America inclusa, una parte della responsabilità va ai sabotatori dall'interno, i vertici del capitalismo americano. Noi non abbiamo ancora finito di pagare il conto.                   

Nessun commento:

Posta un commento