giovedì 18 ottobre 2012

SOCIOLOGIA DELLA SOCIETA' DI MASSA. GALLINO L., Voce 'Massa' in Dizionario di sociologia, UTET





M assa
(fr. masse-, ingl. m ass; sp. masa-,
ted. Mass).
 Secondo l'accezione più seguita
nella sociologia contemporanea, si
intende per M. una moltitudine di persone
politicamente passive, in posizione
di oggettiva dipendenza rispetto
alle istituzioni portanti di una
società - politiche, economiche, militari
- e quindi fortemente influenzabili
da esse, incapaci di organizzarsi
e di esprimere una propria volontà,
che coincide con la gran maggioranza
della popolazione in tutti quei paesi
industriali avanzati, non solamente
quelli capitalistici, ove si sarebbe
ormai sviluppata una società d i M.



(v.). Il termine viene peraltro usato da
lungo tempo con grande varietà di sig
nificati, a vo lte da parte di uno
stesso autore e nello stesso testo, e
molti di essi sono generici o ambigui,
forse più di ogni altro termine del
linguaggio sociologico.
B. Il termine M. ha avuto sin da
tempi remoti non meno di tre referenti
diversi, con due connotazioni pressoché
opposte per ciascuno. Per alcuni
il referente di M. è sempre stato il
popolo lavoratore, il proletariato (v.)
delle campagne e delle città, ciò che
si potrebbe chiamare l’insieme delle
classi governate-, per altri sono state
piuttosto le classi medie (v.), cioè la
piccola e media borghesia, che se pure
non si identifica con la classe governante
è quanto meno - si afferma
- la forza sociale che l’esprime e la
condiziona, imponendo la propria
volontà a qualsiasi governo. A tali
accezioni «politiche» si è spesso affiancata,
e a volte sovrapposta, una
accezione psicosociale dei termine: la
M. come manifestazione materiale
di moti collettivi, moltitudine fisicamente
concentrata in uno spazio limitato
a causa di s tim o li o pulsioni
condivise. In questo caso M. tende a
diventare sinonimo di folla. Inoltre,
posti dinanzi ai movimenti di emancipazione
delle M., intese vuoi come
proletariato vuoi come classi medie
- movimenti che con ambedue i soggetti
si sono sovente espressi in moti
di folla - alcuni li hanno considerati
un fenomeno progressivo, mentre altri
vi scorgevano il segno che anticipava
la fine d’una civiltà fondata su valori
aristocratici. L’ intreccio dei tre
diversi referenti, nitidi solo se presi isolatamente,
e delle opposte connotazioni
presso vari autori, è all’origine di
molte odierne ambiguità del termine,
del quale è pertanto essenziale
ripercorrere brevemente la storia.
Nel tardo Medioevo erano chiamate
M. certi tipi di corporazione d’arte
e di mestiere, in specie di quelli più comuni.
Tale associazione con i lavori
manuali ha probabilmente influito su
uno dei successivi usi del termine per
designare, al plurale - le M. - gli ordini
o ceti inferiori, gli strati sociali
più poveri, il popolo minuto del contado,
dei borghi, delle città. Codesto uso
era normale in molte lingue europee,
ma non in italiano, nel Sei- e Settecento.
Durante l’Ottocento il termine M. si
diffuse nel linguaggio storico, politico
e sociologico europeo per una serie
di fattori: da un lato, la formazione di
un proletariato industriale che si concentrava
visibilmente nelle città, lo sviluppo
tra le sue file di un forte movimento
sociale (v.), la parte avuta dai
moti di folla durante la Rivoluzione
francese, poi nei moti rivoluzionari del
1848, infine nella Comune di Parigi;
dall’altro, lo sviluppo delle classi medie,
il ruolo sempre più ampio che svolgevano
nell'economia, e la loro parallela
ascesa politica culminante nelle rivoluzioni
del '48, cui parteciparono
in prima linea le M. popolari ma di
cui le classi medie furono per allora
le principali beneficiarie.
La nuova dimensione, presenza e
visibilità delle classi inferiori sollecitò
i primi interpreti del movimento sociale
a impiegare il termine M. con
una connotazione progressista, per
designare nelle M. proletarie gli agenti
del mutamento storico e i futuri soggetti
della nuova società che sarebbe
dovuta emergere dalle rovine della
società borghese. Così lo impiega
Marx, quando afferma, nella Introduzione
alla critica della filosofia hegeliana
del diritto (18 41 -184 2), che
la filosofia diventerà forza materiale
allorché si impadronirà delle M., viste
come un aggregato di proletari ancora
privi di una adeguata coscienza
di classe (v.). Tale accezione e connotazione
di M. è rimasta pressoché
immutata nel pensiero marxista, sino
ai contemporanei. La dialettica tra
la M. disgregata e incoerente, sia
come organizzazione sia come cultura,
e il partito e gli intellettuali come
agenti di unificazione ideologica
e organizzativa, sarà un nodo centrale
delle riflessioni di Gramsci (cfr.
Nardone, 1971). Al polo opposto dello
schieramento ideologico di fronte
al problema delle M. moderne, autori
quali Burckhardt e Nietzsche,
avendo per referente più l’ascesa delle
classi medie che quella del proletariato,
scorgono invece nell’avvento
delle M. l’espressione del declino della
c iv iltà europea, il trio n fo della
mediocrità, l’affermazione dell’egoismo
e della ristrettezza di orizzonti
culturali e politici degli individui più
irresponsabili e inetti. Un noto passo
delle Considerazioni sulla storia
u n ive rsa le di B u rc kh a rd t (1 8 6 8 ,
1 8 7 0 -1 8 7 1 ), nel quale suona uno
sprezzo per il numero come principio
base della democrazia, il cui nucleo
può farsi risalire addirittura ad
A ris tote le (la democrazia non è il
miglior governo, ma solo quello degli
o/ polloi, dei molti), compendia efficacemente
il pessimismo aris tocratico
dell’epoca: «Il futuro appartiene
alle M., o agli uomini capaci di
spiegar loro le cose nel modo più
semplice»; i capi delle M. moderne
sono perciò, di necessità, dei «terribili
semplificatori».
Tra i due estremi si situano, avendo
ancora per referente le classi medie, alcuni
convinti fautori della democrazia
(v.) liberale, come A. de Tocqueville e
J. Stuart Mill, i quali temono però che
le forme di governo democratico diano
origine a un nuovo genere di dispotismo,
la cosiddetta «tirannia della


maggioranza». Tocqueville non usa
il termine M., ma il capitolo che ne La
democrazia in America (t. Il, 1835)
egli dedica alla «onnipotenza della
maggioranza negli Stati Uniti», e ai
suoi effetti in varie sfere, lo colloca a
pieno titolo fra i precursori del significato
di M. come agente politico attivo,
e anzi pericolosamente attivo,
mentre i sociologi contemporanei ne
teo rizzera nno in special modo la
passività. Sulla stessa linea Stuart
M ill, che nel saggio su La lib e r tà
(1859) formulò le regole cui una società
democratica dovrebbe attenersi
per ev ita re che l ’ in d iv id u o sia
schiacciato dall’opinione pubblica, dal
costume, dai gusti della maggioranza,
definisce la M. come la «mediocrità
collettiva», notando che essa coincide,
nell'America dei suoi tempi, con
l’ insieme della popolazione bianca,
mentre in Inghilterra è costituita «soprattutto
dalle classi medie» (Stuart
Mill, 18 59 ; ed. it. 19 46 , p. 109),
quella M. di «droghieri e mercanti»
che più degli operai formavano allora
l’incubo dell’aristocrazia. Anche nel
pensiero di Mill la M. non è quindi una
moltitudine politicamente irrilevante,
anzi; i rischi per la democrazia non
derivano dalla sua apatia politica,
bensì dalle sue attive rivendicazioni,
che esasperano il principio maggioritario
a danno dell’autonomia e della
c reatività in d iv id u a li di cui una
democrazia ha più bisogno di altri; i
governi non sono lo strumen to di
un’élite per dominare le M., ma il
potere che esse esprimono per schiacciare
qualsiasi deviazione dalla norma,
dalla «normalità» dominante.
L’interpretazione conservatrice o reazionaria
dei fenomeni di M. ha avuto
largo corso, fino ai giorni nostri, anche
per l’influenza di due opere ampiamente
diffuse in tutte le lingue, La psicologia
delle folle, di G. Le Bon (1895),
e La ribellione delle masse, di J. Ortega
y Gasset (1 9 3 0 ). Il referente temuto
e odiato da Le Bon sono le folle
rivoluzionarie francesi, di cui Taine aveva
tratteggiato pochi anni prima la cieca
suggestionabilità (Lancien régime,
1876), e di fatto la sua analisi tratta
spesso di fenomeni che attengono
propriamente alla folla, intesa come
moltitudine di individui radunati in
un determinato luogo e tra loro interagenti
sulla base di pulsioni e credenze
condivise, ancorché elementari. In
essa emergono i lati peggiori dell’individuo,
il quale regredisce così a forme
arcaiche di irresponsabilità e di violenza,
che ciascun singolo, preso a sé,
respingerebbe con sdegno. D’altro lato
Le Bon usa il termine M. sia per
intendere gli individui nella folla, che
sono appunto «trasformati in M.»,
sia per designare moltitudini anonime,
da cui le folle in senso proprio emergono.
Quest’uso libero e acritico del termine
M. gli verrà rimproverato da
molti sociologi posteriori, da Tarde (in
L’opinion et la fou le, 1 9 0 1 ) a von
Wiese. Il referente di M. di Ortega y
Gasset, pur avendo connotazioni spregiative
analoghe a quelle di Le Bon -
della M. vengono sottolineati sempre
e soltanto la carica distruttiva, l’irresponsabilità,
la regressione a stati infantili
o atavici, il crasso egoismo e lo
sprezzo dei valori più alti - è alquanto
diverso. La M. è di nuovo la moltiJacob
Burckhardt
dichiara:
«Il futuro appartiene
alle masse, o agli
uomini capaci di spiegar
loro le cose nel modo
più semplice».
(Camille Fissano,
"Place du Havre",
Art Institute of Chicago,
Chicago, 1893)
tudine incolore, opaca, indistinta, di
uomini medi, prodotto della tecnica e
della democrazia liberale, convinti che
la vita è facile e abbondante, paghi del
proprio patrimonio morale e intellettuale
e perciò chiusi a ogni istanza
esterna, e pronti quindi a imporre a tutti,
in ogni momento, la loro volgare opinione,
«secondo un regime di azione
diretta» (Ortega y Gasset, 1930; ed.
it. 1962, p. 89).
Dagli inizi del XX secolo, nei paesi
di lingua tedesca, dove l’opera di Le
Bon viene tradotta ben presto con il
titolo Psychologie der Massen (19122),
il termine Masse è stato ed è preso
frequentemente per designare un aggregato
di persone radunate in un
luogo e tra loro interagenti sulla base di
emozioni derivanti dalla presenza reciproca
e dall’orientamento comune
di fronte a uno stimolo, uno scopo, un
pericolo; è cioè sinonimo di folla (il
referente numero tre) sebbene a differenza
di questo termine non implichi di
necessità la presenza di un gran numero
di persone in uno spazio ristretto, ma
semplicemente una compresenza di
persone, poche o molte che siano. Tra
l’imponente letteratura tedesca sulla
psicologia delle M. così intese-già nel
1915 sarebbe stato impossibile compilare
una bibliografia completa su tale
soggetto - spicca l’opera di Elias Canetti,
Massa e potere (1960).
Per altri autori, tedeschi e non, il termine
M. designa invece una forma specifica
della sociabilità (v.), che può
coincidere o no con una moltitudine radunata.
Gli autori che hanno maggiormente
contribuito allo sviluppo di
questo concetto di M. sono Freud,
von Wiese e Gurvitch. Per Freud la M.
è un numero rilevante di persone collegate
tra loro, in modo da costituire una
unità - naturale o artificiale, spontanea
o organizzata - ad opera di una «potenza
» o legame psicologico riconducibile
in ultimo a una manifestazione dell’Eros.
Caratteristico del fenomeno
«M.» è che un individuo, di cui sono
note le predisposizioni, i motivi, le intenzioni,
mostra di sentire, pensare e
agire in maniera affatto diversa quando
sia inserito in una «moltitudine umana
» sulla base di uno specifico vincolo

 affettivo; o anche solo quando, sulla
stessa base, egli si riferisca a essa.
Non è in fa tti indispensabile che la
«moltitudine degli altri» sia fisicamente
presente (Freud, 1921: ed. it.
1971, p. 67 sgg., p. 89 sgg.). Il costituirsi
di questa «pulsione sociale»
non è attribuibile soltanto al fattore numerico;
alle sue origini v’è un ambito
più ristretto, la famiglia. Detta pulsione
però diventa operante in nuove direzioni
allorché l’individuo si collega con
altri in una M. A parte il contributo
così dato a una più approfondita definizione
del concetto di M., Freud anticipa
qui la teoria del gruppo di riferimento
(v.), il cui nucleo è appunto costituito
dall’osservazione che un individuo
che «si riferisce» a un gruppo da
lui apprezzato o temuto o desiderato,
agisce in un modo particolare, diverso
dal suo agire individuale, anche se
11 gruppo non è presente.
Pervon Wiese la M. è una formazione sociale
(v.) caratterizzata dalla comparsa
di un senso di solidarietà disorganizzata,
emotiva, e però orientata in
una stessa direzione. Egli sottolinea,
riprendendo alcuni spunti di Vleugels
- già presenti anche in Freud - la
fluidità del confine tra «moltitudine»,
cioè un mero aggregato o raduno di
persone che agiscono ciascuna per
motivi privati, e M. Un evento improvviso,
come la chiusura improvvisa di
un parco di divertimenti, può trasformare
la moltitudine degli spettatori
in una M. solidale. Importante è anche
la sua distinzione tra M. concreta e M.
astratta. La prima è costituita da persone
effettivamente radunate in un luogo
e quindi è osservabile da tutti, mentre
la seconda è formata da una moltitudine
di persone anche separate e
lontane che hanno in comune determinate
esperienze di vita, in base alle
quali possono eventualmente dar origine
a M. concrete. Affine a questa
distinzione, ma non esattamente corrispondente,
è la distinzione che lo
stesso autore stabilisce fra M. attuale
o attiva, e M. latente. Per Gurvitch
(1 9 6 3 2) la M. è una delle forme di
sociabilità mediante fusione parziale,
e precisamente quella che possiede un
minor grado di intensità: in essa la
fusione è debole e non interessa che le
manifestazioni più esterne dell’individuo.
Esse si interpenetrano solamente
in superficie con quelle di altri, mentre
gli aspetti più intimi della personalità
ne restano esclusi.
Uso occasionale benché frequente
del termine M. viene fatto per designare
un certo numero di persone
che agiscono in modo simile senza
avere rapporti tra loro. Questo concetto
di M., che corrisponde alla «moltitudine
» di Vleugels e di von Wiese,
è stato chiamato da Sombart, in una
sua rassegna dei significati del termine,
il concetto statistico di M.
L’odierno significato di M. come
moltitudine politicamente passiva, reso
in A a motivo del suo prevalere nella
sociologia contemporanea, non solo
nordamericana, si trova anticipato
ne ll'o pera di Mosca ed è stato
ampliato e affinato da Wright Mills.
In questa accezione M. designa
l’insieme dei governati, della maggioranza
amorfa e disorganizzata sottoposta
alla volontà e alla direzione della minoranza
organizzata, la classe p o litica
(v.), secondo la versione di Mosca;
ovvero, secondo gli sviluppi di Wright
Mills, la maggioranza della popolazione,
inclusi lavoratori e classi medie, che
nel sistema sociale del capitalismo
avanzato si trova in una posizione totalmente
subordinata, tutte le maggiori
decisioni essendo prese al vertice
della piramide del potere politicoeconomico-
militare da una élite (v.) che
appare nei fatti irresponsabile e inamovibile.
Mills definisce la M., in contrapposizione
al pubblico, come una formazione
in cui le caratteristiche originali
del pubblico si sono esattamente rovesciate:
«nella M., a) coloro che esprimono
un’opinione sono di gran lunga
meno numerosi di coloro che la ricevono
[...]; b) la comunicazione di notizie
e opinioni è quasi sempre organizzata
in modo tale che è difficile o impossibile
all’individuo controbattere immediatamente
con efficacia; c) il passaggio
dall’opinione all’azione è controllato
dalle autorità [...]; d ) la M. non
è autonoma rispetto alle istituzioni: in
essa penetrano anzi gli agenti delle autorità,
riducendo irrimediabilmente le
possibilità degli individui di formarsi autonomamente
un’opinione attraverso la
discussione» (Wright Mills, 1956: ed.
it. 1959, p. 320). A onta del disaccordo
tra Mills e Riesman sulla struttura
del potere nella società americana,
il membro tip ic o di codesta
M. è cara tte riz zato assai bene da
Riesman come l ’uomo eterodiretto,
e, in un contesto più specifico, da
Whyte come l ’uomo dell’organizzazione
(Riesman, 1950; Whyte, 1956).
Come si evince da un’altra opera di
Wright Mills, I colletti bianchi (1950),
quelli che costituiscono gran parte della
M. dominata dalle élite del potere,
il suo concetto di massificazione, ovvero
di trasformazione di una popolazione
di piccoli produttori indipendenti
in salariati, presenta più di una analogia
con il concetto di proletarizzazione
(v.), preferito nel linguaggio politico e
sociologico europeo. Hannah Arendt ha
sottolineato l'opportunità di applicare
il termine M. solamente a quella maggioranza
di persone politicamente neutrali
o indifferenti che non aderiscono
mai a un partito e che per la loro apatia
non possono venire integrate in alcuna
organizzazione fondata su un interesse
comune (19582, p. 311). Queste
M. hanno costituito il terreno di elezione
per lo sviluppo del fascismo (v.)
europeo negli anni ’20 e ’30.
Un ultimo significato di M., che si
contrappone virtualmente a tutti i precedenti,
è quello di moltitudine indifferenziata
di destinatari di messaggi
diffusi dai mezzi di comunicazione
di M. (v.), con l’implicazione che individui
separati e lontani reagiscono
in modo simile a stimoli simili. In questa
accezione il termine ha una componente
soggettiva che non ha nelle
altre; è infatti l’emittente dei messaggi,
o un osservatore che adotta il
suo stesso punto di vista, a etichettare
genericamente come M. i destinatari
dei messaggi stessi, ignorando
le caratteristiche sociali che possono
rendere anche estremamente diversi
i comportamenti dei soggetti
considerati, e stabilire tra loro rapporti
di conflitto o di solidarietà i più svariati.
Si giustifica così - ma soltanto
in questo caso - l'affermazione di
Raymond Williams, che «non vi sono
di fatto M.; vi sono solo modi di considerare
la gente come M.» (1 9 6 1 ;
ed. it. 1968, p. 354).
. L'analisi delle M. come formazioni
sociali specifiche - forme della sociabilità
o aggregati di persone riuniti in
uno spazio determinato, le une e gli altri
a volte coincidendo - ha dato luogo
a numerose tipologie che vertono sia
sulle caratteristiche strutturali della M.,
sia sui diversi stati che un dato tipo di
M. può assumere. Le stesse tipologie
sono però prive di senso se il referente
è invece la maggioranza politicamente
inerte. Tra le caratteristiche strutturali
più frequentemente considerate
rientrano il modo di formazione, che
può essere naturale, ad opera di processi
sociali non intenzionalmente attivati
da alcuno (e in questo caso la
M. si avvicina alla folla) o artificiale,
in forza di una pressione esterna o di
un piano voluto dai partecipanti; il grado
di organizzazione e cioè di regolazione
e formalizzazione dei rapporti e
dell’attività interna alla M.; la durata,
che può andare da pochi minuti a molte
generazioni; il grado di complessità,
ovvero la differenziazione interna: vi sono
M. relativamente semplici e primitive
e altre finemente articolate; \’apertura
o la chiusura della M., che nel primo
caso accoglie nuovi membri come
si presentano, mentre nel secondo li respinge
o li sottopone a severa selezione;
il grado d i visibilità, cioè di percettibilità
da parte di osservatori esterni;
la dominante affettiva, intesa come
lo stimolo o lo scopo che integra e
orienta la M.: la fuga dinnanzi a un
pericolo, l’aggressione nei confronti di
individui di altri gruppi, una festa; la
composizione, che può risultare internamente
omogenea o fortemente eterogenea;
le funzioni cui la M. contribuisce,
a livello individuale o collettivo, da
una (M. unifunzionale) a molte (M.
multifunzionale); infine il ritmo d i azione,
più o meno rapido o accelerato.
Combinazioni specifiche delle diverse
modalità di queste caratteristiche distinguono
tipi particolari di M.: così la
chiesa e l’esercito sono M. artificiali, organizzate,
durevoli (Freud); i partecipanti
a una festa campestre costituiscono
invece una M. naturale, aperta,
scarsamente organizzata, eterogenea e
transitoria. L’individuazione di un tipo
di M. così operata permette di inferire
altre sue caratteristiche e di prevedere
con una certa approssimazione il suo
comportamento in varie circostanze.
Qualsiasi M. particolare può assumere
parecchi stati, essere cioè latente
o attiva; con o senza guida; tranquilla
o morbosamente eccitata; concreta,
composta da determinate persone
fisicamente radunate o radunag
li, o astratta, costituita cioè da individui
che hanno in comune un unico
tratto o esperienza, come gli spettatori
di cinema o i tifosi di uno sport,
senza ulteriori caratterizzazioni e a
prescindere dalla loro collocazione nello
spazio o nel tempo.
Come s’è visto il concetto di M. si
collega strettamente ai concetti di
classe politica (v.), comportamento
collettivo (v.), comunicazione di M.
(v.), cultura di M. (v.), movimento soc
ia le (v.), società in d u s tria le (v.),
società d i M. (v.). Negli studi condotti
su tali temi si dà spesso rilievo


alla continuità esistente sia tra fenomeni
come M. e foila - tutte le folle
sono tipi di M., e molti tipi di M. originano
folle in presenza di determinati
stimoli - sia tra la M. e altri tipi di
comportamento collettivo.
 Con riferimento alla accezione
«politica» del termine si afferma spesso
che le M. sono un prodotto dell’industrializzazione,
dello sviluppo di élite
politiche, economiche e militari che
le escludono sistematicamente dalle
decisioni più rilevanti, della burocratizzazione
crescente di tutte le società
industriali, capitalistiche e socialiste,
della tecnologia e delle comunicazioni
di M. Tale affermazione si fonda
su una prospettiva storica errata. La
grande maggioranza della popolazione,
in tutte le società precedenti l’attuale,
non ha mai partecipato se non
in minima misura alle principali decisioni
politiche, almeno come soggetto
consapevole e responsabile. Parlare
di decadenza, di dissolvimento
delle qualità civili e morali più elevate
nel pelago della mediocrità collettiva,
significa scambiare un processo
di emergenza e di accrescimento della
visibilità sociale di M. di popolazione
per una degenerazione rispetto
a una situazione di reale cittadinanza
culturale e politica che in realtà non
è mai esistita per le M., essendo essa
in passato privilegio di ristrette élite.
È vero peraltro che il dissolvimento dei
legami della comunità locale (v.), l’urbanizzazione
(v.), l’organizzazione del
lavoro (v.) industriale, e in generale
lo sviluppo economico (v.) e la modernizzazione
(v.), hanno prodotto e tuttora
producono M. di natura e d imensioni
affatto nuove a paragone del
passato. Ciò ha dato origine a problemi
di interpretazione e di azione politica
del tutto originali.

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COLLETTIVO, B; MASSA, B.
M a s s if ic a z io n e , v. Massa, B; Società
di massa, B.
M at er ia lismo s t o r ic o , v. Formazione
ECONOMICO-SOCIALE, B; STORIOGRAFIA
E SOCIOLOGIA, B.
M a t r im o n io , v. Famiglia, B.
M ed ic in a , so c io l o g ia della
(fr. sociologie mèdi cale-, ingl. medicai
sociology-, sp. sociologia de la
medicina-, ted. Medizinsoziologie).
A. L’analisi sociologica della M.
prende a oggetto: a) le differenze osservabili
nella frequenza, natura, distribuzione
delle principali malattie tra
strati, classi, gruppi etnici, professioni,
mestieri, ricercando le cause dirette
e indirette di esse nella struttura globale
della società, nella organizzazione
del lavoro (v.), nei rapporti tra
una società, il suo (cosiddetto) ambiente
naturale (v.) e l’ambiente artificiale
che essa si è creata; b) i diversi
tipi di organizzazione sociale sviluppatisi
per la cura dei malati, considerati
sotto l’aspetto di is titu z io n i
(v.) e di sistemi soc iali (v.) e messi
M e d i c i n a , s o c i o l o g i a d e l l a
41
in rapporto con la struttura della società;
c) i ruoli sociali, le professioni,
le associazioni che si sviluppano attorno
alla pratica, all'insegnamento,
alla gestione sociale della medicina,
come gli ordini dei medici, i sindacati
degli infermieri, le facoltà di medicina;
d) le relazioni sociali e l'interazione
(v.) tra medico e paziente; e)
la scienza medica come forma di
scienza (v.), di conoscenza (v.) e di
ideologia (v.) f) le ideologie, gli atteggiamenti
correttivi, i pregiudizi relativi
alla salute e alla malattia, sempre
in rapporto alle strutture sociali in
cui esse si formano, si esprimono e
si trasformano.
Tradizionalmente viene inclusa nella
sociologia della M. anche la sociologia
delle malattie mentali (v.), ma
l’evoluzione della considerazione sociologica
di queste ultime, che arriva
in taluni casi a negarne la realtà ogge
ttiva, tende a farne un ramo di
studio relativamente indipendente.
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