venerdì 19 ottobre 2012

SOCIOLOGIA E ANTROPOLOGIA DEL CONFLITTO SOCIALE. RIVERA A. M., Intervista. "I suicidi sono l'espressione del conflitto sociale", IL MANIFESTO, 19 ottobre 2012

Proprio ieri è uscito un libro disperante (per «noi italiani») nella sua drammatica attualità, Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all'Europa (edizioni Dedalo). Lo ha scritto Anna Maria Rivera, antropologa all'università di Bari.




Perché un libro così?
Ho seguito da vicino la rivoluzione del 14 gennaio in Tunisia e cercando di ampliare le mie ricerche con un taglio antropologico mi sono resa conto che il nodo era quello dell'autoimmolazione, un fatto drammatico che ha favorito lo scatenamento della rivoluzione e il rovesciamento del regime. Il ragazzo che si è dato fuoco a Tunisi non è un caso isolato, il fenomeno è molto diffuso e continua tutt'ora nei paesi del Maghreb, in Algeria soprattutto. Solo che nessuno ne parla più. Ero convinta che prima o poi sarebbe arrivato anche in Europa. A Palermo, il caso di Mourredine Adnane presenta analogie impressionanti con il caso tunisino, si è dato fuoco il 10 gennaio 2011, era un ambulante e aveva subìto delle vessazioni da una squadretta di vigili urbani. E dopo di lui ce ne sono stati altri. Ho intuito subito che sarebbe toccato molto presto agli italiani.
Sono fenomeni comparabili?
Penso che appartengano alla stessa ondata - Emile Durkheim direbbe che sono fenomeni che si espandono per cicli - e che si inseriscano in un contesto abbastanza simile, la crisi economica e la sua gestione errata che non fa altro che riprodurre l'impoverimento delle classi medie. Quello che accomuna questi casi di suicidio è che sono espressione del conflitto sociale, l'elemento della rivendicazione estrema della dignità, anche se i mass media e la politica continuano ad occultarli.
Darsi fuoco è una scelta precisa?
E' il modo più spettacolare di torgliersi la vita, non si può non vedere una torcia umana in una piazza, è il suicidio pubblico più eclatante. Non a caso ci si dà fuoco davanti a un luogo che rappresenta il potere, grande o piccolo che sia. Si tratta della forma di protesta per eccellenza.
Eppure in Italia sono morti totalmente cancellate dall'indifferenza.
Anche in Francia è così... li chiamano faits divers, i giornali non scrivono nemmeno i nomi dei suicidati. Il paradosso è proprio questo. Sono convinta che si tratti di una espressione fenomenica del conflitto sociale, sono morti atroci che tentano di scuotere l'opinione pubblica e vengono soffocate dalla politica e dai media. In Italia ci sono sociologi di grido che negano l'aumento dei sucidi per motivazioni economiche, ma esiste un recente studio inglese che afferma proprio il contrario. In Grecia e in Israele non è così, quei martiri sono rivendicati come propri dai movimenti di protesta, alle manifestazioni gridano il loro nome dicendo è uno di noi. In Italia, invece, non accade nulla. Sto ascoltando il Gr3: non hanno nemmeno dato la notizia dell'uomo che si è dato fuoco davanti al palazzo del Quirinale. Ho scritto il mio libro anche per la rabbia.
Forse non è solo colpa dei media e della politica, l'opinione pubblica italiana sembra defunta.
Intendo dire del fare politica nel suo complesso, non parlo solo dei partiti e delle organizzazioni. Angelo Di Carlo, lo scorso agosto, si è suicidato davanti a Montecitorio, possiamo dire che era un compagno molto attivo: è stato dimenticato  da tutti. Le torce umane sono indizio di un malessere sociale profondo ma sono anche un grido strozzato, soffocato, mutilato, che la politica dovrebbe sforzarsi di raccogliere e articolare.
Lei dice che questi suicidi col fuoco esprimono un conflitto sociale. Montaigne, nei Saggi, scrisse che i «selvaggi» del nuovo mondo davanti alla povertà che videro a Bordeaux un giorno gli chiesero come mai i poveri non appiccassero il fuoco ai palazzi. Ecco, come mai?
Queste non sono tutte morti solitarie, spesso si innesca la spirale suicidio di protesta/rivolta, sono gesti che contengono la volontà di colpire il potere, ma trasformando questa ansia di vendetta in una forma non violenta. Capisco la metafora del Palazzo... credo che le persone che oggi trovano questo coraggio intuiscano anche che il «movimento» - inteso nella sua accezione meno definita - non abbia la forza di dar fuoco al Palazzo, o che non sia sua intenzione.
Soli e suicidi di fronte alla disperazione, è l'espressione del conflitto sociale più drammatica che ci sia.
Nessuno vuole comprendere e raccogliere quel grido, non i partiti e non il sindacato, che non ha nemmeno la forza di dare un senso alle ragioni che possono spingere un uomo che perde il lavoro a togliersi la vita con un gesto così drammatico.

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