lunedì 14 gennaio 2013

FRA NATURA E CULTURA. LA SOCIETA' IBRIDA. GIUSEPPE REMUZZI, Il gene politico, LA LETTURA,


E se il nostro credo politico dipendesse dai geni? Sì, avete letto bene. Le nostre idee su welfare, immigrazione, matrimoni gay e persino se si debba spendere molto o poco in armamenti: questo e molto altro potrebbe dipendere dai geni (e anche da certi ormoni e dalle proteine che regolano la trasmissione dei segnali fra cellule nervose). «La gente di solito va orgogliosa delle proprie convinzioni politiche», ha dichiarato in questi giorni a «Nature» John Hibbing, docente di Scienze politiche nel Nebraska. «Ciascuno di noi pensa che il suo modo di vedere le cose sia quello giusto; chi la pensa in un altro modo di solito sbaglia, non capisce, non si aggiorna». Secondo Hibbing invece dovremmo tutti essere meno chutzpah (la traduzione giusta non c’è, potrebbe essere «spudorati»): «Ciascuno dovrebbe capire che le cose della politica un altro le può vedere in modo diverso da te, non perché sia meno intelligente o meno colto, ma perché è fatto in modo diverso». Sarà vero? Forse.



Che potesse essere così l’aveva suggerito per primo Nicholas Martin, un genetista di Brisbane in Australia quasi vent’anni fa. C’era arrivato mettendo a confronto le idee politiche di gemelli identici e poi quelle di fratelli non gemelli (che condividono più o meno il 50 per cento dei geni). I risultati hanno sorpreso tutti: su aborto, pena di morte e pacifismo per esempio i gemelli identici avevano le stesse idee; i fratelli non gemelli, no. Martin aveva precorso i tempi e dei suoi studi allora non si curò nessuno.
Qualche tempo fa però John Alford, che insegna Scienze politiche a Houston, ripete gli studi di Martin sui gemelli e arriva alla stessa conclusione. Per gran parte del mondo scientifico però sono solo stupidaggini. Passano un po’ di anni e James Fowler dell’Università della California e Peter Hatemi, che lavora in Pennsylvania, ottengono ancora una volta gli stessi risultati su un numero molto più grande di gemelli (americani, australiani, danesi e svedesi). Queste evidenze però non scalfiscono lo scetticismo della maggior parte degli scienziati anche perché i gemelli di solito frequentano le stesse scuole, hanno gli stessi amici e tendono a passare molto tempo insieme anche da adulti. «Così — ribattono gli scettici — è davvero difficile escludere l’influenza dell’ambiente nelle idee politiche dei gemelli». Peter Hatemi non si scoraggia e va a cercare quei gemelli che frequentano scuole diverse, non hanno gli stessi amici e si frequentano poco. Di nuovo: stessi risultati. Anche quei gemelli di solito hanno le stesse idee politiche.
Gli scienziati che contano non si lasciano ancora convincere: «Nessuno di questi studi ci dice quali sarebbero i geni coinvolti». E ancora: «Per sapere se davvero c’è un’associazione di causa-effetto fra un certo assetto genetico e le convinzioni politiche si dovrebbe studiare l’intero genoma». Certo, ma sono studi difficilissimi; non è come studiare una famiglia o un gruppo di individui, si tratta di studiare genomi di popolazioni e poi non è affatto detto che sia un gene solo a rendere un tale «liberal» e un altro «conservatore», è verosimile che le scelte politiche dipendano da una interazione fra geni diversi, e dal loro rapporto con ormoni e altri mediatori chimici. Invece che imbarcarsi in studi così complessi — e costosi — meglio ragionare sui processi che collegano geni e comportamenti, che poi si traducono in quello che chiamiamo personalità. E c’è una logica in questo, scrive Lizzie Buchen su «Nature»: i «liberal» sono più aperti alle novità e di solito tollerano compromessi e ambiguità più dei «conservatori». Che sono invece più legati alle tradizioni, più determinati, più coscienziosi e apprezzano più dei «liberal» il valore di ordine e organizzazione. È logico che i primi saranno a favore dei matrimoni gay o dell’immigrazione più di quanto non lo siano i «conservatori». Che invece, in nome dell’ordine, vorrebbero regolamentare l’immigrazione in modo ferreo e proteggere la propria nazione con un esercito forte.
Sto semplificando, si capisce, ma per sbrogliare la matassa bisognava pur partire da qualche parte. Così Alford, Hibbing e Hatemi non mollano e dopo gli studi di personalità passano a esperimenti di fisiologia e vedono per esempio che il potenziale di eccitazione delle ghiandole sudoripare (indice, per quanto imperfetto, di certi stati emotivi) è correlato all’essere favorevole o meno alla pena capitale o alla guerra in Iraq, e che certi test visivi riescono entro certi limiti a discriminare «liberal» e «conservatori». Un esempio? Fanno vedere a un gran numero di persone immagini piacevoli (un bambino felice per esempio, un coniglietto molto carino) o disgustose (un ragno sulla faccia di un uomo, una ferita infestata dai vermi). Quelli che dicevano di essere «liberal» si soffermano di più sulle immagini positive, i «conservatori» sono colpiti soprattutto delle immagini che suscitano paura o disgusto. Si possono avere idee diverse — questi esperimenti messi tutti insieme sono suggestivi, ma non definitivi — certo, però se davvero fossero i geni a farci avere paura del diverso nessuno potrà convincerci a essere più tolleranti nei confronti degli immigrati. E vale per tanto altro. Ecco perché è piuttosto difficile che in politica la gente cambi idea, salvo che di fronte a eventi davvero traumatici. Chi era a New York l’11 settembre 2001, è andato incontro a un «conservative shift». Molti che non s’erano mai curati di patria, armamenti e religione hanno cambiato idea e sono passati dalla parte dei «conservatori».
Dove porterà la coscienza dei rapporti fra biologia e convinzioni politiche? È molto difficile saperlo, si può pensare che forse un giorno qualcuno voglia sfruttare la neurobiologia per fini elettorali, chissà. Intanto per John Alford sarebbe già un bellissimo risultato se la gente cominciasse a prendere atto che geni, ormoni e certe proteine coinvolte nella comunicazione fra cellule possono davvero contribuire a orientare il nostro credo politico: «Quel giorno — dice — le conversazioni degli americani, a tavola, diventerebbero molto più interessanti e molto meno conflittuali». ( E anche quelle degli italiani, degli inglesi, dei francesi e di tutti gli altri).

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