venerdì 31 gennaio 2014

GLOBALIZZAZIONE E MULTICULTURE. V. MATERA, Critica del multiculturalismo, ideologia che non libera le persone, IL CORRIERE DELLA SERA, 31 gennaio 2014

Uno dei principali contributi dell’antropologia alle scienze sociali del Novecento è stato la scoperta della cultura. Ha consentito infatti in poco più di qualche decennio di scalzare l’idea tenace che le differenze tra gli uomini e tra le loro capacità, attitudini, visioni del mondo, etiche e così via procedano dalla “razza” e di affermare che sono differenze culturali. Oggi, sulla stessa linea di riflessione, potremmo fare un passo avanti verso il riconoscimento che le culture sono costruzioni ideologiche, esistono solo in quanto espressioni di unità politiche, etniche o nazionali, e che prima delle culture, pure costruzioni simboliche, vengono le persone.



Ciò ci consentirebbe di parlare meglio degli immigrati e dei loro modi di agire e di pensare.
Il concetto di cultura è infatti da un po’ di tempo a questa parte un concetto contestato. O meglio, sono contestati gli usi e gli abusi cui si presta.
Il primo punto critico della accezione comune di cultura è l’idea che essa sia un pacchetto omogeneo e compatto di significati, valori, modi di agire, condiviso in modo sostanzialmente uniforme. Idea che consente per esempio di affermare che gli immigrati “fanno così perché è la loro cultura” (quindi di usare il concetto per spiegare affermazioni e comportamenti).
Le cose in realtà non stanno proprio così.
Le culture non sono pacchetti compatti e rigidi, che modellano le persone senza lasciare loro scampo o alternative. Lo diventano se le consideriamo come tali. Lo sono state in un mondo vecchio fatto di unità politiche che le volevano a quel modo. In un mondo nuovo le culture sono flussi di significato. Flussi sempre meno legati a entità localizzate, e sempre più globali.
Oggi, nelle società contemporanee, nelle “città nuove”, si assiste a mescolamenti e ibridazioni culturali, e all’emergere di identità plurime.
Non è il contatto fra pacchetti culturali diversi che porta alle ibridazioni, ma il fatto che le persone possono attingere dai flussi culturali e costruirsi in modi culturalmente compositi, in linea di principio, scegliendo, a partire dalla loro collocazione entro la struttura sociale, come vestirsi e che lingua parlare, che cosa mangiare e con chi incontrarsi, che lavoro fare e che cosa credere.
Certo, in un mondo ideale.
In un mondo nuovo le identità non sono fisse, rigide e immodificabili. Possono cambiare. Si può essere senegalesi e italiani, peruviani e italiani, nigeriani e italiani, secondo configurazioni uniche, personali, sintesi delle proprie scelte, esperienze, sensibilità.
Il secondo punto critico richiede una riflessione leggermente più articolata, che proverò a sintetizzare: il concetto di cultura, declinato al plurale, l’idea cioè della pluralità delle culture, che è la madre del multiculturalismo, emerge nel corso del Novecento in stretto contatto con il relativismo culturale. Il relativismo pone molti più problemi di quanti ne risolva. Ci vuole cautela nel trattare il relativismo, perché si corre il rischio di cadere nella trappola delle culture. Se lo assumiamo come una prospettiva metodologica, il relativismo è ingrediente essenziale di qualsiasi tentativo di comprendere ciò che altre persone dicono e fanno.
E’ evidente: non posso pensare di comprendere la diversità (culturale) se parto dal presupposto che comunque ciò che penso e faccio io è più giusto di quello che pensano e fanno gli altri.
E fin qui siamo tutti d’accordo (più o meno). Se invece assumiamo il relativismo come filosofia – e nei discorsi sul multiculturalismo che sento in giro (e nelle pratiche che li accompagnano) c’è molta filosofia – le cose si complicano e ci infiliamo in un vicolo senza uscita. Una strettoia che ci costringe a essere buonisti perché relativisti, e quindi pronti a giustificare tutto in nome del rispetto delle diverse culture. Anche qui, le cose non stanno così. L’accezione filosofica del relativismo, l’idea cioè che valori e pratiche siano radicate in forme di vita particolari e siano comprensibili – e quindi giustificabili – a partire da queste, tanto diffusa nella grande narrazione del multiculturalismo, ci porta ancora a imprigionare le persone nelle rispettive culture.
Questa prospettiva è poi quella che produce discorsi del tipo “che belle le società in cui ci sono tante culture, che tentano di interagire, a volte ci riescono, quasi sempre no, ma comunque ognuno se ne sta dentro la sua, salvo veloci e fugaci incursioni guidate”.
Tutto questo ci porta in direzione dello sviluppo di un discorso che sia davvero di critica culturale, un discorso “sovversivo”. Portare avanti un punto di vista critico nuovo, perché basato su una relazione privilegiata con la diversità, richiede uno sforzo conoscitivo grazie al quale si arrivi a ammettere che altri modi di pensare e di agire sono possibili e che noi li possiamo comprendere. Ribaltiamo quindi la prospettiva secondo cui il concetto di cultura serve a spiegare pensieri e comportamenti.
Al contrario, proprio per non dare per scontata una conoscenza che non abbiamo ma che ci dobbiamo conquistare, occorre liberare il campo da fraintendimenti che limitano le scelte e ostacolano la nostra esplorazione di qualsiasi cosa sia ignota. Ci interessa la diversità e ci interessa anche comprenderla, non ci interessa celebrarla (affermando a ogni occasione “tutte le culture sono meravigliose, che bello il multiculturalismo”).
Se volgiamo parlare meglio ci occorre un po’ più di accortezza dal punto di vista intellettuale e, parimenti, un po’ meno di cuore tenero (un po’ meno “buonismo”).
Fondendo in un’unica linea di riflessione i due punti di cui ho parlato finora, la critica alla cultura come “pacchetto” e alla filosofia del relativismo si arriva all’argomento centrale, che ha a che fare con i diritti delle persone: ci occorre una sorta di rispetto per il diritto delle persone a essere ciò che sono e a essere libere di scegliere come stare, fuori o dentro dalle culture, loro o altrui, non importa. E’ un argomento che si complica perché i diritti individuali spesso sono in conflitto con i diritti collettivi; ma nella mia mente al primo posto stanno i diritti delle persone, non quelli delle culture.  Non voglio quindi soccombere al multiculturalismo, sia nel senso banale di esagerare l’importanza di credenze, valori o abitudini sia nel senso meno banale di non vedere il ruolo, spesso, anzi sempre centrale, dei fattori culturali come maschere di interessi legati al potere e alle gerarchie.
Nella città nuova, dunque, abitata da persone libere e curiose, è decisiva una forte critica verso il “multiculturalismo”: è solo un ennesimo -ismo, una politica, un programma di governo, un’ideologia, che non aiuta a liberare le persone.
(il video qui sopra sarà presentato oggi al convengo dell’Università  Bicocca di Milano “Muoversi verso – Luoghi della città, dialoghi interculturali”)

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