giovedì 9 gennaio 2014

SCIENZA E PREGIUDIZI. S. GATTEI, Soltanto la scienza può battere la scienza, LA LETTURA, gennaio 2014

«Il gioco della scienza — scrive Karl Popper in un celebre passo di Logica della scoperta scientifica (1935) — è, in linea di principio, senza fine. Chi, un bel giorno, decide che le asserzioni scientifiche non hanno più bisogno di alcun controllo, si ritira dal gioco». Come nel gioco degli scacchi: non si può decidere di punto in bianco che la torre si muove in diagonale, o a elle come il cavallo — altrimenti non si gioca più a scacchi, ma a qualcos’altro. Allo stesso modo, non si può fare scienza senza rispettare regole precise, stabilite convenzionalmente dalla comunità scientifica e perfezionate nel tempo attraverso un continuo lavoro di paziente affinamento. Se poi si tratta di farmaci o possibili terapie, seguire le regole previste diventa essenziale: per la riduzione dei rischi connessi a nuove terapie e la tutela dei malati, innanzi tutto; ma anche per garantire la massima efficacia e trasparenza, evitare sprechi di denaro e, cosa ancora più importante, prevenire gli abusi di millantatori e guaritori improvvisati, salvaguardando sia i malati (presenti e futuri) sia le casse dello Stato.



Il «caso Stamina», di cui si parla ininterrottamente da mesi, costituisce in proposito un caso particolarmente significativo. L’invito al governo italiano, da parte di esperti riconosciuti e istituzioni internazionali, è stato univoco: non utilizzare, o consentire, metodi di cura che non siano stati controllati e «validati» dalle autorità regolatrici, previa verifica di efficacia e sicurezza. Un invito al rispetto della regolamentazione vigente, dunque, e al riconoscimento della sua importanza.
L’ha detto con chiarezza Shinya Yamanaka, il medico giapponese vincitore nel 2012 del Premio Nobel per le sue ricerche sulle cellule staminali pluripotenti, a capo della Società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali; lo ha scritto a più riprese la prestigiosa rivista «Nature»; lo ha ribadito l’Agenzia italiana del farmaco, e con lei scienziati e ricercatori italiani come Umberto Veronesi, Elena Cattaneo, Gilberto Corbellini e Paolo Bianco. Dietro a Stamina non c’è alcun «metodo», né terapia; non si usano neppure cellule staminali, né si producono neuroni. Concreti, sciaguratamente, sono solo i rischi ai quali vengono irresponsabilmente esposti i pazienti. Non è purtroppo una storia nuova. Ciò che più colpisce, però, non è la poca memoria, ma la facilità con cui, nel nostro Paese, si deroghi alle regole — e che a farlo siano spesso proprio coloro che quelle regole dovrebbero difendere e far rispettare.
Capita così che anziché lasciare l’ultima parola in tema di efficacia, inutilità o pericolosità di un trattamento ai ricercatori (medici e biologi), ci si lasci guidare dalla piazza, o trascinare da una «folla» di manzoniana memoria, fomentata magari da giornalisti improvvisati, comici e imbonitori catodici: come se il risultato di un esperimento scientifico e la valutazione del suo significato (si tratti di decidere della bontà di una terapia o del fatto se sia la Terra a girare intorno al Sole o viceversa) possa essere deciso a maggioranza, per alzata di mano. Ancora peggio, capita che anziché perseguire ciarlatani e truffatori, alcuni giudici arrivino a prescrivere d’ufficio un trattamento inutile, se non addirittura pericoloso, autorizzandolo come «cura compassionevole».
Ma il tema è più ampio, e va ben oltre il caso in questione, per quanto grave. Coinvolge infatti un vecchio problema della filosofia della scienza: la demarcazione tra scienza e pseudoscienza, cioè il problema di come distinguere tra discorso propriamente scientifico e tutto ciò che si presenta come scienza ma che, in realtà, non ne ha le caratteristiche. Come mostrano i saggi raccolti da Massimo Pigliucci e Maarten Boudry in Philosophy of Pseudoscience. Reconsidering the Demarcation Problem (The University of Chicago Press, 2013), il dibattito pubblico è spesso inquinato da due fenomeni, ugualmente perniciosi e fra loro strettamente legati: il rifiuto, da un lato, dei risultati ottenuti dalla scienza, quali la validità della teoria dell’evoluzione, o il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico; e l’accettazione acritica, dall’altro, di nozioni pseudoscientifiche, quali l’omeopatia, i fenomeni paranormali, l’astrologia, e quant’altro.
Non è solo una questione di alfabetizzazione scientifica: come osserva Pigliucci (autore anche di Nonsense on stilts. How to tell science from bunk, 2010), gli sforzi tesi a una migliore comprensione delle conquiste della scienza da parte di strati sempre più ampi della popolazione, pur importanti, devono essere integrati da un’attenzione altrettanto forte verso le fallacie in cui incorre frequentemente il linguaggio comune, i pregiudizi cognitivi e il ruolo svolto dall’ideologia. La prevenzione, per così dire, deve quindi operare su piani diversi: filosofico (pensiero critico e corretta argomentazione), psicologico (riconoscimento e discussione del preconcetto) e sociologico (intensità e dinamica della resistenza concettuale). Una maggiore consapevolezza di che caratteristiche abbia un ragionamento corretto, e di come sia possibile distinguere tra un argomento convincente e uno valido, consentirebbe di non cadere facilmente vittima di vuoti slogan e frasi a effetto (quali per esempio il «curarmi non è un reato» che si leggeva sulle magliette dei partecipanti a una recente manifestazione pro Stamina).
Non solo: come hanno mostrato recenti ricerche in campo psicologico, le persone hanno una propensione naturale verso un certo numero di pregiudizi cognitivi, alcuni dei quali spiegano come mai alcune delle fallacie logiche in cui spesso si incorre siano così comuni e persistenti (è il caso, per esempio, della fallacia del post hoc ergo propter hoc: dalla semplice successione temporale di due eventi non segue, necessariamente, che i due eventi siano fra loro correlati, o che il primo sia causa del secondo). Da ultimo, l’elemento forse più difficile da contrastare: il ruolo di forti preconcetti ideologici attraverso cui filtriamo praticamente ogni cosa, comprese quelle che dovrebbero essere nozioni scientifiche semplici e dirette. Il rifiuto della scienza e l’ampia diffusione di concezioni pseudoscientifiche affondano dunque le proprie radici in motivazioni variegate, che occorre affrontare nella complessità delle loro articolazioni. Politici e magistrati devono garantire la libertà e l’autonomia della ricerca, la competizione equa tra le idee e il rispetto delle sue regole, non occuparsi di stabilire la validità di una terapia o la verità di un’ipotesi astronomica. Devono, in altre parole, perseguire gli abusi — e impedire che le regole introdotte con il solo scopo di prevenire questi stessi abusi siano aggirate. A ben guardare, accanto ai suoi meriti scientifici l’eredità più grande di Galileo è stata quella di aver guadagnato alla scienza, attraverso la propria vicenda personale, il diritto all’errore: la scienza può certamente sbagliare, e anzi trae la propria linfa dalla capacità di imparare dai propri errori. Ma a giudicare questi errori devono essere soltanto gli scienziati, senza ingerenza alcuna. Nel pieno rispetto delle regole stabilite dalla stessa comunità scientifica.

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