sabato 24 giugno 2017

ANALFABETISMO FUNZIONALE. A. TESTA, G. ANTONELLI, Leggere e non capire, CORRIERE DELLA SERA, 23 giugno 2017

Confrontate queste due frasi: 1. Il gatto miagola. 2. Il gatto miagola perché vorrebbe il latte. Tra i due gatti, e le due frasi, c’è un confine.


 Separa le persone capaci di leggere e di capire una frase come la numero 2 e le persone che oltre la numero 1 non vanno. Sono gli analfabeti funzionali: quelli che possono decifrare un’insegna, un cartello stradale o un prezzo, ma non un bollettino postale, un grafico, un articolo come questo. Si tratta del 27,9 per cento degli italiani tra i 16 e i 65 anni. Cioè di quasi uno su tre, secondo i dati Ocse-Piaac del 2016. Sono circa 11 milioni di individui. Sono persone come noi: hanno un lavoro, un telefonino, una famiglia, un’automobile. Vanno in vacanza, fanno la spesa e parlano di politica con gli amici, ma possono informarsi solo per sentito dire. Sono ingegnose e mettono in atto complesse strategie per nascondere o compensare la propria condizione di analfabetismo funzionale. Magari, chiedono aiuto per leggere un modulo dicendo che hanno dimenticato gli occhiali. Intendiamoci: leggere (e soprattutto capire quel che si legge) è una prestazione tutt’altro che banale. In un bellissimo libro, intitolato Capire le parole, il linguista Tullio De Mauro dice che la parola scritta mette in gioco l’intera capacità di intelligenza e di vita di cui siamo dotati.
Quando leggiamo, il nostro cervello compie un lavoro complicatissimo, e lo fa in infinitesimi di secondo. Noi percepiamo e selezioniamo una catena di stimoli visivi (la forma delle lettere che compongono le parole sul foglio o sullo schermo) e li “fotografiamo” a gruppi con lo sguardo. Il nostro cervello li riconosce al volo, li decodifica (cioè risale al significato delle parole), li interpreta (cioè ricostruisce il senso che le parole hanno, messe assieme), li elabora (cioè connette ogni nuova frase con quelle che l’hanno preceduta) e si costruisce una rappresentazione dei contenuti del testo, mettendo in gioco tutte le sue capacità logiche, le sue memorie e le sue conoscenze. Fa tutto questo ininterrottamente e con fluidità, ma solo se è allenato. Altrimenti leggere è una fatica infernale. Per chi legge con facilità e con piacere, l’esempio dei gatti è sconcertante. Ma dobbiamo prenderlo sul serio: è tratto dal libro La cultura degli italiani, in cui Tullio De Mauro dice con forza quanto è pervasivo l’analfabetismo funzionale nel nostro Paese. 
I dati Ocse-Piaac del 2016 ci dicono che il fenomeno non riguarda solo i più anziani, che sono andati poco a scuola e fanno mestieri non qualificati, ma anche un 9,6 per cento di ragazzi tra i 16 e i 24 anni che in gran parte non studiano e non lavorano, e un 15 per cento di giovani tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di quasi due milioni e mezzo di persone. Il fenomeno riguarda anche un drammatico 20,9 per cento dei diplomati (uno su cinque!), e un incredibile 4,1 per cento di laureati. Ma come può succedere tutto questo? I motivi sono diversi. Il primo è che analfabeti funzionali si diventa. Lo conferma il pedagogista Benedetto Vertecchi: chi non esercita le competenze che ha imparato a scuola, nel tempo le perde. Disimpara a leggere e a scrivere chi non affronta mai testi più lunghi e complessi della lista della spesa. Disimpara a far di conto chi si affida solo alla calcolatrice del telefonino. Nel corso del 2016, secondo gli ultimi dati Aie, il 60 per cento degli italiani (laureati compresi) non ha aperto un libro di qualsiasi tipo: neanche un ricettario di cucina, una guida turistica, un manuale o un ebook. Il guaio è che, rinunciando a leggere, a scrivere e a far di conto, si disimpara anche a risolvere problemi e a pensare. E si torna indietro di almeno cinque anni di istruzione. In altre parole: anche chi ha fatto le scuole superiori può ritrovarsi con capacità di lettura, scrittura e calcolo da scuola media. E chi ha fatto le superiori proprio male, o le ha interrotte, precipita giù, giù fino alle elementari (continua nella card seguente)

Nuove incompetenze

Il secondo motivo è che piove sempre sul bagnato. Non solo gli analfabeti funzionali faticano di più a trovare lavoro, fanno lavori meno gratificanti e sono meno pagati, ma hanno molte meno occasioni di fare formazione, aggiornarsi e imparare qualcosa di nuovo; sono anche poco interessate a partecipare. Lo fa solo il 14 per cento, mentre oltre la metà (il 57 per cento) delle persone che hanno già buone o ottime competenze continua a formarsi. Il terzo motivo riguarda la scuola. Il nostro sistema scolastico viene progettato tra il 1923 e il 1925 con la riforma Gentile. È una scuola di élite, adatta alle classi dirigenti di un Paese di analfabeti. Funziona bene ma esclude, e non include. Nel 1963 la scuola d’avviamento, pensata per indirizzare i ragazzi più poveri al lavoro, viene cancellata. Si istituisce la scuola media unica, con obbligo di frequenza fino a 14 anni. Ma gli insegnanti non sono preparati ad accogliere i figli delle classi più disagiate: ragazzini che a casa non hanno libri e non godono della formazione che una famiglia di buona cultura offre attraverso i viaggi, gli incontri, le semplici chiacchiere a tavola.
Lo denuncia don Milani, nel 1967, con il libro Lettera a una professoressa. Il risultato è che il livello medio della preparazione cala e il problema si sposta alle superiori: lo si è affrontato con decenni di ritardo e non può ancora dirsi risolto. Intendiamoci: oggi nella scuola italiana tanti insegnanti meravigliosi lavorano in condizioni difficili, affrontando anche la nuova sfida di alfabetizzare bambini che provengono da culture diverse e lontane e parlano poco o niente l’italiano. Ma ci sono anche insegnanti impreparati: all’ultima selezione per diventare maestri di ruolo nella scuola elementare, tenutasi a Bologna, solo il 24 per cento dei candidati ha superato la prova scritta. «Chi si è presentato non aveva la valigia degli attrezzi per entrare in una classe», ha commentato il direttore Stefano Vasari. Il quarto motivo è connesso con il terzo. La scuola è fatta di insegnanti, prima ancora che di edifici o di burocrazie ministeriali, e i buoni insegnanti devono essere gente tosta, motivata e preparata. Andreas Schleicher, capo del programma internazionale Ocse-Pisa, lo ripete da anni: hanno un’istruzione migliore i Paesi che valorizzano gli insegnanti, ne riconoscono e onorano il ruolo sociale, li pagano bene. Da noi, l’insegnamento viene ancora troppo spesso vissuto come una mediocre ma comoda soluzione di ripiego.
Per cambiare un intero Paese attraverso l’istruzione bastano due generazioni, dice Schleicher: ci è riuscita la Corea del Sud, che negli Anni 60 aveva il livello di sviluppo dell’Afghanistan di oggi. E per ridurre le disuguaglianze e migliorare la prestazione degli studenti bastano dieci anni: la Germania ce l’ha fatta tra il 2000 e il 2010. Bisogna però volerlo e saperlo fare. L’alternativa è restare in fondo alle classifiche internazionali delle competenze, dopo la Spagna e prima della Turchia, del Cile e dell’Indonesia. E pazienza se il gatto continua a miagolare, e troppo pochi capiscono che vorrebbe il latte.

Un brano per metterci tutti alla prova

Il testo che segue, tratto da La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli) è stato scelto come test per verificare le competenze di lettura. Nella scheda successiva, i motivi della scelta

«Il matrimonio è stato messo a repentaglio dall’amore. Dopo il Romanticismo è diventato inevitabile unirsi in matrimonio per amore, e scioglierlo se l’amore non c’era più. Quando l’amore non c’era affatto, il matrimonio non perdeva nulla per strada, semmai acquisiva qualcosa attraverso la consuetudine e la dimestichezza. L’amore è una forza necessaria ma destabilizzante, capricciosa e incontrollabile, e la convinzione che si abbia diritto alla felicità, se non a possederla a bramarla e reclamarla (dunque un diritto ipotetico, il diritto a ottenere qualcosa che quasi mai si ha piuttosto che a conservare ciò che effettivamente si ha) conduce alla frustrazione.
Il matrimonio è la tomba dell’amore solo nel caso vi sia qualcosa da uccidere: altrimenti prevale in esso un aspetto funzionale, pratico, sociale, protettivo, procreativo. Ecco perché è esemplare del modello di vita borghese: in esso agisce fortissima l’aspirazione al riconoscimento. Dunque si potrebbe invertire il detto: l’amore è la tomba del matrimonio».



E tu che analfabeta sei? (di Giuseppe Antonelli)

Una c       Une celebre canzone di Totò parlava di un cuore analfabeta che aveva imparato a leggere e a scrivere soltanto la parola amore. Ma più che una questione di cuore (o di quore), l’analfabetismo è una questione di testa, o meglio: di testi. Ormai da qualche anno, infatti, l’attenzione si è spostata dall’analfabetismo strutturale (quello di chi letteralmente non sa leggere né scrivere) all’analfabetismo funzionale, quello di chi non sa capire o produrre adeguatamente un testo. Al centro dell’attenzione c’è ora la literacy, cioè la competenza alfabetica funzionale alla comprensione e all’utilizzazione pratica di un testo scritto. La mancanza di una sufficiente literacy è definita in italiano illetteratismo: una condizione nella quale si troverebbe circa un terzo della nostra popolazione. La definizione suona ambigua, in realtà, visto che in passato rimandava a coloro che non conoscevano il latino (Dante scrive il Convivio in volgare pensando ad «alcuno illitterato») o che rifiutavano gli eccessi dell’abbellimento letterario («l’illetteratismo di Pascoli»). Oggi invece si riferisce a chi è in grado di decifrare o scrivere solo frasi elementari. «Il gatto miagola» era l’esempio che Tullio De Mauro faceva nel libro intervista intitolato La cultura degli italiani (vedi l’articolo di Annamaria Testa a pag. 48, ndr); spiegando che, per mandare in crisi molti nostri connazionali, bastava aggiungere poco di più: «Il gatto miagola, perché vorrebbe bere il latte».
Per scegliere il brano da mettere in apertura sono stati presi in considerazione diversi tipi di testo. Una guida turistica di larga diffusione, l’editoriale di un grande quotidiano, un saggio diventato un bestseller. Alla fine, la scelta è caduta sul romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega: La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli, il brano è a pag. 419). E questo non solo per difendere le ragioni della letteratura, un tempo terra d’elezione della lettura e oggi alla disperata ricerca di nuovi e-lettori. Ma anche, e soprattutto, perché il brano rappresenta – stando ad alcuni parametri linguistici – un esempio di perfetta medietà. La scala di valutazione Gulpease, basata sulla lunghezza delle parole e delle frasi, va da 0 (massima difficoltà) a 100 (massima leggibilità). Il punteggio totalizzato da questo brano è 50. Ovvero un testo ritenuto quasi incomprensibile per chi ha una licenza elementare (circa il 7% degli italiani adulti), difficile per chi ha una licenza media (intorno al 33%), facile per chi ha una licenza superiore (più del 40%) o a maggior ragione una laurea (meno del 20%). Un bell’esempio di lingua letteraria che non perde il contatto con la realtà circostante. Eppure: quanti rischierebbero di perdere il filo di fronte a frasi che non rinunciano a qualche inciso e subordinata, a volte allontanando pericolosamente soggetto e verbo? E quanti potrebbero avere dubbi sul significato di espressioni come “mettere a repentaglio”, di sostantivi come “dimestichezza”, verbi come “bramare”, aggettivi come “procreativo”? Il dizionario di De Mauro classifica queste parole come «comuni» (tranne repentaglio, considerata più rara). Ma i risultati delle ultime indagini fatte in scuole e università – e l’inesorabile analfabetismo di ritorno di chi ha lasciato da tempo gli studi – portano a essere meno ottimisti. Il gatto che miagola se ne sta nascosto sotto al tavolo. Gli illetteratisti anonimi sono tanti, e hanno bisogno del nostro aiuto.

                  

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