martedì 10 aprile 2018

PSICOLOGIA DEL MALE. A. BANDURA. F. BELLUSCI, Come fare del male e continuare a vivere bene, DOPPIOZERO, 5 aprile 2018

Per secoli, da Socrate a Kant, nel modo di analizzare le nostre condotte morali, abbiamo confidato in una sorta di “razionalismo” etico. Anche di fronte ai suoi giudici e agli allievi che lo assistono prima di bere la cicuta, Socrate raccomanda di non rinunciare mai alla conoscenza del bene e all’autoesame che comporta, convinto che dalla conoscenza del bene non potrà non conseguire l’impegno a perseguirlo.



Così Kant, che inaugura la riflessione morale moderna, è persuaso che il ragionamento, non intralciato da interessi, inclinazioni o condizionamenti esterni, è sufficiente a obbligarci ad assumere una condotta morale. A entrambi sfugge la fitta trama psicologica che separa e lega allo stesso tempo il momento in cui ragioniamo su quali siano i nostri doveri e il momento della loro traduzione in criteri effettivi di condotta. In altri termini, trascurano che la nostra agency morale, ovvero la capacità di autoinfluenzare le nostre azioni morali, non si compone solo di un aspetto cognitivo, ma anche del repertorio di meccanismi con cui autonomamente motiviamo, regoliamo, monitoriamo, l’attuazione dei nostri pensieri morali. E il più importante di questi meccanismi è rappresentato dalle autosanzioni affettive, che inibiscono condotte nocive o inumane, consentendo di evitare i sensi di colpa, la vergogna e i rimorsi che minerebbero il nostro benessere, qualora cedessimo a quelle condotte, o, addirittura, trattenendoci dal cedere ad esse anche se abbiamo la sicurezza di non essere scoperti. È questa la premessa da cui parte l’ultima fatica del più eminente psicologo contemporaneo, Albert Bandura, insignito nel 2016 da Barack Obama con la National Medal of Science, pubblicato in Italia dalla Erickson, con il titolo: Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, a cura di Riccardo Mazzeo. La presenza di questo potere autoregolatore e autosanzionatorio nella nostra agency morale spiega, d’altra parte, la celebre massima: “è meglio patire che infliggere il male”, che Socrate formula nel Gorgia di Platone e considera ancora solo l’effetto di una scelta razionale.

Per Bandura, il soggetto che decide di infliggere il male, non sopporterebbe le reazioni autosvalutative su se stesso che ne deriverebbero: facendo del male, pur traendone vantaggi immediati o apparenti, vivrebbe male, in conflitto con se stesso. Certo, è quella capacità di farsi due-in-uno, nell’intimo dialogo del pensiero, di cui Hannah Arendt parlò in un ciclo di lezioni agli studenti di New York e Chicago, tra il 1964 e il 1965, riflettendo proprio sulla morale socratica. Ma siamo sicuri che il malfattore o il criminale è colui che perde questa capacità? In altre parole, è possibile fare del male, compiere azioni nocive, e, tuttavia, continuare a vivere in pace con se stessi? Bandura risponde affermativamente e, in questo libro teoricamente robusto e ricco di case analysis, s’incarica di spiegare il come e il perché avviene, in modo dettagliato, in vari ambiti dell’attività umana oggi importanti anche per i riflessi sulla qualità e il futuro della vita collettiva, integrando, così, la tradizione filosofico-morale con la prospettiva empirica e complessa della psicologia e della teoria sociocognitiva.

I sistemi di controllo legali e sociali sono un disincentivo a compiere azioni crudeli, inumane, immorali, ma sono un deterrente insufficiente, anche nel contesto del terribile Leviatano hobbesiano che usa la leva della paura per mantenere l’ordine. Abbiamo visto che le persone si astengono dal compiere quelle azioni soprattutto perché autoregolano il passaggio dal ragionamento morale all’azione basandosi sulle autosanzioni morali, che funzionano come una censura interna rispetto a propositi incompatibili con i principi morali. Sia le persone “cattive” sia le persone “buone”, ci ricorda Bandura, hanno, infatti, bisogno di vivere in pace con se stesse, con le scelte fatte, e di valutare positivamente il proprio comportamento. Quindi, per adottare condotte lesive o nocive, senza conseguenze negative per la propria autostima, le persone (ma anche le organizzazioni, i gruppi, le imprese) si disimpegnano da una condotta morale disattivando il meccanismo delle autosanzioni. E lo fanno selettivamente e parzialmente.  Come Amon Göth, il comandante nazista di un campo di concentramento, che, mentre detta una lettera amorevole e compassionevole per il padre malato, estrae la pistola e fredda un prigioniero che gli sembra profondere poca energia nel lavoro. I principi morali trasgrediti non sono messi in discussione, ma la responsabilità è alleggerita o rigettata, il senso di colpa è attutito o scomparso, l’immagine positiva di sé è conservata e scattano vere e proprie autoassoluzioni. Il che spiega come il fenomeno di atti crudeli, illeciti, dannosi, possa essere  pervasivo ed endemico e come sia necessario volta per volta smascherarlo. Bandura esamina le strategie di disimpegno che si mettono in atto in quegli ambiti (la valenza del comportamento; gli effetti dell’azione commessa; l’assunzione di responsabilità o agency; la considerazione della vittima), in cui di norma dovrebbe funzionare l’autoregolazione morale, rendendo cogente l’esecuzione dei principi morali accettati. E la casistica è molto ampia. 


Si possono “nobilitare” azioni crudeli, deleterie, in funzione di scopi superiori e onorevoli o di una causa giusta: è la salvezza della nazione di Israele che spinge Amir ad assassinare il premier Rabin, che ne sarebbe invece il traditore e i terroristi islamici compiono martirio e massacri perché ordinati da Dio. Si può giustificare un’azione disumana in confronto a un’altra subita e ritenuta più disumana, operando una sorta di assoluzione comparativa. Si può perpetrare il male spostandone la responsabilità in capo ad altri, alle autorità gerarchicamente superiori o distanti che hanno dato gli ordini, evitando così l’autocondanna, così come queste autorità, nei gradi più elevati, fanno in modo di non essere informate sul decorso completo delle operazioni autorizzate e sugli attori coinvolti. Si possono, inoltre, minimizzare o distorcere gli effetti dannosi delle azioni commesse, soprattutto se questi sono lontani o non visibili. Peggio ancora, si può attribuire la colpa del maltrattamento alla vittima stessa o deumanizzare la vittima. Bandura passa, poi, accuratamente in rassegna i settori o i fenomeni sociali in cui più frequentemente oggi si riscontra il ricorso a strategie di disimpegno morale, con conseguenze più o meno gravi: l’industria dell’intrattenimento e delle armi; l’amministrazione della giustizia penale; il mondo della produzione di beni di consumo nocivi alla salute o delle speculazioni finanziarie; il terrorismo e la lotta al terrorismo; l’impatto ambientale delle attività economiche. Un’indagine scientifica dei meccanismi con cui la moralità viene sospesa o estromessa da condotte e atti deprecabili e nefasti è utile per spiegarli, non certo per giustificarli, precisa Bandura. Anzi, serve a rendere tutti più consapevoli, opinione pubblica e decision makers, soprattutto di fronte alle strategie autoassolutorie addotte per legittimare azioni e comportamenti, individuali, commerciali o politici, che, secondo lo psicologo americano, compromettono i tre rimedi fondamentali per evitare, a suo dire, il collasso del pianeta e della specie umana: rallentare il tasso di crescita della popolazione globale, sostituire nella produzione energetica i combustibili fossili con le energie alternative, frenare l’eccessivo consumo.

Rimedi su cui si registrano progressi, oscillazioni e ritardi, allo stesso tempo. Ma, quel che conforta delle teorie e delle ricerche di Albert Bandura sull’agency umana è la conferma della presenza di un autocontrollo morale, a prescindere dalle costrizioni giuridiche e sociali, che conduce gli esseri umani sempre a valutare gli effetti sugli altri delle proprie azioni e a giudicarsi in base agli effetti della propria condotta. Con buona pace di Nietzsche e di tutte le “genealogie” che hanno cercato di risalire ad una originaria e probabile valutazione extramorale dei nostri comportamenti, in termini di forza o vitalità, ci è impossibile vivere “al di là del bene e del male” e senza dare un valore morale alle nostre condotte. Tanto che per agire in modo immorale e irresponsabile e vivere senza conflitti interiori, dobbiamo annullare o quantomeno indebolire il potere regolativo delle autosanzioni morali, che normalmente inibiscono o censurano quel modo di agire. Insomma, possiamo essere irresponsabili e felici, però, invero, mai fino in fondo o totalmente o irreversibilmente. Possiamo ancora sperare, allora, nella capacità di autodeterminazione morale di questo strano animale chiamato uomo.    


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