recensione apparsa su KAINOS, 2
Bruno Moroncini, La comunità e l’invenzione,
Napoli, Edizioni Cronopio, 2001, pp. 202,
ISBN 88-85414-64-8, € 10,50
 Bruno Moroncini, La comunità e l’invenzione,
Napoli, Edizioni Cronopio, 2001, pp. 202,
ISBN 88-85414-64-8, € 10,50
Il nuovo e importante libro di Bruno  Moroncini, ultimo prodotto di una riflessione più che decennale dell’autore su  tale tematica, è dedicato all’esigenza della comunità, pensata  esplicitamente come esigenza del comunismo, tema mai come ora inattuale e, nello  stesso tempo, all’ordre du jour della storia. Il pensiero (e l’esigenza)  della comunità è, infatti, ciò che dovrebbe caratterizzare una politica che,  come quella comunista, volta marxianamente all’emancipazione degli individui  (anzi delle singolarità, come vedremo), sia capace di fare un passo al di là  delle politiche delle libertà e delle uguaglianze che, per quanto condizioni  imprescindibili di emancipazione, restano pur sempre i cardini su cui poggia il  dominio capitalista, e attraverso cui esso riproduce le sue ineguaglianze e le  sue ingiustizie.
 Il libro si compone di due saggi  (L’assedio di Numanzia. Comunità e politica; La comunità e  l’invenzione), di cui il primo funge, nello stesso tempo, da introduzione e  da prosecuzione del secondo – a sua volta riproposta, con alcune integrazioni,  di uno scritto già pubblicato, in volume collettaneo, nel 1991. Per tale motivo  preferirei cominciare a parlare di (da) quest’ultimo, dedicato al pensiero della  comunità, per poi passare all’esame del primo, in cui il problema di una  politica della comunità è più esplicitamente articolato.
 Il saggio La comunità e  l’invenzione contiene i fondamenti teorici di un pensiero della  comunità, della sua ripresa possibile. Attraverso il confronto-incontro con noti  testi di J. L. Nancy (La communauté desouvrée) e di M.Blanchot (La  communauté inavouable), esso si inerpica lungo i sentieri tracciati  dall’esperienza e dalla riflessione di Georges Bataille, la cui frase, secondo  cui l’unica comunità possibile è la comunità di coloro che non hanno comunità, è  interpretata come il vero e proprio punto di partenza di un pensiero radicale  della comunità, che rifiuti sia l’idea regressiva di una comunità organica  precedente la società che bisognerebbe restaurare, sia quella, pericolosa, di  una sua realizzazione in una comunità di fratelli, troppo simili per non  capovolgersi in conflitto mortale. La prima cosa che può essere affermata, della  comunità, è, infatti, che essa è per essenza perduta, impossibile (p. 116).  Eppure l’esigenza della comunità, la sua legge, impone che si debba parlare  dell’impossibilità di parlarne, fino a comprendere come "la comunità è ciò che  si dà senza apparire", ma che proprio per questo "ci sostiene e ci fonda,  tuttavia, attraverso l’assenza" (p.118). Non c’è una comunità che preceda la  società, come ideologicamente pensava Tönnies. La comunità è un’esigenza che  s’impone a partire dalla società: "la comunità, lungi dall’essere ciò che  la società avrebbe perso o infranto, è ciò che ci accade – questione,  attesa, evento, imperativo – a partire dalla società" (p. 120). Per tale  motivo "noi non soffriamo per l’assenza della comunità – la comunità è l’assenza  –, ma per la mancanza di un pensiero della comunità" (p.122). Ma come può  caratterizzarsi un pensiero della sua assenza (essenziale), se non come  Gedachtnis, come ricordo pensante (ivi)? E che cos’è un ricordo  pensante, se non invenzione, intesa nel senso dell’Eureka, del "grido di  giubilo che esplode improvviso di fronte alla scoperta imprevista" (ivi)?  È come se – chiarisce Moroncini – "l’invenzione non provenisse da noi, ma  dall’altro" (p. 123), evento inatteso che accade come un (inatteso) dono  dell’altro, facendo cadere nel ridicolo ogni nostra progettualità. Ciò significa  che la comunità è sempre un’iniziativa dell’altro, rispetto cui io non posso far  altro che preparare lo spazio del suo avvento, evento che resta un’assoluta  contingenza, incalcolabile e imprevedibile (p. 125). Solo in tal modo è  possibile sfuggire all’alternativa, evidenziata paradigmaticamente nella  hegeliana figura della lotta delle autocoscienze, tra lo scontro a morte per  eccesso di rassomiglianza da un lato e l’istaurazione di rapporti  intersoggettivi gerarchici fondati sul dominio dall’altro. Tuttavia, se la  comunità è l’invenzione dell’altro, essa è il dono che l’altro ci farà della sua  alterità, a patto di pensare anche l’altro come altro a se stesso, come  alterazione di sé che all’altro accade dall’altro. Eppure, l’altro è anche  il mio simile, non è l’assolutamente altro. Ciò complica le cose. Infatti,  se è l’altro che mi fa soggetto, se, con Lacan, posso affermare che, in quanto  soggetto, sono costituito dal discorso (e dal desiderio) dell’altro, se è  attraverso l’altro che io accedo alla condizione umana, ed è attraverso l’altro  che mi accade l’esigenza della comunità, allora, potrei dire, nell’altro ne va  di me stesso, ma di un me stesso che sfugge trascendentalmente al sapere di sé.  L’altro è trascendentalmente indecidibile ed è proprio tale indecidibilità "a  costituire il nucleo di un pensiero della comunità" (p. 126). Indecidibilità  dell’altro significa anche ambivalenza: "l’altro oscilla fra l’estrema  rassomiglianza […] e la totale irriconoscibilità" (p. 127); ma non è possibile  ridurre tale indecidibilità, facendo diventare l’altro il mio altro,  fagocitandolo sulla base di un’istanza distruttiva e totalitaria (p. 130). Non a  caso il nazismo , sottolinea Moroncini, s’impegnò in una metodica eliminazione  dell’altro, fino a credere possibile la realizzazione di una comunità puramente  immanente, assolutamente propria e, quindi, votata inevitabilmente  all’autodistruzione, perché non è possibile eliminare l’alterità senza  sacrificare il proprio e l’identico. "La comunità – afferma  Moroncini – è veramente perduta, dunque, solo quando, paradossalmente, la si  vuole rendere presente, la si vuole costringere nella rappresentazione; essa  allora fa implodere l’immanenza cui la si voleva ridurre" (p. 131) e così, per  dirla con Lacan, "il desiderio dell’altro sprofonda dal registro immaginario in  quello reale e si abolisce" (ivi). Il problema teorico è, dunque, questo:  come è possibile sfuggire all’alternativa (definita, come dicevamo,  esemplarmente nella hegeliana lotta tra le autocoscienze) tra l’irretimento  nella fascinazione immaginaria e mortale con l’altro (l’alter-ego con cui  confliggo per troppa somiglianza) da un lato, e l’istituzione simbolica  di una relazione gerarchica e asimmetrica con esso, fondata sul dominio,  evitando al contempo di cadere nella relazione sadica e totalitaria che deriva  dall’identificazione tra immaginario e simbolico e, quindi, dalla riduzione  dell’indecidibilità dell’altro? Come sfuggire a tale alternativa teorica ed  etico-politica, lasciando in ogni caso aperta la questione della possibile  iscrizione storica della comunità? Detto diversamente, in che modo è pensabile  l’istituzione della comunità nello spazio del simbolico? È questo, a mio  avviso, il problema chiave della riflessione che Moroncini dedica alla comunità.  Se la comunità è l’impossibile, ciò che non è mai presente a sé, ciò che è  assente e perduto per definizione, come pensare la sua iscrizione nella storia?  La strada per tentare di rispondere a tale domanda chiave potrebbe essere quella  indicata da Georges Bataille, vale a dire quella che insiste sull’assenza  dell’altro. Seguendo tale indicazione, argomenta Moroncini, dobbiamo  convenire che l’altro ci dona la sua alterità, e quindi il pensiero  (l’invenzione) della comunità, solo sottraendosi, ritraendosi, lasciandoci solo  la sua traccia, non la sua presenza. In una pagina del Su Nietzsche di  Bataille si legge: "presagisco la mia assenza nella lacerazione, nel sentimento  penoso di un vuoto (manque). La presenza altrui si rivela attraverso  questo sentimento. Ma essa è pienamente rivelata soltanto se l’altro, da  parte sua, si china egli pure sull’orlo del suo nulla, o se vi cade (se muore)"  (p. 134). E Moroncini commenta: "è l’altro che mi dona l’assenza, che mi sottrae  all’identità, all’insistenza dell’ipse. Ma per farmi dono dell’assenza, del  nulla, l’altro a sua volta deve chinarsi sul suo nulla, morirvi: l’altro è  l’assenza che si dona a me attraverso il dono dell’assenza" (p. 136). Che  l’altro mi doni la sua assenza è, quindi, il vero presupposto del pensiero della  comunità, vale a dire della possibilità che la storia umana ha da sempre mancato  (vedi pp. 165 sgg). Non è quindi sulla presenza dell'altro – immaginaria o  simbolica che sia – che può svilupparsi la comunità, ma solo sull’assenza che,  comunque (e paradossalmente) nel registro dell’ordine simbolico,  istituisce la comunità di coloro che non hanno comunità. 
 La comunità, afferma Moroncini, è  l’invenzione della morte dell’altro: "l’altro mi salvaguardia proprio con la sua  assenza […] ed è così che mi invia e mi invita a quell’esercizio difficile che è  la mia libertà; […] la sua morte non è un deposito o un pegno, un prestito che  si possa venire a riscuotere: è un dono gratuito, senza riserve, totale" (pp.  175-176). Solo l’assenza dell’altro, la morte dell’altro, "mi sottraggono  all’odio: è questo il suo dono" (p. 176). 
 Al centro della comunità c’è,  quindi, un sacrificio, ma non quello del capro espiatorio di cui ha parlato René  Girard, bensì il sacrificio dell’altro inteso come dono gratuito, puro dispendio  di sé, cui il pensiero della comunità deve aprirsi, lasciandosene invadere. Ma che cosa significa che l’altro ci fa accedere  alla comunità grazie alla sua morte, anzi al dono della sua morte? La morte  donata non è la morte effettiva (che è pur sempre la presenza di un  morto, rispetto cui scatta l’opera riappropriante del lutto), ma consiste nel  gratuito sacrificio della negatività che caratterizza l’umano. Se il  luogo proprio dell’umano, come già aveva cominciato a vedere Hegel, è il  distacco dalla natura, la negazione della sua naturalità, la negazione  dell’essere (la sua pulsione di morte), allora è proprio il sacrificio  dispendioso di tale negatività ad inventare la comunità, negazione della  negazione che non produce alcuna Aufhebung discorsiva ma, secondo  Bataille, si manifesta nel riso, nelle lacrime, nell’eros. In tali "esperienze"  accade una comunicazione tra eguali al di fuori della fascinazione immaginaria.  Ma accade anche la coscienza di tale comunicazione. È proprio l’esigenza  di tenere insieme il desiderio comuniale con la coscienza della separazione tra  gli esseri, tra i singoli, che, secondo Moroncini, fa giungere Bataille alla  soglia di un’esperienza moderna della comunità (p. 187).
 Partendo da tali assunti, il primo  saggio del testo di Bruno Moroncini (L’assedio di Numanzia. Comunità e  politica) sviluppa il pensiero della comunità nella promettente direzione di  pensiero della(e) singolarità, e lo fa attraverso un puntuale confronto  critico con alcuni tra i più stimolanti pensatori "politici" novecenteschi e  contemporanei, quali Arendt, Badiou, Agamben, Nancy. Tale confronto, tuttavia,  parte da un’interessante ed esplicita ripresa della critica dell’economia  politica di Marx, riallacciando, in tale modo, il discorso sulla comunità  all’esigenza del comunismo. 
 Se l’esigenza della comunità accade  a partire dalla società, è a partire dal capitalismo che la sua paradossale  iscrizione nella storia è divenuta possibile. Così come Marx ha messo  ripetutamente in rilievo, il capitalismo, proprio perché distrugge tutti i  legami sociali ed economici preesistenti, è la condizione dell’emancipazione  degli individui. Allora, se si concorda con l’analisi marxiana, all’ordine del  giorno di una politica comunista non può esserci alcuna strategia di  ricomposizione comunitarista del "legame sociale" distrutto dal capitale, bensì  la convinzione che solo la distruzione del legame sociale in quanto tale, sempre  fondato su una qualche forma di dominio, può favorire l’emancipazione degli  individui, o meglio delle singolarità. Una politica comunista della comunità è  una politica delle singolarità (un altro nome per indicare coloro che non hanno  comunità). Ma come definire il concetto di singolarità? Moroncini, dopo un  confronto con le riflessioni di Agamben sul concetto di essere qualunque  (cfr. Agamben, La comunità che viene, 1990), afferma che singolare  è ciò che ex-sistere fuori dell’essenza, ciò che, in quanto desiderante, "ha  dovuto istituirsi come un ammanco nell’essere (Lacan), come un vuoto d’essere  che allo stesso tempo è anche un vuoto d’esistenza, un desiderio appunto" (p.  73). Singolare è, quindi, quella cosa "cui manca la proprietà e/o il predicato  di essere un qualcosa di stabile, unico e riconoscibile, qualcosa cioè cui manca  l’essenza e che manca all’essenza" (p. 74). Ma la singolarizzazione degli  individui è anche il risultato del capitalismo: "la singolarizzazione, vale a  dire quella coscienza acuta della propria in essenzialità […] è il risultato del  potere astraente e riflettente del capitalismo" (p. 92). La trasformazione del  lavoratore in merce (forza-lavoro), la distruzione di ogni valore d’uso, la  distruzione di ogni legame sociale, che non rientri nelle forme proprie del  dominio del capitale, tutto questo non può che favorire l’emancipazione  comunista, a patto che le singolarità non ripieghino su se stesse, irrigidendosi  in corazze identitarie (p. 92) ma si aprano alla paradossale comunicazione della  propria assenza, della propria negatività, del proprio mancare all’altro.  
  
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