domenica 6 maggio 2012

IDENTITA' ITALIANA OGGI. REDAZIONE, Fratelli d'Italie, IL CORRIERE DELLA SERA, 6 maggio 2012

Italiani, europei, cittadini del mondo ma anche orgogliosamente bergamaschi, gardesani, irpini e «bicolore». Un’identità che mescola esperienze, lingue e dialetti, non rinchiusa in confini rigidi ma fortemente ancorata a un territorio: così la vivono i ventenni di oggi, abituati a viaggiare e comunicare con i coetanei di altri Paesi via Skype, pronti a partire in qualsiasi momento per inseguire un sogno ma decisi a difendere e valorizzare le loro radici, con le quali hanno un legame che prevale sulla pura «nazionalità».


Polenta bergamasca
«All’estero mi sento italiano ma quando sono in Italia mi sento completamente bergamasco». Marco Pirovano, 30 anni, ha tratto anche una professione dal suo fervente campanilismo. Dopo aver vissuto all’estero per qualche anno, è tornato nella sua Bergamo, «la città che, pur avendo girato il mondo, per me resta la più bella di tutte». Lì, ha aperto la prima polenteria take away di cui si abbia conoscenza, l’ha chiamata «PolentOne» e in meno di un anno il successo è stato tale che Marco ha aperto già altri quattro negozi in franchising «e ogni giorno mi arrivano almeno 4 o 5 proposte per aprirne di nuovi». Il suo orgoglio, per lui che si definisce un «bergamasco nazionalista», è aver inventato qualcosa di nuovo basandosi «sul piatto più storico di tutti». Dice di essersi sentito italiano nell’anno e mezzo vissuto in Australia, oppure quando si è trasferito a Miami, o ai Caraibi. Ma sul suo avambraccio si è tatuato la scritta «Bergamo» e ora che ha una bambina di tre mesi pensa già a quando le insegnerà a parlare in dialetto:
«Io lo parlo con il 90% delle persone che viene a mangiare da me. Sarei favorevole a farlo studiare nelle scuole: dalla Sicilia al Trentino. Quando ero all’estero i figli degli immigrati magari non conoscevano l’italiano ma parlavano il loro dialetto».
Il suo modello come imprenditore è Antonio Percassi, presidente dell’Atalanta, squadra di cui è tifosissimo: «Nel mio lavoro mi ispiro a lui: io ho fatto della polenta il mio lavoro, mentre lui sta facendo riscoprire a tutti cosa significa essere atalantino. Grazie a lui, ogni nuovo nato a Bergamo e in provincia riceve una magliettina dell’Atalanta».
La rivincita della provincia
Il legame con il territorio che si esprime anche nella rivalutazione dei dialetti è un tratto che torna, dal Nord al Sud. Il poeta Franco Arminio lo chiama «umanesimo delle montagne»: «Sta crescendo una nuova generazione capace di riconoscere la qualità della vita dei piccoli centri». Arminio, che si auto-definisce un paesologo, racconta di suo figlio, 16 anni: «È sempre sui social network, suona la chitarra in un gruppo ma è molto attento alle tradizioni: ha imparato a cucinare, sa fare addirittura la pasta a mano». Sono finiti i tempi in cui la provincia sembrava un luogo da cui si poteva solo fuggire: «Grazie alla Rete i giovani sono ovunque e a contatto con mondi diversissimi. Negli anni ’50 andare a Londra, Bruxelles, Milano significava entrare in contatto con la rivoluzione e l’energia che nei paesi era negata». Oggi per Arminio è online che si ritrova quella forza:
«Il mio auspicio è che il giovane ingegnere che progetta una diga in Cina dalla sua casa di Salerno riesca a fare rete con il suo omologo di Napoli che lavora in Brasile, e quello di Caserta che progetta a New York: se accadrà, ci ritroveremo dinanzi a una generazione sorprendente».
Aria d’Europa
I fan di Lana Del Rey, la nuova starlette americana della musica pop, probabilmente non sanno che dietro il lancio del suo ultimo disco, «Born to Die», c’è un avellinese. Si chiama Patrick Arminio, ha 21 anni, in comune con il poeta ha il cognome e la residenza a Bisaccia, un paese di 4 mila abitanti ai confini con la Basilicata. Insieme a un gruppo di trentenni, Patrick ha fondato «Roll Multimedia Design», uno studio di grafica e progettazione Web che ha clienti in tutto il mondo. È nato a Basilea ma si è trasferito in Irpinia da bambino, viaggia molto per conferenze, workshop, seminari, l’estero lo ritrova ogni giorno nel suo Pc:
«Quando mi confronto con coetanei spagnoli, inglesi, francesi che fanno il mio lavoro, sento che siamo più simili di quello che si crede: l’Europa non è solo un continente geografico».
Alla fine dei viaggi, però, Patrick torna sempre a casa: «Non voglio andare via da Avellino, la solarità degli irpini mi mancherebbe».
Sul lago
Non riesce a staccarsi neanche Chiara, 28 anni, che studiando nella sua casa arrampicata su una collina sopra Gargnano, sul lago di Garda, ha capito presto di voler fare l’insegnante. Ha iniziato a lavorare subito. Prima nelle scuole vicino casa, poi sempre più lontano per avvicinarsi a Milano, città dove oggi insegna e vive con il marito. Ma quando c’è un giorno libero, l’idea di restare nella sua città adottiva non la sfiora nemmeno: «Ho voglia di tornare alla tranquillità dei posti dove sono nata, alla natura». Quando è all’estero, dice di sentirsi particolarmente patriottica. È orgogliosa di essere italiana perché «non esiste un altro posto in cui vorrei vivere», ma la curiosità è un’altra ed è una caratteristica piuttosto diffusa tra la gente del posto: Gargnano è in provincia di Brescia ma spesso chi è cresciuto sul lago fatica a definirsi «bresciano»; piuttosto preferisce dirsi «gardesano». Anche per Chiara è così.
Tutti pazzi per Londra
Lei invece è partita presto. Doveva fare solo un corso di inglese e alla fine si è trovata a fare un master a Londra. Marta Ravasi, 24 anni, di Calco in provincia di Lecco, studia Belle Arti al Wimbledon Art College. Si divide tra lezioni e un lavoro part-time il fine settimana, «per non pesare troppo sui genitori». Il suo sogno «è insegnare discipline pittoriche in un liceo. Vorrei farlo nel mio Paese ma qui in Inghilterra, anche per me che sono straniera, è una possibilità più concreta». Guardando l’Italia da lontano si dice «preoccupata: troppe fragilità. Ammetto di aver sempre cercato soddisfazione personale piuttosto che una sicurezza lavorativa nelle mie scelte scolastiche, ma mentre in Italia ho vissuto questo come una colpa e un problema, qui in Inghilterra mi sento più libera, serena e fiduciosa».
Come Stefano Gurciullo, 22 anni, che se dovesse indicare un inizio della sua apertura al mondo sceglierebbe senza dubbio il «collegio del mondo unito» di Luino, dove ha passato due anni di liceo. Stefano aveva 16 anni quando lasciò Carlentini, in provincia di Siracusa, per partecipare al progetto educativo: «Studiavo con ragazzi provenienti da 80 Paesi diversi, ho diviso la camera da letto con un giovane della Mongolia e un americano». Quando è partito non conosceva una parola d’inglese: «Mi sentivo come una pianta sradicata che era stata messa in un ambiente sconosciuto», racconta. Ma è stato allora che ha scoperto cosa significasse essere siciliano: «L’identità è un costrutto sociale — racconta via Skype —. È attraverso il confronto con l’altro che capisci chi sei». Ogni volta che torna a casa la vista dell’Etna lo commuove. «Da una parte c’è la Sicilia gattopardiana, quella della mafia, dell’omertà, ma con il tempo ho imparato a vederne un’altra attraverso gli occhi dei miei coetanei che restano e provano a migliorare le cose». Come il gruppo di Citizen, un giornale online di Catania che cerca di fare un’informazione «diversa» dal mainstream regionale. Gurciullo fa la sua parte con un blog, il Mafioscopio, dove racconta lo sviluppo delle organizzazioni criminali nel mondo. Oggi vive a Londra:
«Il bello dei nostri tempi è che non sei costretto a scegliere un’identità ma puoi contenerle tutte: io sono siciliano, italiano, europeo».
Intrecci
Italiana ed europea si sente anche Kibra, 25 anni. È nata a Rovigo, il rovigino lo capisce ma non lo parla bene. La sua famiglia si è trasferita presto a Milano ed è questa la sua città. Secondo la scala numerica usata dai sociologi negli studi sulle seconde generazioni di immigrati, il «tasso di italianità» di Kibra è 1.75, per raggiungere il massimo (2.0) le mancano solo i genitori italiani: i suoi sono eritrei. Studi in Relazioni internazionali, lavora nella comunicazione ed è impegnata nella Rete G2, il movimento nato nel 2005 per chiedere una riforma della legge sulla cittadinanza che leghi l’«italianità» a un luogo fisico e non più al sangue.
«Il discorso sulla cittadinanza e quello sull’identità procedono insieme — dice Kibra — prima l’”essere italiana” non era un tema per me, mi guardavo allo specchio e vedevo una ragazza nera, questo in passato mi ha creato confusione ma in fondo mi sono sempre sentita prima milanese e poi, per gli studi che ho scelto, europea. Riflettere sulla nazionalità attraverso G2 mi ha aiutato a mettere a fuoco cosa volevo essere e il confronto-scontro con chi ha idee diverse mi ha permesso di fare ordine nelle mie. È questa la strada giusta per costruire il nostro futuro. Siamo già un miscuglio, come sarà il Paese di domani decidiamolo insieme».
Cittadini
È in G2 anche Jaska, 27 anni, nato nel Punjab indiano e trasferitosi in Italia con la famiglia a 4 anni, prima a Bologna e poi in Umbria. Vive a Perugia, dove dopo gli studi in Scienze politiche ha cominciato a lavorare con una Onlus che si occupa di immigrazione.
«Ho passato in Italia la maggior parte della mia vita, qui ho i miei affetti, gli amici, il lavoro, qui si è formata la mia cultura, ho un legame affettivo con l’Umbria, questa è l’identità. Non posso ignorare le mie origini, sento molto vicina l’India, ma sono italiano, senza ombra di dubbio».
Jaska ha appena ottenuto la cittadinanza, come i fratelli Reas e Shahzad (foto Alberto Cattaneo/Fotogramma), 27 e 26 anni, anche loro arrivati in Italia da bambini: ci hanno messo poco meno di vent’anni a diventare «italiani». Il 22 marzo 2012 hanno giurato fedeltà alle leggi della Repubblica, come Reas ha raccontato nel blog multiautore «La città nuova» su Corriere.it. Quel giorno la mamma, pachistana e musulmana, commossa si è inginocchiata sul tappetino per pregare. Reas è il primo laureato in Giurisprudenza della comunità pachistana in Italia (voto 110 e lode), lavora in un prestigioso studio legale di Milano e collabora con l’Università statale. La cittadinanza, dice, è solo il riconoscimento formale di una condizione ormai radicata.
«Da quando sono italiano a tutti gli effetti la mia vita è cambiata semplicemente da un punto di vista pratico e burocratico. La mia identità è bicolore, sono italiano e sono pachistano. Parlo l’urdu ma la mia lingua madre è l’italiano».

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