sabato 12 maggio 2012

STORIA DELLA SOCIOLOGIA: PIERRE BOURDIEU, La fabbrica dell'uomo gregario, IL MANIFESTO, 11 maggio 2012

Dal catalogo della mostra fotografica «In Algeria. Immagini dello sradicamento», un'anticipazione del testo del sociologo francese scritto negli anni '60 durante l'inchiesta condotta sulle migrazioni interne del paese maghrebino
Il popolo algerino conosce oggi una vera e propria diaspora. Gli spostamenti di popolazioni, indotti o volontari, hanno assunto proporzioni gigantesche. Secondo le stime, si calcola tra 1.000.000 e un 1.500.000 il numero di profughi, e l'ultima stima è probabilmente la più vicina alla realtà. Possiamo affermare, senza paura di sbagliare, che un algerino su quattro vive al di fuori della propria residenza abituale. I fenomeni di migrazione interna sono in realtà molto complessi e assumono forme assai diverse. E i raggruppamenti ne costituiscono solo un aspetto. Accade spesso, ad esempio, che i villaggi abbandonati dagli abitanti partiti per la città siano occupati da persone che provengono da regioni meno calme o più misere, soprattutto nella Grande e Piccola Cabilia.
La migrazione interna assume anche la forma dell'esodo verso le città che appaiono, a chi viene dalla campagna, un rifugio contro la miseria e l'insicurezza. «Qui è il paradiso,» si sente dire spesso ad Algeri. «Siete fuori dalla tempesta». Chi lavora in Francia manda la propria famiglia in città, da un fratello o un parente, quando non può farla emigrare. A volte, si prendono qualche giorno di ferie e vanno a prenderli di persona. Le bidonville continuano a espandersi. I vecchi abitanti della casba, che sono riusciti a trovare alloggio altrove per sfuggire ai controlli e alle perquisizioni, sono stati rimpiazzati dalla folla di gente che viene dalle campagne, ammassata in condizioni inverosimili.
D'altro canto si conosce la situazione miserabile nella quale vive la maggior parte delle popolazioni raggruppate. Molti centri di raggruppamento non sono nient'altro che, per impiegare un'espressione ripresa da uno studio ufficiale, dei «nuclei di miseria» o, se si preferisce, delle «bidonville rurali». Secondo questo studio, sembra in effetti che un terzo dei campi di raggruppamento sia vivibile; in questo caso, i raggruppati hanno accesso alle loro terre oppure possono disporre di terre concesse; il problema della sussistenza non si pone e l'habitat è decente. Si può perciò dedurre che per gli altri due terzi, il problema della sussistenza si ponga, e in modo particolarmente grave nei raggruppamenti (un terzo) attuati per rispondere a degli imperativi operazionali e «destinati a sparire nel momento in cui sarà ristabilita la sicurezza».
Il semplice fatto di cambiare residenza - che assuma la forma di un raggruppamento, di una partenza per la città o per la Francia - è tale da determinare una mutazione globale dell'atteggiamento nei confronti del mondo; il fatto di vivere in un ambiente nuovo comporta una rottura con la tradizione, rottura che si compie, nella maggior parte dei casi, attraverso l'impossibilità, vissuta come provvisoria o definitiva, di fare ritorno alla propria residenza abituale. (..)
L'uomo comunitario fa posto all'uomo gregario, sradicato, strappato alle unità organiche e spirituali nelle quali e attraverso le quali esisteva, allontanato dal proprio gruppo e territorio d'origine, inserito spesso in una situazione materiale tale per cui non riuscirebbe nemmeno a ricordare l'ideale antico di onore e dignità. La guerra e i suoi strascichi, il raggruppamento di popolazioni e l'esodo rurale non fanno altro che precipitare e rafforzare il movimento di disgregazione culturale che il contatto tra civiltà e la situazione coloniale avevano scatenato. Inoltre, il movimento si allarga questa volta all'ambito che era stato relativamente risparmiato perché rimasto al riparo, parzialmente, dalla colonizzazione e perché le piccole comunità rurali, ripiegate su loro stesse nella fedeltà ostinata al proprio passato e alla propria tradizione, avevano potuto salvaguardare i tratti essenziali di una civiltà della quale si potrà parlare ormai solo al passato. A una nebulosa di piccole comunità, fortemente strutturate, fa posto un pulviscolo di individui, senza legami né radici.
Gli antichi valori di onore crollano al contatto con le crudeltà e le atrocità della guerra. Un vecchio cabilo diceva: «Non c'è un uomo che, alla fine di tutto questo, potrà ancora dire "sono un uomo"». L'immagine ideale di sé e i valori a essa associati sono sottoposti alla prova più crudele. Ci sono stupri e rapimenti di donne; ci sono scene durante le quali il marito è interrogato e maltrattato o schiaffeggiato in presenza delle mogli. Mi è stato raccontato che, in un villaggio della Grande Cabilia, i militari accompagnano le donne alla fontana che si trova all'esterno dell'agglomerato, per proteggerle. Al ritorno, alcune vanno a bere il caffè assieme a loro o li invitano. «Il giovane militare entra in casa. Il vecchio, difensore dell'onore, che ha ricevuto dall'esiliato l'incarico di vegliare sulla sua donna o su sua figlia, sa che non può dire niente. Soffre e tace in un angolo. Un giorno, il militare porta qualcosa da mangiare. Il vecchio prende la sua parte e se ne sta zitto. È rovinato».
Come una macchina infernale, la guerra fa tabula rasa delle realtà sociologiche; stritola, tritura e disperde le comunità tradizionali, villaggio, clan o famiglie. Migliaia di uomini adulti sono entrati in clandestinità, sono nei campi d'internamento, in prigione o rifugiati in Tunisia e in Marocco; altri sono partiti per le città d'Algeria o di Francia, lasciando le loro famiglie al villaggio o nei centri di raggruppamento, altri sono nell'esercito francese; altri ancora sono morti o dispersi. Rimangono soltanto famiglie separate e dilaniate. In Cabilia, ad esempio, intere regioni sono senza uomini. In una clinica gestita da religiose, vicino a Chabelel-Ameur, da diversi mesi non si sono verificati parti.

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